Non sono ancora passate 48 ore dall’annuncio che, come un fulmine a ciel sereno, ha sconvolto il mondo del calcio e di chi il calcio lo segue con passione, e che da due giorni costituisce la notizia di apertura di tutti i giornali e i TG: dodici fra i club europei di maggior blasone e seguito, cui a breve dovrebbero seguirne altri tre di identità al momento ancora ignota, creano un proprio torneo dove si affronteranno fra loro con l’aggiunta a rotazione di ulteriori cinque squadre, da scegliere secondo criteri fin qui non ben chiariti, ma che dovrebbero prescindere da qualsiasi considerazione relativa al cosiddetto “merito sportivo”. In pratica, detto in poche parole, un torneo ad inviti dove però quindici dei venti invitati alla festa saranno sempre gli stessi.
Le motivazioni alla base di questo strappo si riducono, senza tanti discorsi, ad una sola, ossia ai soldi di cui questi club, tutti in una situazione di grave crisi finanziaria a cui la pandemia ha dato solo l’ultima spallata, hanno una fame disperata e che l’attuale assetto dei tornei nazionali ed internazionali non appare garantire, almeno non nella misura in cui le loro casse vuote hanno impellente necessità.

Secondo un prospetto pubblicato oggi dalla “Gazzetta dello Sport”, questi dodici club hanno, sommati insieme, un indebitamento complessivo pari ad oltre 7,7 MILIARDI di Euro, in buona parte in scadenza entro l’anno in corso; si va dai 125 milioni del meno indebitato (l’Arsenal) al miliardo e mezzo del peggiore (il Chelsea), con le nostre tre esponenti che totalizzano circa 1,25 miliardi, pari ad un sesto del totale soprattutto, va detto, con Inter e Juventus, mentre il Milan appare più virtuoso, collocandosi al penultimo posto in questa poco onorevole classifica.
In questa prima fase (poi bisognerà vedere quali saranno gli sviluppi futuri) hanno rifiutato di aderire al progetto sia il PSG, a cui evidentemente la proprietà non lesina risorse finanziarie, né le squadre tedesche, “in primis” Bayern e Borussia Dortmund, che come noto godono di un’eccellente amministrazione e non soffrono neanche lontanamente dei problemi di bilancio e di cassa che invece accomunano i “club ribelli”.

Dal punto di vista di questi - mi si passi il termine - “ribelli”, ritengo che non si possa criticare l’operazione su un piano meramente aziendale: si tratta di imprese private con scopo di lucro, che hanno tutto il diritto di perseguire questo scopo, ossia quello di fare più soldi possibile per i propri azionisti, con qualsiasi mezzo lecito a loro disposizione; se nella loro visione comune il mezzo migliore è questo, bene fanno ad agire come stanno agendo.
Le considerazioni che voglio sviluppare in questa sede però sono altre, e non sono quelle delle società bensì quelle di chi si trova dall’altra parte del tavolo, ossia noi che una volta eravamo chiamati “tifosi” o “appassionati” e che adesso sempre più spesso siamo definiti da chi gestisce questo sistema come “utenti” o “clienti” del “prodotto calcio”.

Il ragionamento fatto da chi “offre il prodotto” è, in estrema sintesi, questo: il calcio professionistico deve svincolarsi dai confini nazionali, è un prodotto che può e deve essere venduto in tutto il mondo e questo è possibile farlo nella maniera più profittevole solo moltiplicando gli incontri fra le grandi squadre che hanno un seguito in tutti i Paesi. Se voglio mettere davanti alla TV (a pagamento) centinaia di migliaia se non milioni di cinesi, indiani, argentini o statunitensi lo posso fare facendogli vedere Real Madrid-Manchester City o Juventus-Barcellona, non Sassuolo-Spezia o Getafe-Granada.
Il problema però, a mio modo di vedere, nasce proprio nel momento in cui si inizia a concepire il calcio come un prodotto, uno spettacolo, esattamente come potrebbe essere un film o un concerto, e soprattutto come un mercato in cui la domanda è sempre e comunque in crescita, dove “i clienti” sgomitano per acquistare il prodotto e quindi chi questo prodotto lo vende può continuare ad aumentarne la quantità offerta tanto ci sarà sempre qualcuno disposto a comprarlo, e sempre ad un prezzo profittevole per il venditore.

