“Gli allenatori a bordocampo con la tuta? Li multerei”, tuonava qualche anno fa in un’intervista concessa a un famoso magazine l’allora tecnico del Milan Massimiliano Allegri. Motivazione? “In quel momento stai rappresentando la società, non puoi indossare la tuta”. Dichiarazioni emblematiche, che riassumono in poche parole l’evoluzione del ruolo del mister negli ultimi decenni, evoluzione figlia dei cambiamenti che hanno coinvolto e trasformato il mondo del pallone, nonchè il modo di intenderlo. La dipendenza sempre più marcata del calcio dagli aspetti economici e l’introduzione delle nuove tecnologie dell’informazione hanno portato le società a svilupparsi ed evolversi non solo sotto i profili legati al campo e alle prestazioni agonistiche, ma anche per quanto riguarda le frontiere del marketing, della multimedialità, dell’interazione coi propri tifosi, del potere e del peso politico. Per essere all’avanguardia al giorno d’oggi, un club deve necessariamente configurarsi come azienda e promuovere il proprio brand in maniera competitiva su scala mondiale. L’immagine è diventata priorità fondamentale per divulgare valori, ideali e tradizione di una società. In questa analisi rientra anche l’immagine estetica di dirigenti, calciatori e staff tecnico, chiamati a farsi promotori e divulgatori dell’identità del club che rappresentano tramite un’efficace comunicazione visiva. In un calcio moderno dove apparire è tutto, l’abito la fa da padrone e gli allenatori, sempre in prima linea davanti a telecamere e giornalisti, sono chiamati ad adeguarsi. Tuttavia, non si tratta solamente di una questione di apparenza, ma anche di un mutamento del ruolo del mister, non più confinato all’aspetto sportivo ma esteso a quello manageriale. L’allenatore-manager non si limita a preparare un match o ad allenare i propri giocatori, ma partecipa alle scelte della società e, in molti casi, detta le linee guida che quest’ultima dovrà seguire in vari ambiti, il più delle volte in sede di mercato. E’ una figura nuova, che accentra su di sé poteri e responsabilità che un tempo non aveva. A tale figura si contrappone quella più nostalgica, ma forse anche più genuina, del tecnico in tuta, dedita totalmente al lavoro di campo. Figura che vive quotidianamente e in maniera viscerale la propria realtà calcistica, che molto spesso viene da una lunga gavetta e ha vissuto a pane e pallone per diversi anni prima di raggiungere determinati traguardi. La tenuta sportiva simboleggia quasi un modo più sbarazzino di intendere il calcio, molto più libero, a contatto coi giocatori, quasi a volersi confondere con loro, diventare parte del gruppo ma senza che questo comporti perdita di autorevolezza. Meno rigore, meno distacco, più coesione, più coinvolgimento. “Sono un allenatore, non un indossatore”: parole di Maurizio Sarri, ex guida dell’Empoli dei miracoli e ora primo artefice di un Napoli che gira a mille. L’arrivo in una grande piazza non ha cambiato di una virgola il mister napoletano, uomo umile, schietto e coerente con le sue scelte, esponente di un calcio e di un modo di vedere il calcio più romantico e sempre più raro. Non ha rinunciato neanche alla sua tuta Sarri, nemmeno di fronte agli “avvertimenti” di De Laurentis a inizio stagione: “Giacca e cravatta, dobbiamo mantenere un certo profilo”, gli disse il presidente partenopeo, invano. Per Sarri il completo sportivo è sacro e ad esso non si rinuncia: “A me sembrano strane le persone che vanno in campo in vestito, anche quando piove. Fossi un direttore sportivo, sceglierei in base ad altre caratteristiche, non alla tuta". Ed è proprio quest’ultima frase a portarci al succo della questione. Uno studio effettuato dall'università di Portsmouth è addirittura giunto alla conclusione che l'allenatore abituato a portare l'abito elegante sia più propenso a ricevere dalla propria squadra dei risultati positivi e ad incutere timore negli avversari. Ma nel calcio, così come nella vita, non è il modo di apparire a qualificare una persona, ma le sue doti umane e professionali, le sue capacità. Pertanto, un tecnico non andrebbe giudicato dal fatto che indossi o meno la divisa sociale del proprio club, ma dalla sua abilità, esperienza, dal saper gestire ed educare il proprio gruppo di calciatori, dal riuscire a farlo rendere al meglio. Abito e tuta sono due facce di una stessa medaglia, due modi di vedere e vivere il calcio l'uno più moderno e dettato dall'evoluzione che negli ultimi anni ha subìto questo sport, l'altro più disinvolto ma sempre meno diffuso. Il tempo ci dirà se queste due forme continueranno a coesistere o se l'una soppianterà completamente l'altra. Ciò non toglie che la grinta, l'acume tattico, la passione, il sudore e il sacrificio, l'impegno profuso sono state e saranno sempre prioritarie rispetto al mero aplomb. Il campo ha sempre l'ultima parola e se non si posseggono determinate caratteristiche non basteranno sicuramente una giacca e una cravatta per acquisirle. Fabio Mangione