Questo 2018 si è chiuso come peggio non si poteva per il calcio italiano.
Solo due settimane fa eravamo lì a sbandierare ai quattro venti di essere tornati finalmente una potenza del calcio perlomeno in Europa, pronti a brindare per un poker agli ottavi come non si vedeva da tempo. Purtroppo l’illusione si è presto trasformata in delusione dopo la clamorosa debacle nell’ultima giornata di coppe europee, con le amare eliminazioni di Inter e Napoli per mano di due squadre inglesi. Se resta difficile da comprendere come i nerazzurri non siano riusciti a battere il Psv in casa, al Napoli, d'altro canto, non è bastato il re di coppa, Carlo Ancelotti, per passare in un girone difficilissimo come lo era però anche per Liverpool e PSG.
A ciò si aggiunge anche la corazzata bianconera in una sconfitta che non fa male alla classifica, ma che lancia chiari messaggi a chi pensava che la coppa con CR7 in più sarebbe stata quasi una passeggiata. La Juve ha perso due volte, la Roma tre. Siamo con i francesi (2 squadre agli ottavi) che però partivano con una squadra in meno, gli inglesi sono lontanissimi (4 su 4 agli ottavi, l’anno scorso addirittura 5 su 5), tedeschi e spagnoli fanno sempre la loro parte (3 squadre a testa). Ci eravamo illusi di poter dimenticare che in Russia eravamo stati semplici spettatori del trionfo francese dalle poltrone di casa. Un Mondiale che a ben vedere era diventato un Europeo nella fase finale (4 squadre europee alle semifinali), ma a vedere ancora meglio era targato Premier League. Infatti quasi tutti i protagonisti rimasti in gioco nelle semifinali in Russia provenivano dal campionato d’Oltremanica: 41 su 92, quasi il 50%.

Una superiorità quella inglese chiara e quasi imbarazzante se si legge il report Football Money League, stilato ogni anno dalla società di consulenza Deloitte: un’analisi puntuale ed affidabile sulla performance finanziaria relativa dei club di calcio. L’ultima edizione, quella del 2018, fotografa una situazione di forza schiacciante. Al primo posto di questa classifica troviamo il Manchester United (davanti a Real Madrid e Barcellona), che genera un fatturato totale di 676 milioni di euro. Ma se continuiamo a scorrere la classifica La Premier League, così come negli anni scorsi, continua a dominare. L'Inghilterra ha dieci squadre tra le prime 20 di quest'anno, la più alta percentuale di sempre per un Paese, con il Southampton (18°) che fa il suo debutto nella Top 20 della Money League, il Manchester City che si consolida tra i primi cinque e Leicester City salito al 14° posto (dal 20° dello scorso anno). Fuori dai primi 20, ci sono altri quattro club inglesi classificati tra il 21° e 30°, tra cui AFC Bournemouth che debutta al 28° posto. Inoltre c’è un passaggio chiave che non fa presagire nulla di buono: a più lungo termine, le modifiche al formato Champions League dal 2018/19 e i nuovi accordi di radiodiffusione nazionali e internazionali della Premier League, che inizieranno nel 2019/20, saranno fattori chiave che influenzeranno l'appartenenza e l'ordine dei club nelle future edizioni della Money League .

La domanda ricorrente che uno si pone è: come si è generato questo potere economico, quali sono i fattori alla base del successo della Premier? Questa egemonia, poi, è destinata a durare (aumentando ancora il dislivello con le altre leghe), o è solo un ciclo destinato ad esaurirsi? Un siffatto potere e squilibrio economico quale influenza avrà sugli scenari futuri del calcio professionistico europeo e mondiale?

