Sempre in più circostanze il mondo del calcio si rende testimone di episodi di razzismo, i quali adombrano un’attività che dovrebbe essere ispirata a valori quali la lealtà, la correttezza, il fair play. Ultimo tra questi quanto accaduto nei confronti di Mario Balotelli nell’appena trascorso weekend di Serie A sul campo dell’Hellas Verona. Anche qui, sulla linea di quanto occorso sabato a Roma (seppur per differenti ragioni), il direttore di gara è stato infatti costretto a sospendere per alcuni minuti l’incontro a causa di cori razzisti contro l’attaccante del Brescia.

Sul fatto è intervenuto il Ministro per le politiche giovanili e lo sport, Vincenzo Spadafora, il quale ha sottolineato l’impellente necessità circa l’adozione di iniziative concrete tese a reprimere tale dilagante e altrettanto preoccupante fenomeno da parte della FIGC e delle Leghe.

A questo punto una domanda sorge però spontanea. Quale sarà la strada percorribile alla luce della recente abolizione della responsabilità oggettiva in capo alle singole società per fatti commessi dai tifosi? Un tifoso qualunque, infatti, come noto, in quanto non appartenente all’ordinamento sportivo, non può essere sanzionato dai relativi organi di giustizia, residuando spazio unicamente per l’intervento del giudice dello Stato. Organi della giustizia ordinaria, che, tuttavia, possono esercitare il loro potere unicamente nei casi in cui tali comportamenti costituiscano reato secondo il codice penale; condizione che non si concretizza nella maggioranza dei casi occorsi all’interno degli stadi.

La soluzione certamente più percorribile risulta allora essere l’intervento diretto delle singole società, le quali, in stretta collaborazione con gli organi della giustizia ordinaria, dovrebbero arrivare a sanzionare direttamente i responsabili di tali riprovevoli condotte. Il modello applicabile potrebbe senz’altro essere quello attuato da alcune compagini britanniche, tra cui il Chelsea, società che lo scorso luglio ha bandito a vita un proprio tifoso, individuato tramite una sorta di “prova tv” (video e analisi di esperti di lettura del labiale), reo di aver utilizzato un linguaggio razzista e minaccioso nei confronti del giocatore del Manchester City Raheem Sterling. “Non dobbiamo chiederci se è stato commesso un reato, ma piuttosto se l’individuo abbia agito in violazione dei termini e delle condizioni di emissione dei biglietti. Il Chelsea trova disgustose tutte le forme di comportamento discriminatorio e continuerà ad applicare un approccio a tolleranza zero nei confronti di eventuali episodi di razzismo” ha commentato al riguardo il presidente dei “Blues” Roman Abramovich.

Risulta allora di chiara evidenza come gli strumenti volti ad individuare tali soggetti e, di conseguenza punirli, siano già esistenti, seppur forse ancora “acerbi”. Perché allora in Italia tutto ciò non accade? Nel nostro Paese è lapalissiana la tendenza da parte dei soggetti di vertice del sistema calcistico italiano e delle stesse società a sminuire quanto accaduto, come avvenuto ieri al termine della partita Hellas Verona-Brescia, in cui più parti hanno sostenuto l'assenza di cori razzisti durante la totalità dell’incontro. “Noi tutti oggi, al Bentegodi, non abbiamo sentito alcunché”, ha affermato il presidente del Verona Maurizio Setti; “oggi allo stadio c’ero e non ho sentito alcun insulto razzista”, ha ulteriormente riferito all’Ansa il sindaco Federico Sboarina.

Se allora la maggior parte delle società in cui militano gli stessi giocatori colpiti da tali cori non vede (rectius, si rifiuta di vedere) nel razzismo negli stadi un problema da estirpare con forza, come può essere possibile l’adozione da parte di questi di strumenti di controllo e di repressione di tali comportamenti discriminatori?

Sarebbe forse giunto il momento di ripensare a fondo la natura di questo meraviglioso sport, il quale, va ricordato, dovrebbe prima di tutto concretizzarsi in un momento di aggregazione sociale e di rispetto reciproco.