Ecco, io penso che se la costruzione del palazzo è basata su queste fondamenta, il progetto rischia di essere piuttosto fragile, e assoggetta l’edificio ad un rischio di crollo molto più elevato di quanto si possa pensare.
Molto è già stato detto sul fascino del calcio come l’unico sport di massa dove effettivamente a volte Davide abbatte Golia, cosa che in altri sport accade molto più di rado (se la nazionale italiana di rugby affrontasse cento volte di seguito gli “All Blacks” rimedierebbe cento sconfitte, e tutte pesanti), e dove quindi effettivamente qualsiasi squadra può coltivare il sogno del risultato a sorpresa che la porti a raggiungere traguardi insperati, o del fatto che una sana gestione e qualche acquisto azzeccato portino un club di secondo piano a livelli a cui prima non apparteneva, tali da aprirgli porte a cui in precedenza non era mai arrivato neanche a bussare: vorrei sapere, tanto per fare un esempio attuale, quanti tifosi dell’Atalanta dieci anni fa avrebbero pensato di vedere la loro squadra giocare in Champions League contro Manchester City, PSG, Liverpool, Ajax e Real Madrid.

Tutto questo, con una competizione dove si entra solo per censo o per la benevolenza dei padroni di casa, è del tutto perduto: a che cosa serve ben figurare in un campionato, o addirittura vincerlo, se il “vero” campionato (nella testa di chi lo ha organizzato e ne è proprietario) è un altro, e quelli nazionali nonché ciò che resta delle Coppe europee diventano una sorta di gigantesca “serie B” del pallone? E soprattutto, dei tornei così “depotenziati” avrebbero ancora un qualche fascino e potrebbero ancora interessare tanto quanto quelli che abbiamo visto finora?

Secondo gli organizzatori della Superleague la risposta è negativa, nella loro concezione chi segue il calcio vuole vedere solo partite fra le grandi squadre e solo una minoranza di irriducibili nostalgici continuerà a privilegiare i vecchi campionati e coppe, e questo perché la gran parte degli appassionati a livello mondiale, trovandosi per la maggior parte in Paesi estranei a quelli di appartenenza delle squadre del “circolo dei 20”, si interesserà soltanto a queste.
Ora, questo è senz’altro verosimile per uno spettatore extraeuropeo, magari in certi casi anche piuttosto digiuno del calcio e soprattutto della sua storia, che conosce solo Real, City, Chelsea, Milan, Liverpool e compagnia cantante, ma se rientriamo in Europa, e ancora di più in Italia, questa assunzione comincia a traballare parecchio.
Limitiamoci all’Italia, anche se credo che il discorso si possa estendere con poche differenze agli altri Paesi: siamo così sicuri che un tifoso del Genoa, del Bologna o del Napoli, uno che magari ha alle spalle vent’anni di presenza allo stadio, dovendo rinnovare il proprio abbonamento alla “pay-TV” (dando per scontato che, soprattutto in questo periodo, la maggior parte delle persone non ha certo soldi da buttare per sottoscrivere due, tre o quattro contratti), scelga di non guardare le partite della propria squadra per tuffarsi, probabilmente spendendo anche di più, su Arsenal-Manchester United e Chelsea-Inter? E che lo stesso faccia un tifoso dell’Anderlecht, del Lione o della Dinamo Zagabria?
“Okay, è possibile che si perdano spettatori in Europa, ma saranno senz’altro rimpiazzati da spettatori degli altri continenti, anzi alla fine la stima è che questi ultimi saranno più dei primi”, si saranno senz’altro detti i promotori della Superleague.
Va bene, però a questo punto ci troviamo davanti ad un torneo che si svolge in Europa, ma che ha la maggior parte del suo pubblico a migliaia di chilometri di distanza, e parliamo come ho già detto di un pubblico che si trova in Paesi calcisticamente poco evoluti, che in media probabilmente non capisce neanche fino in fondo l’essenza del gioco e l’unica cosa che apprezzerebbe davvero sono partite alla “Holly e Benji” con cinquanta tiri in porta che finiscono 4 a 4 oppure 8 a 2, dove i calciatori fanno trucchi con la palla, colpi di tacco al volo, rovesciate acrobatiche e mosse del genere: praticamente, la versione calcistica degli Harlem Globetrotters.