1. Per rispondere a tali quesiti bisogna innanzitutto analizzare ciò che rappresenta lo sport professionistico, ed il calcio in particolare, nella nostra epoca. I tempi moderni sono dominati da una nuova dipendenza generata dagli spettacoli televisivi, le cui immagini vengono consumate di continuo e costantemente. Infatti l’evento sportivo man mano si è trasformato in un vero e proprio show televisivo (le finale sono precedute anche da balli e musica nel prepartita) dato che cattura perfettamente l’attenzione di una gran massa di persone. Oltre ad una dipendenza visiva, ne genera anche una emotiva, poiché in gioco nella manifestazione sportiva non c’è soltanto la gradevolezza estetica, ma anche l’identificazione nei partecipanti, che a sua volta genera senso di appartenenza. Guardare partite e competizioni sportive è un atto di partecipazione democratica, tutti – senza distinzioni sociali – possono guardarlo, e tutti ne sono appassionati. Lo aveva compreso benissimo Roosevelt nel 1942, quando sollecitò l’allora commissioner della Major League di baseball a proseguire con le partite anche durante il periodo bellico, sostenendo come lo sport ed il suo spettacolo garantisse momenti di svago e socialità alle persone e confortandoli dalle fatiche quotidiane. Quello che avviene oggi differisce dai tempi rooseveltiani solo per il grado d’intensità tecnologica, l’intrattenimento non avviene più solo dal vivo, e quindi per una ristretta cerchia di persone, bensì su una scala molto più ampia, raggiungibile grazie alle tecnologie televisive. La Premier League è stata la prima a seguire la strada intrapresa dagli americani decenni prima, ovvero la completa trasformazione degli eventi sportivi in uno show e prodotto televisivo. Non più l’evento calcistico esclusivamente nei giorni di riposo del sabato e della domenica, cosicché le masse di persone potessero radunarsi allo stadio per assistere dal vivo allo spettacolo, bensì usare il mezzo televisivo per accrescere il pubblico ed avere il calcio in tutte le case, tutti i giorni della settimana, tutti i mesi dell’anno, ovviamente a pagamento. Si è così passati da un’epoca in cui il calcio poteva vedersi in diretta TV solo in occasione delle grandi partite internazionali a un’epoca dominata sulla moltiplicazione delle immagini calcistiche, non per tutti, solo per quelli disposti a pagare, creando un nuovo bene di consumo rivolto ai nuovi «drogati».

La data spartiacque per questa trasformazione – che a ben vedere si può considerare una rivoluzione a tutti gli effetti poiché ha mutato radicalmente le tradizioni del calcio europeo – è quella dell’estate 1992, in cui entrò in vigore il contratto quinquennale per la cessione dei diritti televisivi siglato dall’allora neocostituita Premier League con l’emittente Sky di Rupert Murdoch, per la cifra record di 304 milioni di sterline. Da questo momento si è inaugurata l’era dei diritti televisivi, caratterizzata dalla collaborazione tra i principali club calcistici di ogni nazione, strutturati Leghe, e i grandi network mediatici. Tuttavia si è creata una forma di reciproca dipendenza, dal momento che oggi non potrebbe esistere un grande club calcistico senza la forza economica derivante dalla cessione dei diritti televisivi, ma allo stesso tempo non potrebbe esistere una pay tv senza la forza del contenuto sportivo, con la sua insuperata capacità di generare ascolti in diretta. In alcuni casi, come il Messico, il concetto è portato all’estremo poiché i grandi network televisivi hanno acquistato direttamente le proprietà delle grandi squadre di calcio. Se una volta il ruolo preponderante era delle federazioni, aventi il compito di definire regole e format delle competizioni sportive, protagoniste attuali sono le Leghe, che si occupano solo dello sviluppo in senso commerciale del vertice di un movimento, quello che produce più attenzione. Inoltre per la particolarità del mercato delle competizioni sportive di squadra – non si può avere un accentramento monopolistico nelle mani di un solo club, ma si ha una cooperazione forzata, perché non si può produrre e vendere spettacoli sportivi da solo, ma può farlo solo in accordo con altri club – è stato necessario creare una struttura centralizzata capace di armonizzare e massimizzare l’interesse di tutti i club aderenti.

