Il 16 ottobre 1968, 50 anni fa, gli americani John Carlos e Tommie Smith – entrambi di colore – sul podio dei 200 metri piani ai Giochi olimpici di Città del Messico1968 in segno di protesta contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti d'America alzarono il pugno chiuso guantato di nero. L’episodio è celebre ed è passato alla storia, mentre il tragico destino del “terzo uomo”, Peter Norman (anch’egli sul podio quel giorno), è meno conosciuto. Anche lui ha scritto – a suo modo – una pagina di storia ed ha pagato a caro prezzo per questo.

Questa immagine è una delle più famose della storia dello sport: due velocisti neri in calzini su un podio, la testa pendente e il pugno guantato di nero sollevato verso il cielo. Nel 1968, John Carlos e Tommie Smith hanno approfittato del podio Olimpico per segnare con un gesto forte la loro disapprovazione verso il trattamento riprovevole riservato agli afroamericani negli Stati Uniti Uniti. Fu un nuovo vulcano esploso in un anno già segnato dagli omicidi di Robert Kennedy (6 giugno 1968) e Martin Luther King (4 aprile 1968), dalla guerra in Vietnam e dalle proteste studentesche o dagli scioperi dei lavoratori che dilagavano in molti paesi. Solamente dieci giorni prima dell'inizio dei Giochi della XIX Olimpiade – che si svolsero a Città del Messico dal 12 ottobre al 27 ottobre 1968 – un altro tragico episodio macchiò quell’annus horribilis: la vicenda – ma sarebbe più adatto dire dramma – è meglio nota come il massacro di Tlatelolco. Il 2 ottobre 1968 nella Piazza delle tre culture a Tlatelolco (Città del Messico) la polizia e la guardia nazionale del regime uccisero dalle 200 alle 300 persone che stavano manifestando. Non si conosce il numero esatto delle vittime, tanto che fonti governative, per minimizzare l’accaduto, fornirono cifre molto inferiori (non più di 40 o 50 morti), i giochi incombevano e lo spettacolo doveva andare avanti.

A distanza di mezzo secolo, questi giochi sono ancora associati al record mondiale di salto in lungo di Bob Beamon, al salto in alto di Dick Fosbury (a lui si deve l'innovazione del "Fosbury Flop", la tecnica - ormai universalmente impiegata - con la quale l'atleta scavalca l'asticella rovesciando il corpo all'indietro e cadendo sulla schiena) e il gesto di protesta di Carlos e Smith. Ma nessuno si ricorda di Peter Norman, il “terzo uomo”. Medaglia d'argento e sul podio a fianco dei due americani, forse avrebbe dovuto aver un maggior fama e riconoscenza ed il suo nome non essere solo una domanda da quiz. Ma la verità è altrove. Se, nel suo paese, l'australiano non è apparso nei libri di storia per più di quaranta anni, è per il ruolo molto specifico che ha interpretato prima e dopo questa cerimonia formale.

Il piccolo velocista bianco (appena 178 cm) conquistò il suo posto sul podio dei 200 metri tra i due giganti americani, Tommie “The Jet” Smith e John Carlos, considerati come favoriti. Smith, imbattibile, stabilì un nuovo record mondiale (19,83’’) – primo uomo al mondo ad aver corso i 200 metri piani in meno di 20 secondi –, mentre Norman (26 anni), ai suoi primi giochi, sorprese tutti piazzando secondo con 20.06’’, battendo il suo record personale e migliorandolo di mezzo secondo. Ad oggi, a distanza di così tanti anni, il suo record in Oceania è ancora valido. La cerimonia di premiazione, un'ora dopo la finale è ancora più memorabile. Poco prima di questa, negli spogliatoi dell'Estadio Olímpico Universitario, Smith e Carlos si rivolsero a Peter Norman, che loro non conoscevano, chiedendogli se fosse un sostenitore di uguali diritti per i bianchi e neri e se credesse in Dio. La risposta fu affermativa per entrambe le domande, e non poteva essere diversamente data la sua storia personale. L'australiano, nato a Melbourne, è il figlio di una famiglia povera ed è un fervente cristiano, ex membro dell'Esercito della salvezza. Addirittura sulla sua divisa di allenamento c’era scritto “Dio è amore e Gesù salva”. Il modo in cui gli aborigeni erano trattati nel suo paese, dove le leggi dell'apartheid erano severe come quelle in Sud Africa di quei tempi, lo disgustava. La politica bianca dell’Australia comportava l'adozione forzata dei bambini aborigeni dalle famiglie bianche. Tutto ciò generava fortissime tensioni nel suo paese. Carlos e Smith espongono a Norman la loro idea che era molto più importante di qualsiasi risultato sportivo: vogliono portare la loro protesta sul podio olimpico con una medaglia al collo. L’Olympic Project for Human Rights (Progetto olimpico per i diritti umani), un'organizzazione che lottava contro il razzismo nello sport e che, prima dei Giochi del Messico, aveva richiesto alla squadra USA di boicottare l'evento perché Avery Brundage, a quel tempo Presidente del CIO, aveva tentato in tutti i modi di permettere al Sudafrica di partecipare. Ma la delegazione americana scelse di non boicottare i giochi, quindi i due velocisti escogitarono un altro modo per protestare. Oltre alla medaglia, sarebbero saliti sul podio in calzini (simbolo della povertà nera negli Stati Uniti Stati Uniti) ed avrebbero indossato guanti di pelle nera (simbolo del movimento Black Power). Sebbene Brundage avesse minacciato il rientro immediato a casa per qualsiasi atleta che avrebbe usato i giochi per protestare – riteneva che la politica dovesse rimanere estranea ai Giochi Olimpici - i due erano convinti dei loro principi e trovarono in Norman un prezioso alleato dato che accettò il gesto di protesta incurante delle possibili conseguenze. Senza esitazione l’australiano acconsentì subito suscitando enorme sorpresa ma altrettanta ammirazione tra i due americani che si attendevano un atteggiamento più prudente.