A parte il fatto che, se questo sarà il pubblico, anche come collocazione geografica, immagino che lo stesso prima o poi comincerà a chiedere di vedere gli incontri anche dal vivo, così ci si troverà a giocare a Dubai, a Pechino o a Los Angeles, e non una volta all’anno come accaduto ad esempio per la nostra Supercoppa, ma sempre più spesso e, allo stesso modo, ci potrebbe essere la richiesta di avere almeno un parte dei match ad orari comodi per quei Paesi, quindi con l’eventualità di una partita giocata a Londra o a Milano, ma alle dieci di mattina per poterla far vedere in prima serata in Australia.
Ovvio che tutto ciò darebbe luogo ad un carrozzone che, a mio giudizio, è ben lontano da un torneo calcistico come siamo stati da sempre abituati ad assistere; si dirà che “è il nuovo che avanza”, ma non tutto ciò che è nuovo è necessariamente migliore di quello che c’era prima.
Oltretutto, si parla di “grandioso spettacolo calcistico come mai si è visto in precedenza”, perché saranno tutti “supermatch” fra grandi squadre; la formula però prevede due gironi da dieci squadre con incontri di andata e ritorno, quindi diciotto giornate, con le prime tre classificate che passano subito ai quarti di finale e quarta e quinta che spareggiano per il posto rimanente. Ciò significa che la metà delle squadre verrà eliminata dopo i gironi senza che sia previsto alcun meccanismo di retrocessione, e che pertanto nelle ultime giornate si avranno per forza di cose parecchie partite completamente inutili fra squadre senza obiettivi, tanto più che solo il 20% dei premi verrà ripartito in base ai risultati sportivi.
Immaginiamoci a quattro giornate dalla fine del girone un incontro fra la prima in classifica già sicura della qualificazione e l’ultima, oppure fra la settima e l’ottava entrambe tagliate fuori dalla possibilità di qualificarsi: sicuri che sarebbero incontri spettacolari ed emozionanti? O non sarebbe più probabile vedere, come quasi sempre avviene in questi casi, match noiosi disputati al rallentatore, con i giocatori che pensano soprattutto a non farsi ammonire o espellere, e a non infortunarsi? Quanti tifosi pagherebbero per uno “spettacolo” del genere? E anche i “famosi” americani, cinesi o arabi (anzi, loro a maggior ragione) quanto gradirebbero?

A quel punto, molto meglio un Cagliari-Benevento o uno Spezia-Fiorentina per decidere chi si salva e chi no: a livello di tensione sportiva e di curiosità, anche per chi non è tifoso di queste squadre, valgono senz’altro molto di più confronti come questi piuttosto che uno Juventus-Tottenham con nulla in palio.
Allo stesso modo anche le partite più interessanti, inserite in un campionato con dieci squadre, non possono avere lo stesso “appeal” che hanno in uno scontro diretto ad eliminazione: un conto è un Real Madrid-Barcellona in una semifinale, un altro e ben diverso è la stessa partita alla seconda giornata di diciotto di un girone all’italiana.