La Premier League è stata brava a capire tutto ciò prima degli altri, e si è data una forma societaria privata partecipata dai club di volta in volta militanti nella massima serie inglese e dotata di un management autonomo super partes che facesse il bene comune. Inoltre è stata anche avvantaggiata per la sua crescita economica perché ha potuto far affidamento su un mercato nazionale molto ricco e soprattutto molto competitivo. Infatti gli abbonati paytv in terra inglese sono più del doppio rispetto qualunque altro paese europeo. Il solco economico con le altre Leghe calcistiche europee deriva proprio da qui, basti pensare al ridimensionamento del calcio olandese, che non potendo contare per ragioni demografiche su un mercato interno di grandi dimensioni ha dovuto abdicare in pianta stabile dai vertici del calcio europeo. Profondità del mercato, e competitività: questo l’altro fattore decisivo a favore della Premier League. Tra il 2010 e il 2015, i diritti tv della Premier League sono cresciuti in modo vertiginoso soprattutto grazie all’ingresso nel mercato interno di BT Sports come concorrente del gruppo BskyB. Per il triennio 2016-2019, infatti, i due competitors hanno sborsato oltre 5 miliardi di sterline (7 miliardi di euro) per trasmettere le partite in Inghilterra. Cifra destinate a salire ancora nel prossimo contratto per la cessione dei diritti televisivi interni, dal momento che nel triennio 2019-2022 solo con la cessione di 5 pacchetti su 7 si è raggiunta la cifra di 4,5 miliardi di sterline. Quindi il valore economico della Premier è globalmente superato solamente dal contratto televisivo dell’Nfl con i grandi network americani.

2. Il secondo motivo che spiega il maggior potere – economico – della Premier League chiama in causa la geopolitica. Storicamente ci si è sempre interrogati sulla natura del potere imperiale inglese e sui fattori che ne guidarono l’espansione globale. In particolare è risultata decisiva la capacità di sfruttare in maniera pionieristica e sistematica le opportunità della globalizzazione, di più e meglio delle potenze rivali. La superiorità commerciale della Premier League quindi scaturisce dall’aver meglio sfruttato le opportunità della globalizzazione rispetto alle altre leghe calcistiche europee. Si può tranquillamente dire che la Premier oggi rappresenta una forma di potere neoimperiale. Gli inglesi hanno capito prima degli altri che il bacino d’utenza europeo è solo una briciola se paragonato al pubblico asiatico e cinese. Grazie ad innovative strategie di marketing, seguendo l’esempio delle grosse leghe americane, la governance della Premier – rappresentata da un manager e dal suo team, non un presidente – è riuscita ad allacciare contatti e siglare una quantità sterminata di contratti televisivi e commerciali, soprattutto in Asia. Oggi il campionato inglese è un evento globale seguito ovunque, le partite vengono trasmesse in centinaia di nazioni diverse. Fino a qualche anno fa la Premier ricavava dalla sola cessione dei diritti tv all’estero più di quanto le altre quattro grandi Leghe calcistiche europee guadavano complessivamente dalla cessione dei diritti tv nazionali e internazionali. Questa successo planetario si ha per una maggiore penetrazione televisiva favorita da due fattori specifici: la lingua inglese, che è parlata ovunque, e il potere del meridiano di Greenwich (riconosciuto come standard universale – e quindi mediano zero – nella conferenza di Washington nel 1884 vincendo la disputa contro la Francia). Lo spettacolo calcistico che va in scena ogni fine settimana negli stadi inglesi, prendendo forma in un punto temporale mediano, consente una visione in contemporanea tanto all’asiatico che cena, all’europeo che si gode il riposo pomeridiano del fine settimana e all’americano che fa colazione o pranza, e che in quell’ora non ha altri spettacoli sportivi da vedere in tv. Questo produce un vantaggio competitivo enorme, generato dalla stessa natura del prodotto televisivo sportivo, che vive quasi unicamente della sua visione in diretta, al contrario delle serie tv e di altri prodotti televisivi.