Mentre i tre atleti stanno aspettando la cerimonia di premiazione, insorge un piccolo problema: Carlos aveva dimenticato i suoi guanti al villaggio olimpico degli atleti. Norman suggerisce di indossare entrambi un guanto ciascuno. E chiede loro di fornirgli la spilla dell'Olympic Project for Human Rights in modo che possa esprimere il suo sostegno. Carlos e Smith non ne ha altre ma, per caso, c’era Paul Hoffman, un canottiere americano bianco, attivista dell’Olympic Project for Human Rights, che gli diede la sua. I tre uomini poi salirono sul podio. Dopo aver ricevuto le medaglie del presidente britannico della IAAF, David Cecil, i due americani attuano il loro piano. Smith indossa una sciarpa nera intorno al collo mentre Carlos scopre una collana di corallo (tenuta sotto la divisa) che simboleggia il linciaggio dei neri scomparsi nell'anonimato. Quando l'inno americano suona, i due uomini non guardarono la bandiera ma fissano i loro calzini neri alzando il pugno guantato verso il cielo, simbolo del movimento Black Power. Tutto questo mentre sono alle spalle di Peter Norman, che è sul primo gradino del podio, e col volto rivolto verso le bandiere nazionali e indossando con orgoglio sul petto la spilla dell’Olympic Project for Human Rights. Gli spettatori dell'Estadio Olímpico furono sbalorditi: dopo un iniziale silenzio, gli americani presenti sugli spalti cominciarono a fischiare. Famose le dichiarazioni di John Carlos alla stampa: “Noi siamo i cavalli da mostra dei bianchi. Ci danno noccioline e, di volta in volta, ci battono sulla spalla dicendo: ben fatto ragazzi. Io non ci sto!”. Peter Norman non di meno dichiarò: “Gli uomini sono tutti uguali e devono essere trattati come tali allo stesso modo.”

Tutti e tre gli atleti pagheranno a caro prezzo il loro gesto. Carlos e Smith furono sospesi, espulsi dalla squadra USA e banditi dal Villaggio Olimpico. Ma andò anche peggio al loro rientro negli Stati Uniti dove essi e le loro famiglie furono perseguitati e addirittura minacciati di morte. La madre di Smith trovò anche ratti morti nella sua casella di posta mentre Kim, la moglie di Carlos, non sopportando i continui monitoraggi dell'FBI si suicidò nel 1977. Anche Norman, che tuttavia protestò in maniera meno appariscente, pagherà per il suo gesto molto caro. Non fu bandito dal Villaggio Olimpico ma, al ritorno in Australia, si vide infliggere una pesante multa per “atteggiamento anti-sportivo”. Dovette anche subire la dura critica dei media e del pubblico. In più quattro anni dopo, nel 1972, il Comitato Olimpico Australiano non lo ammetterà ai Giochi di Monaco nonostante avesse realizzato il tempo di qualificazione sia nei 100 che nei 200 metri e con possibilità di ottenere almeno una medaglia. La federazione australiana di atletica leggera giustificò la sua assenza per le non buone prestazioni negli allenamenti di preparazione e da un misterioso infortunio al ginocchio. Il suo allenatore disse apertamente che tutto ciò era dovuto ai fatti del Messico. Deluso e sconfortato Norman smise l’attività professionistica a soli 30 anni per tutti gli ostacoli insormontabili che si trovava davanti. In Australia, lui e la sua famiglia furono considerati dei reietti. Ci volle un sacco di tempo prima che trovasse un lavoro come insegnante di educazione fisica e come aiuto in una macelleria. Nonostante ciò continuò fino alla fine la sua lotta contro i diritti negati alle persone aborigene.