Per quanto riguarda poi l’incertezza dei risultati, più aumenta il numero di partite più le sorprese diventano meno probabili: con l’attuale Champions è possibile che in un girone di quattro squadre con sei partite in tutto, anche una squadra più forte se ne sbaglia una o due vada in difficoltà, ma se di partite a disposizione ne ha diciotto le “chance” di rimediare si incrementano in maniera esponenziale, con il rischio che alla fine si qualifichino sempre le stesse. E anche qui: dov’è lo spettacolo in più rispetto ai tornei che si disputano attualmente?
Se dobbiamo assistere ad un totale di 184 partite, di cui un certo numero inutili e/o poco appassionanti per i motivi che ho già esposto, per avere in fondo a questo estenuante percorso gli stessi quarti di finale della Champions di quest’anno, e che si ripeterebbero pressoché invariati di stagione in stagione, io sinceramente tutto questo fascino non lo riesco a vedere, soprattutto una volta esaurita la novità iniziale.
Consideriamo poi anche il fatto che queste sfide sono intriganti perché accadono una volta ogni tanto: se ogni singolo anno abbiamo sempre, solo e comunque Juventus-Manchester City, Arsenal-Barcellona e Liverpool-Real Madrid, ad un certo punto ci si fa l’abitudine, e alla decima volta che capitano in cinque anni (o magari anche meno, se si incontrano anche nella fase ad eliminazione) diventano “routine” e nessuno ci si scalda più di tanto, come se ad una persona venisse messa nel piatto l’aragosta per una settimana consecutiva sia a pranzo che a cena.

A giudicare dalle reazioni che si sono avute in questi primi due giorni a livello internazionale, non sembra che l’idea sia stata accolta all’unanimità fra gli applausi e i fuochi artificiali; non parlo dell’UEFA e delle varie Leghe nazionali, che ovviamente hanno fatto muro contro muro non certo per motivazioni di natura sportiva, ma perché temono di perdere una bella fetta dei propri introiti, bensì del modo in cui questo nuovo torneo è visto da coloro che lo dovrebbero finanziare con i propri soldi, ossia gli appassionati.
Per ora c’è una grossa divisione, non posso negare come una buona percentuale appaia favorevole, ma è altrettanto vero che già molti si sono dissociati e, cosa che secondo me è assai significativa, anche parecchi addetti ai lavori, inclusi alcuni giocatori e tecnici delle squadre coinvolte, per non parlare della condanna pressoché unanime dell’iniziativa da parte degli esponenti politici di primo piano, che magari su questo terreno specifico hanno un peso relativo, ma che comunque sono indice di un sentimento negativo non proprio marginale.
Al momento è impossibile, non avendo nessun elemento preciso, poter fare un calcolo di convenienza per capire se gli obiettivi economici e finanziari che questo progetto si è posto saranno raggiunti, ma considerando l’importanza della struttura organizzativa e del finanziatore iniziale, ossia la banca J.P. Morgan, ritengo che almeno inizialmente saranno centrati; se però nel tempo lo spettacolo diventasse ripetitivo e/o meno emozionante e interessante di come viene presentato in questo momento, allora tornerebbe attuale il discorso che ho fatto prima sulle fondamenta fragili e sul palazzo a rischio di crollo.

Solo il tempo potrà dare una risposta; quello però che vedo, e che personalmente non mi piace per niente, è la trasformazione del calcio da evento sportivo a “show business”, a macchina da soldi sempre e solo per gli stessi attori, dove il merito non conta più nulla o quasi: io da nostalgico del calcio di una volta, della serie A a sedici squadre, delle tre Coppe europee tutte ad eliminazione diretta e delle maglie numerate da 1 a 11, non riesco ad apprezzare questi sviluppi.
Molti lo sono, buon per loro, non gli faccio nessuna critica perché è semplicemente una questione di gusti, ma io non faccio parte di questo circolo.

N.B.: sono tifoso juventino e quindi invitato alla festa, ma ovviamente non sottoscriverò MAI un abbonamento per guardare la Superleague, neanche se costasse un euro all’anno.