3. Oltre alla geopolitica del passato, che spiega il successo spettacolare del presente, ci sono anche altri fattori da prendere in considerazione. Il principale è da scovare nei criteri di distribuzione dei soldi dei diritti tv. Le regole che i club della Premier League si sono dati negli scorsi anni impongono una divisione equa dei diritti tv: integrale per quelli venduti all’estero e al 50% per quelli venduti sul mercato interno. Il rapporto tra i club che ricevono di più e quelli che ricevono di meno è di 1.6, di gran lunga il più basso delle principali Leghe calcistiche europee. Una strategia voluta di equilibrio competitivo, che punta sulla forza del sistema in quanto tale, e non solamente su quella di pochi club blasonati. Quanto questo stia producendo effetti trasformativi nell’ascensore sociale della Premier League è sotto gli occhi di tutti. Il miracolo sportivo del Leicester nel 2016 è sicuramente in gran parte dovuto a questo sistema, che insieme ad un oculato investimento del compianto magnate thailandese Vichai Srivaddhanaprabha, ad una attenta politica di scouting che ha permesso di scovare a basso costo talenti come Vardy, Mahrez e Kanté, alla guida di Claudio Ranieri, e ad un pizzico di fortuna ha portato ad un risultato così inaspettato e sorprendente. E non è un caso isolato perché l’aristocrazia delle squadre in lotta per il vertice si allarga sempre più. Inoltre il potere economico delle squadre di Premier si dilaterà nei prossimi anni potendo contare su nuovi stadi capaci di far aumentare ancora ricavi e solidità patrimoniale delle singole squadre. Questo livellamento competitivo contribuisce ad aumentare la spettacolarità, in perfetta osservanza ideale della regola dell’agonismo greco acutamente analizzata da Nietzsche in un suo scritto giovanile: i greci, civiltà che ha creato la competizione sportiva, esiliavano i troppo forti, quelli non battibili, perché per esserci agonismo, e quindi sport, deve esserci continua rivalità, continua messa in discussione dei rapporti di forza. Su questo principio gli americani hanno fondato il potere spettacolare delle proprie Leghe, con l’avvicendarsi dei rapporti di forza tipico dell’Nba, o l’estrema incertezza nella Nfl. La Premier League attuale si è ispirata anche in questo caso dagli americani: ogni partita è incerta nel suo esito, e ogni risultato vive del suo possibile rovesciamento, soprattutto nei minuti finali. Questa incertezza vale più di ogni altra considerazione di tipo tecnico-tattico. Il campionato più ricco e più visto del mondo non è quindi quello in cui giocano le squadre più forti del mondo. Il ranking Uefa fotografa in maniera molto nitida questa realtà: in quello per nazioni l’Inghilterra è seconda dietro la Spagna, in quello per club la prima squadra inglese è il City al settimo posto. Tuttavia questo non inficia la spettacolarità televisiva. Anzi, quest’imprevedibilità è un fattore importante anche per favorire le scommesse sulle partite, aspetto attrattivo anche dei popoli asiatici, per i quali in molti casi la passione per il calcio deriva proprio da una più forte passione per le scommesse. È interessante notare come nelle ultime stagioni la Champions League abbia prodotto degli scenari diametralmente opposti, dal momento che la formula attuale consolida i ricavi di chi è già forte: la distribuzione dei ricavi garantiti dalla cessione dei diritti televisivi ha contribuito a scavare il solco tra le squadre che vi accedono con regolarità, e magari altrettanto regolarmente arrivano alle fasi finali, e tra chi nemmeno vi partecipa. E in molti casi contribuisce a distruggere, assieme ad altri fattori, gli equilibri competitivi dei campionati nazionali, aumentando la prevedibilità del vincitore finale e diminuendo quindi la loro spettacolarità. Questo è vero soprattutto per Italia, Francia e Germania. La Juventus ha vinto con largo margine le ultime sette edizioni della Serie A. Il Paris Saint-Germain ha portato a casa cinque delle ultime sei edizioni della Ligue 1, migliore performance del Bayern in Bundesliga che ha vinto sempre il campionato gli ultimi sei anni. Egemonie sportive apparentemente inattaccabili di questo tipo sono impensabili nella Premier League attuale. Anche la stessa Champions League, ha visto sin dagli anni 90 un’alternanza annuale tra vincitori, salvo poi vedere negli ultimi anni restringere sempre di più il numero di squadre che arrivavano fino ai quarti e semifinali, sino al dominio del Real Madrid dell’ultimo triennio. Tutto ciò giusto quando sono iniziati ad aumentare i premi in denaro per i club.

