«È una rivolta sire?»
«No. È una rivoluzione »

O forse una rivoluzione no. Un cambio di passo sicuramente. Chiamatela come volete comunque, ma la vittoria dell’Ajax non può essere letta semplicemente come un’impresa. Come un episodio straordinario che rompe la prevedibile routine dell’oligarchia calcistica europea. Molti hanno tirato in ballo una partita di tanti anni fa in cui un incredulo Shankly, all’epoca -forse il miglior allenatore al mondo- guardava il suo Liverpool -forse la squadra migliore al mondo- venire demolito da una banda di ragazzini olandesi capitanati da un certo Cruyff. il resto ovviamente è storia. Ecco quella era una rivoluzione, sul serio. Quella di Torino non avrà lo stesso portato.

Eppure veste un valore simbolico importante.

Il calcio contemporaneo, sembrava evidente appena una decina di mesi fa, andava verso una sola direzione: strapotere atletico, forza fisica e una scientifica distribuzione delle doti tecniche. L’anomalia blaugrana catalana - seguita di conseguenza da quella roja spagnola- sembrava, per l’appunto, un’anomalia. Una banda di piccoletti che palleggiavano in giro per il campo da gioco umiliando mezzo mondo in controtendenza con i giganti del resto d’Europa. Tuttavia pure quel sogno finì presto con le dimissioni di Guardiola e soprattutto restò circoscritto alla realtà di Barcellona senza scuotere poi così tanto le fondamenta del calcio odierno. 

Quello che è successo dopo ha il sapore amaro della normalizzazione.

Quattro Champion’s League al Real Madrid, il mondiale alla Francia e - qui da noi- l’egemonia della grigia concretezza incarnata dalla Juventus. Tutto sembrava raccontarci che non c’è alternativa al futuro o che, quantomeno, il futuro era uno e uno solo: muscoli, difensivismo, la giusta dose di tecnica e tanta Real Politik. Ma era la trappola di una narrazione egemone, che qui da noi si è fatta sostanzialmente univoca sotto gli slogan del “vincere è l’unica cosa che conta”, minimizzando gli effetti del “bel gioco”, postulando l’antiteticità di efficacia ed estetica.

Eppure i segnali per presagire un cambio di guardia c’erano tutti.
Il Barcellona, prima di tutto, nonostante le prestazioni altanelanti in Champions League (con la felice eccezione dell’edizione 2015) ha dominato il campionato spagnolo negli ultimi anni vincendone 3 edizioni su 5 contro la sola vittoria nel 2017 di un Real Madrid che pure veniva considerato da molti - e a ragione verrebbe da dire- la squadra più forte al mondo. Allo stesso tempo l’estetica guardiolana annullava il cinismo di Mourinho, Pochettino e Conte portando il Manchester City a infrangere quasi ogni record immaginabile nell’ultima Premier League.
In campo europeo, poi le prestazioni spumeggianti del Liverpool di Klopp avevano fatto suonare un campanello d’allarme, così come le ripetute vittorie di Emery e la finale giocata dall’Ajax in Europa League. E persino qua da noi, dove la religione della concretezza ha nella Juventus i suoi maggiori profeti, i risultati del Napoli di Sarri (unica squadra italiana ad aver superato i 90 punti senza vincere lo scudetto), con una rosa nettamente inferiore a quella dei rivali bianconeri, stavano comunicando qualcosa.

A solo un anno di distanza quello che è certo è che questi segnali si sono fatti molto più potenti. Il predominio blaugrana in Spagna si è fatto ancora più evidente, soprattutto alla luce del crollo del Real Madrid e della capitolazione del Cholismo, ancor più rigida ideologia della concretezza nata dall’altro lato della capitale spagnola.
La Premier League ha radicalizzato una tendenza che già era evidente dall’approdo di Klopp e Guardiola sulle coste inglesi con l’arrivo di Emery, che sembra star dando forma nuova all’Arsenal, e di Sarri che sta lentamente prendendo confidenza con pubblico e spogliatoio e da ultimo con l’esonero di Mourinho dal Manchester United.
Ma dove la rivoluzione -che poi tanto rivoluzione non è- si è rivelata nella sua manifestazione più potente è certamente la dimensione europea. Tra le 6 squadre ancora in campo nel momento in cui si sta scirvendo questo pezzo spiccano Il Barcellona e l’Ajax, già qualificate, il Liverpool, con un piede e mezza gamba già alle semifinali e il Manchester City che dovrà recuperare in casa propria la sconfitta per 1 a 0 subita al White Hart Lane contro il Tottenham.
Un’impresa non semplice, ma che pare comunque tutt’altro che impossibile. Parliamo di 4 fra le squadre che esprimono il calcio più esuberante al mondo e che hanno in comune tanta gioia e sistemi di gioco maniacali, rapidi, offensivi e divertenti. E l’Ajax in questo scenario appare come il la realtà più rappresentativa proprio perché non può contare sui fatturati stellari delle altre tre (non solo immaginazione, ma anche denaro al potere. Questo nel calcio pare -invece- un processo irreversibile) e forse perché, guardate un po’ il destino, si è ritrovata ad affrontare ed eliminare proprio le due squadre più rappresentative di quel modo di intendere il calcio che fino a una anno fa sembrava egemone e che oggi pare, tutto sommato, un po’ meno vincente.
Ma come si diceva, l’Ajax si è fatta solo interprete di un processo già pienamente in atto. Vincere è l’unica cosa che conta, non importa come. Ne siamo ancora così convinti?