Nel 1985 una cancrena ad una gamba stava per causargli un’amputazione, ma il chirurgo si rifiutò di tagliare la gamba di una medaglia olimpica. Norman finì in depressione, tra abuso di alcol e antidolorifici. Solo contro un intero paese. Alle Olimpiadi di Sydney nel 2000, il Comitato Olimpico Australiano rese omaggio a tutte le ex medaglie olimpiche, tranne lui. Questa volta la giustificazione rasentò in ridicolo poiché il budget non era sufficiente per pagare i suoi biglietti aerei. A questa mancanza sopperì il comitato olimpico americano che lo invitò al compleanno del velocista Michael Johnson, per cui Peter Norman era un modello e un eroe. Prima dei Giochi di Sydney, Norman fu invitato a riabilitare la propria immagine condannando apertamente il suo gesto di protesta e quelli di John Carlos e Tommie Smith. In cambio, gli venne offerto il perdono e un lavoro stabile all'interno del comitato organizzatore Giochi olimpici. Ma Norman non si piegò mai. Più tardi, spiegò: “Io non ho mai detto che il mio gesto ha contaminato la mia medaglia Olimpico. Al contrario: io sono e ne sarò sempre fiero. Non capivo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso autobus o andare alla stessa scuola di un uomo bianco. Era un’ingiustizia sociale contro cui non potevo fare nulla, ma io la detestavo.

Sei anni dopo i Giochi di Sydney, nel 2006, l'australiano, padre di cinque figli nati da due madri, muore inaspettatamente all'età di 64 anni, vittima di un infarto. Senza mai aver ricevuto delle scuse per come lo avesse trattato il suo paese. Al suo funerale, John Carlos e Tommie Smith portarono la sua bara in spalla. Vennero appositamente a Melbourne per l'occasione. Smith considerava Norman come un amico che amava gli uomini e disse: “Ha pagato il prezzo della sua scelta. Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata la sua lotta.”. Anche Carlos testimoniò il suo rispetto: “Nessuno in Australia meriterebbe di essere onorato e riconosciuto più di lui. Peter ha avuto la forza, il carattere e il coraggio di lottare per la parità di diritti. Ha combattuto da solo ed è diventato un martire. Gli dobbiamo la nostra gratitudine.”.

Negli Stati Uniti, Smith e Carlos sono stati riabilitati da tempo. A Smith, dopo un breve carriera nel football americano, fu assegnato un ruolo nel Comitato Olimpico americano e ha continuato a lottare per l'uguaglianza tra neri e bianchi. Entrambi sono della icone del movimento dei diritti dei cittadini ed hanno ricevuto diversi onorificenze, nel 2016 sono stati ricevuti per la prima volta alla Casa Bianca dal Presidente Barack Obama. Undici anni fa, una statua che li raffigurava sul podio di Città del Messico è stata inaugurata nel campus di San Jose State University, la loro vecchia università. In quella statua non c’è Peter Norman, come se fosse stato anche dimenticato dalla storia. In Australia sarà ricordato dopo la sua morte, nel 2008, in un documentario di successo scritto e diretto da suo nipote Matthew. In un paese dove le leggende dello sport sono idolatrate, molte persone hanno dovuto aspettare fino a quel momento per scoprire la storia da Norman. Solamente nell'ottobre del 2012, il parlamento australiano adottò una mozione di scuse formali. “Ci scusiamo per il modo in cui Norman è stato trattato dopo i Giochi del 1968 e per la suo mancata selezione per i giochi di Monaco. Questo vuole essere un riconoscimento ‘delle sue straordinarie esibizioni e doti atletiche’, del suo ‘atto coraggioso’ sul podio di Città del Messico ed il ‘ruolo esemplare’ giocato nella lotta per l'eguaglianza razziale.”. Per John Carlos, queste scuse, sei anni dopo la morte di Norman, sono arrivate troppo tardi. “Peter è stato traumatizzato per tutta la vita da quello che gli è successo. Non l'ha mai superato.”

Nell'aprile 2018, a Norman il Comitato Olimpico Australiano ha conferito postumo l'Ordine al Merito, il più alto titolo onorifico possibile. Allo stesso tempo, la federazione americana di atletica leggera chiese di istituire il 9 ottobre, giorno del funerale di Norman, il Peter Norman Day. A Washington, il museo di storia afroamericana inaugurò una statua a grandezza naturale, replicante il famoso podio con Tommie Smith, John Carlos e, questa volta, Peter Norman. Anche in Australia fu eretta una statua simile in bronzo vicino lo Stadio di Melbourne e come la federazione americana, la federazione australiana commemorerà il Peter Norman Day il 9 ottobre. Ogni anno viene inoltre assegneto il Peter Norman Humanitarian Award all’atleta che si è distinto per aver sostenuto i diritti umani e di uguaglianza. Il Ministro dello Sport John Eren ebbe parole di elogio verso il nuovo eroe nazionale. “Mentre altri stavano guardando, Peter ha combattuto per quello che era giusto. Merita di rimanere nell’immortalità.”.

Un appropriato tributo al Terzo Uomo, fuori dall'oblio.