4. Un altro fattore d’interesse globale della Premier League è dato dalla fortissima presenza di calciatori e allenatori stranieri nelle rose dei propri club. Poche cose producono eccitazione sportiva in chi guarda quanto l’identificazione nelle gesta di un proprio connazionale impegnato all’estero, specie se vincente. Più stranieri, più mercati televisivi da conquistare alla propria causa. Anche l’Italia non è indifferente al fascino d’Oltremanica, infatti gli ascolti medi fatti registrare dalle partite di Premier League sono paragonabili a molte partite della Serie A. Infine, più della metà dei proprietari di club sono stranieri. Capitali americani, russi, arabi, asiatici, a conferma di una Lega dalla natura globale anche in chiave di attrattività interna, e non solo di proiezione esterna. Una tipologia variegata, che è andata modificandosi nel corso degli anni: dall’investimento nel calcio come fattore di prestigio e formidabile strumento relazionale, Abramovic docet, all’investimento per guadagnare direttamente col calcio, grazie anche alle nuove norme per calmierare la spesa in stipendi dei calciatori approvate nel 2013. Da qui l’aumento della profittabilità di tutti i club, con fatturati ed utili record. Una forma d’investimento è quella che prevede l’acquisto di una squadra della Championship, per tentare poi la scalata al campionato maggiore. Come esempio prendiamo ancora il Leicester, che fu un investimento partito dalla Championship. Oppure è anche indicativa, da questo punto di vista, la parabola della famiglia Pozzo. Fino a pochi anni fa il centro dei suoi investimenti calcistici era rappresentato dall’Udinese, con una squadra capace di grandi risultati e uno scouting apprezzato a livello internazionale, mentre il piccolo Watford acquistato nella seconda serie inglese ricopriva il ruolo di una squadra riserve. Ora, a distanza di qualche anno, il Watford con la semplice permanenza in Premier League fattura più del doppio dell’Udinese. Ed è proprio qui, nella seconda serie inglese (l’equivalente della nostra serie B), dove ogni anno si gioca la partita più ricca del mondo. La squadra che si aggiudica la finale dei playoff di Championship è come se vinca la lotteria data l’enorme guadagno che ottiene. Ad esempio il Fulham (vincitore della scorsa stagione del playoff ai danni dell’Aston Villa) ha ricevuto 182 milioni di euro (tra premi degli sponsor, diritti tv, introiti dei botteghini e vendita di merchandising) e ne riceverà altri 140 qualora la prossima stagione dovessero evitare la retrocessione (anche qui una somma tra i diritti tv, i premi di partecipazione e gli incassi provenienti dagli sponsor).

5. L’altro aspetto che contribuisce al successo televisivo della Premier League è il potere emozionale delle comunità di tifo. Nel caso inglese nonostante il prodotto calcio sia consumato prettamente attraverso il mezzo televisivo, la gente non ha smesso di andare allo stadio. La Premier League detiene infatti il record del tasso di riempimento degli stadi nelle partite stagionali con il 95%. Inoltre maggiore è la partecipazione di pubblico allo stadio, maggiore è la spettacolarità televisiva. La massa di spettatori resa in televisione coinvolge anche il pubblico da casa con: i canti tipici; l’esultanza tipica della Premier League, specie nei goal importanti, con i calciatori fisicamente abbracciati al pubblico a bordocampo; lo spicchio dei tifosi avversari sempre presenti, anche vocalmente. Tutto ciò è un fattore di attrazione fortissimo per il telespettatore che sente questo calore, potenziato dalle nuove tecnologie che sempre più cercano di riprodurre gli effetti dello stadio anche tra le mura domestiche. Ed è stato recepito anche da chi comanda, che ha come obiettivo strategico irrinunciabile proprio quello di avere stadi sempre pieni. Su questo aspetto hanno certamente influito le strategie adottate dalle istituzioni politiche e sportive per arginare la violenza incontrollata e le tragedie degli anni Settanta e Ottanta, gli investimenti sulla sicurezza e sull'impiantistica, e il progressivo allontanamento della working class dagli stadi dovuto all'aumento del costo dei biglietti. Chiunque abbia la fortuna di assistere ad una partita di Premier sente immediatamente che per i tifosi locali l'appartenenza al proprio club conta moltissimo, tifare significa appartenere a una comunità radicata sul territorio, che vuole contare, però senza sfociare nelle forme violente degli ultras. Le proprietà straniere rispettano questa radice storica. È infine tanto il fascino televisivo delle partite della Premier League da fungere da richiamo turistico globale. Ciò è favorito anche dal fatto che la Premier ha numerose squadre localizzate nell’area metropolitana londinese, la capitale più ricca e attrattiva d’Europa.

