Ricordo… come tutto iniziò.
Frequentavo la terza elementare e, come la maggioranza dei miei compagni di scuola, collezionavo le figurine Panini dei calciatori.
L’album era una cosa sacra, da guardare e riguardare, con soddisfazione per i calciatori presenti e con rammarico per quelli mancanti.
La scuola era il luogo di una delle tante occasioni di scambio, in cui veniva pure arbitrariamente dato un valore alla singola figurina, in base alla sua (presunta) rarità.
Oppure era il luogo in cui si poteva dare vita al “soffino”, o “soffietto”, gioco in cui era possibile sottrarre un buon numero di figurine all’avversario di turno, in base alla puntata e alla potenza, appunto, del soffio.
Ma la scuola era soprattutto la sede dei primi approcci con il mondo del tifo, dove avvenivano gli sfottò, magari pure senza conoscere i risultati delle partite.
Le squadre tifate erano sempre le stesse: Juve, Inter, Milan e Fiorentina (qua siamo in Toscana). Io avevo scelto la Juve, perché mio padre era juventino; non mi aveva imposto nulla, ero più che altro attratto dalla simpatia che mi suscitava la contrapposizione che aveva con mio zio, interista.
E quel piccolo astio che si avvertiva nelle loro discussioni mi aveva fatto capire che fare il tifo per una squadra non era solo un passatempo da bambini, dove l’espressione massima poteva essere il fingersi questo o l’altro calciatore durante le partitelle in strada, quelle con due sassi a fare da pali; era un qualcosa che ancora non avevo ben compreso, ma che mi faceva istintivamente sentire diverso da chi tifava per un’altra squadra. E la pienezza di questa comprensione arrivò, diretta e fulminante, in un pomeriggio di inizio estate.
Verso sera un nostro parente entrò in casa, tutto trafelato, correndo, e gridando: La Juve ha vinto lo scudetto!!!”.
Vidi mio padre alzarsi dalla poltrona e cominciare a saltare esultando e ad andare subito verso il telefono per dirne quattro all’interista dello zio”.
Fu una cosa che mi impressionò, perché non l’avevo mai visto così; era un uomo molto schivo e introverso e la reazione che ebbe in quel frangente mi illuminò su un nuovo significato da attribuire alla passione, quella per una squadra. Cioè su quel tipo di sentimento, diverso da tutti, che riesce a trasformare una persona in un’altra più viscerale, più animalesca, capace di tirar fuori espressioni e atteggiamenti mai visti nella quotidianità. Tutte componenti di quello slancio, a quanto sembra consolidato, che delinea un senso di appartenenza mai avuto per altro.
Come detto prima, nonostante la passione per le figurine e la simpatia juventina, non seguivo le partite e i risultati, ma quello che vidi quella sera mi cambiò per sempre.

Per la cronaca: la Juve aveva vinto 2-1 in casa contro la Lazio e l’Inter, capolista avanti di un punto, aveva perso a Mantova grazie ad una papera del portiere, che si lasciò sfuggire la palla di mano.
La cosa che mi colpì di più, allorché in TV passarono i filmati, fu proprio la reazione del suddetto portiere, Giuliano Sarti, che dopo la malefatta iniziò a battere la testa contro il palo.

Era giovedì 1° giugno 1967, e quel giorno diventai juventino militante. E capii che l’amore poteva essere anche una cosa diversa da quello riservato alle persone. Poteva essere attaccamento ad una squadra di calcio, con gioia per le vittorie, con tristezza per le sconfitte, ma soprattutto poteva essere il sentirsi collocato in un sottoinsieme ben definito, mai sconfinante negli altri.

E a settembre sarei tornato a scuola, con una nuova consapevolezza, guardando tutti gli altri dall’alto in basso, e pronto per l’album di figurine della nuova stagione.