6. L’ultimo punto sul quale vorrei soffermarmi è che lo spettacolo della Premier è così apprezzato anche per la notevole cura dei dettagli. Per comprendere la superiorità manageriale e commerciale della Premier League bisogna analizzare proprio questi dettagli. Ad esempio i giardinieri. Siamo abituati a pensare a calciatori, allenatori, presidenti e procuratori come protagonisti del sistema. In Premier League invece i protagonisti dello spettacolo calcistico sono anche le persone che preparano e curano il campo da gioco, il pitch. Ogni club ha degli staff composti da giardinieri, incessantemente all’opera prima e dopo la partita. Campi curatissimi, anche nella geometria dei disegni creati dai tagli con le moderne macchine tagliaerba elicoidali. Geometrie che colpiscono e impressionano l’occhio dello spettatore televisivo, anche in questo caso innescando un rapporto forte. Non è un caso che la federazione inglese metta in palio ogni anno il premio di groundsman of the year in tutti i campionati. Esiste anche un istituto di alta formazione proprio per giardinieri professionisti.

Fin qui la ricostruzione dei motivi del successo del calcio inglese, ma quali saranno i possibili scenari futuri? Ci sarà qualcuno in grado di insidiare il potere della Premier League?

La risposta è presto fatta, difficilmente potranno farlo gli altri campionati calcistici nazionali. La capacità di penetrazione della Premier League nei mercati globali le permette una posizione di forza destinata a crescere nei prossimi anni, come dimostrano anche i contratti e gli accordi già firmati per il prossimo triennio. La forza commerciale planetaria del calcio inglese è anche rappresentata dallo sbarco del mercato televisivo americano, attraverso l’accordo con un colosso mediatico come l’Nbc, per un milardo di dollari circa. Un investimento così ingente fa presumere che si punterà a farlo fruttare creando ancora più audience e dipendenza. In Europa, solo la Spagna si è dimostrata capace di navigare con successo le acque della globalizzazione calcistica, anch’essa potendo sfruttare meridiani e lingua, la forza d’attrazione planetaria di due club simbolo come Real Madrid e Barcellona, una superiorità tecnica e tattica molto variegata, e una sapiente programmazione del talento calcistico. A questo lungo elenco va aggiunta poi una consolidata capacità manageriale nella gestione degli aspetti organizzativi e di marketing dello sport-spettacolo, rintracciabile anche nel basket e nel motociclismo. Inoltre, notizia recente, la Liga sbarcherà anch’essa in America: una partita a stagione del torneo spagnolo negli Stati Uniti. Tutto ciò per allargare i propri confini in termini di audience e di prospettive commerciali. Inoltre col passaggio, da qualche anno a questa parte, alla vendita collettiva dei diritti televisivi, si iniziano ad avere i primi frutti in termini di competitività (già elevata) anche di altri club oltre ad i soliti Barcellona e Real Madrid, e le vittorie in serie in Europa League di Siviglia e Atletico Madrid lo dimostrano. Per quanto riguarda la Germania, nonostante la forza della sua economia, difficilmente però la Bundesliga riuscirà a sfondare nei mercati televisivi internazionali. C’è una barriera linguistica e culturale che rende l’esportazione della cultura popolare tedesca un elemento inverosimile. Basta osservare che la musica tedesca non è diffusa nel mondo, così come i film e le serie tv. Non solo, ma gli stessi tedeschi, come visto in precedenza, non sono un popolo di «drogati televisivi» delle tv a pagamento, preferiscono ancora il calcio nella sua tradizionale forma liturgica e comunitaria come spettacolo dal vivo. Non sorprende quindi la forte resistenza alla trasformazione degli orari delle partite per assecondare le esigenze televisive. Sull’Italia, beh, c’è poco da dire. La parabola del calcio italiano assomiglia a quella già vissuta in tanti settori industriali. Una tradizione consolidata, potenzialità globali incredibili date dalle tante vittorie europee dei nostri club, dalla Nazionale vincente ai Mondiali del 2006, da tante icone calcistiche globalmente riconosciute, ma un’incapacità manageriale del sistema e dei suoi attori di sfruttare in maniera proattiva le leve della globalizzazione, con qualche eccezione (come la Juventus). Le Leghe emergenti, Stati Uniti e Cina in testa, non possono rappresentare una reale minaccia. La Major League Soccer (Mls) statunitense, pur in crescita da anni, è troppo priva di storia, talento calcistico e fascino per rappresentare un concorrente reale, tanto che la vera passione televisiva per il calcio degli americani è rivolta alla Premier League. La Cina ha dalla sua la forza bruta del capitalismo politico, che le sta permettendo di strappare ai club europei giocatori nel pieno della carriera, ma ha ancora un lungo e complesso lavoro da compiere per creare un vero movimento di base, un know-how calcistico e una forte struttura organizzativa, prima di potersi pensare come Lega attraente per il pubblico internazionale. Più che minacce, le nuove leghe statunitense e cinese sono al momento dei validi alleati della Premier League, perché allargano il mercato degli appassionati calcistici.

E la Champions League? La finale di Champions League resta ancora un grande evento sportivo planetario, l’unico assieme al Superbowl che riesca a generare ogni anno un’audience televisiva superiore ai cento milioni di persone. Ma il format della competizione si sta indebolendo. Se il successo televisivo di uno spettacolo sportivo sta nella dipendenza che riesce a creare, la Champions non riesce pienamente nel compito. Ci riesce solamente nella parte finale e anzi, dilatando il suo calendario ottiene un effetto inverso nell’interesse. C’è poi il problema della collocazione oraria. Lo svago serale infrasettimanale di milioni di europei va a scapito degli asiatici e degli americani. Si è cercato di ovviare a partire da quest’anno con alcuni match disputati alle 19. Ma è difficile pensare di anticipare ancora l’orario che andrebbe poi a penalizzare il pubblico europeo nei pomeriggi lavorativi di metà settimana. Proprio da queste debolezze origina la proposta di creazione di una Superlega europea, che ora sta virando verso una riforma a più ampio raggio per la Champions, per farla diventare quanto più simile ad una Super Lega, con le partite che si disputeranno nei weekend. Ma ancora è in fase di studio, per cui, almeno nel medio periodo, l’egemonia della Premier League non sembra in pericolo. L’unico rischio è che questa internazionalizzazione così esasperata potrebbe creare un implosione interna del sistema. La progressiva disaffezione delle comunità di tifo locali per l’eccessiva commercializzazione del campionato, con la passionalità dirottata su realtà calcistiche locali delle serie minori, magari direttamente partecipate dagli stessi tifosi, potrebbe in qualche modo deteriorare alcuni aspetti che contribuiscono al suo successo televisivo globale. Nel lungo termine, il grande interrogativo è se e quanto durerà il ruolo del calcio come «droga televisiva» planetaria o se verrà rimpiazzato da qualcos'altro (ancora da creare). Ammesso che nel futuro non evolveremo in civiltà non più dipendenti dalle immagini. Una rivoluzione che darà vita a nuove abitudini e nuove modalità ricreative di massa. L'unico modo forse per non vivere in un mondo dominato dalla Premier League.