Commentando sulle colonne del Corriere della Sera del 27 maggio la tragedia del Mottarone, Antonio Polito ha individuato nello "smarrimento" di un'etica che potremmo definire "di responsabilità intersoggettiva" la chiave per comprendere come sia potuto accadere quel che di fatto è accaduto. Si fa riferimento ad un'etica che si condensa in «un principio morale di responsabilità verso gli altri» e che, sola, è capace di risollevare l'uomo da quella condizione di naturale abiezione in cui versa. Tolto questo principio etico, infatti, la vita sarebbe costellata da azioni destinate a costituire «solo un episodio della guerra di tutti contro tutti, un episodio di violenza e sopraffazione»: compito dello Stato sarebbe quindi, hobbesianamente, impedire di volta in volta (od anche, se fosse possibile, una volta per tutte) con un intervento super partes che il conflitto deflagri. Già nel corpo dello stesso articolo, tuttavia, emerge la consapevolezza del fatto che «dietro ogni norma, dietro ogni tecnica, c'è un uomo che compie scelte in base al suo libero arbitrio» e quindi, in buona sostanza, il punto dirimente della questione torna a spostarsi sulla moralità individuale portando a concludere come «un Paese migliore non potrà esistere senza uomini migliori». Questa analisi ha il grande merito di porre in evidenza, anche se ex negativo, tutte le criticità della riflessione moderna in campo etico, che culminano nella radicale impossibilità di elaborare un’etica condivisibile e che sappia coniugare armoniosamente gli interessi del singolo e del corpo sociale.

Come è noto, lo Stato moderno poggia su un fondamento contrattualistico, che può prendere vita solo in presenza di un (più o meno profondo) pessimismo antropologico. Il contratto sociale è infatti necessario solo se l'uomo è concepito come naturalmente impolitico, come una costante minaccia latente per se stesso e per la comunità degli altri: se, in ultima analisi, è rousseauianamente corrotto dal progredire della società e della storia o se, con Hobbes, è ab imis un potenziale carnefice per il proprio prossimo. In questi casi, è chiaro che bisogna rinunciare a un qualche cosa di personale (un'illimitata libertà individuale) per evitare il caos e di conseguenza si rende necessario sublimare il potere assoluto che ogni individuo ha su di sé affidandolo tramite una stipulazione contrattuale ad un potere superiore, lo Stato. La sfida della filosofia politica dall'età moderna in poi (e tutt'ora irrisolta perché irrisolvibile su simili presupposti) sta nell'elaborare un sistema di criteri che rendano questo tipo di vita associata morale, che rintraccino un perché fondamentale che sappia motivare l'uomo a desistere dall'egoismo suo proprio e ad indirizzarsi verso l'altro e verso la cosa pubblica.

Il grande fraintendimento che giace sotto questo modo di pensare l'uomo e la vita e che rende impossibile la costituzione di una nuova etica (alla radice della crisi dell'uomo contemporaneo sta veramente il fallimento di ogni etica, quella kantiana su tutte) è l'aver perso di vista l'oblio in cui è caduto, con l'età moderna, il concetto classico di uomo. Fintantoché l'individuo è lasciato solo a se stesso nella scelta morale, sarà impossibile giudicare il suo comportamento senza cadere in sterili moralismi: se rischio di non portare il pane a casa dopo mesi e forse più di chiusure, perché dovrei anteporre un astratto principio morale assolutamente spersonalizzato (e per l'uomo moderno il bene in generale, la giustizia etc. lo sono, perché non li tocco con mano come tocco i miei figli) ai miei interessi, soprattutto quando sono rappresentati - magari - da una famiglia da mantenere? Se davvero l'uomo è prima di tutto un io individuale che deve farsi strada nel mondo prendendo a spallate qua e là tutti gli altri e compito dello Stato è far sì che tutti riescano a farlo - chi più chi meno - ma limitando i necessari danni collaterali, non ci si può stupire della totale assenza di empatia, di attenzione verso il prossimo, di responsabilità. La stessa nozione di responsabilità implica il dovere di rispondere delle proprie azioni: ma se la natura umana è così abietta da dover solo essere dominata per essere in qualche modo limitata, di che cosa mai si dovrà rispondere? Del proprio essere essenziale e più profondo?

Occorre, dunque, prendere una volta per tutte le distanze da un'antropologia siffatta, che ha come unica conseguenza il condurre coerentemente al più assoluto nichilismo nell'ordine della prassi. L'uomo, infatti, è tutt'altro: aristotelicamente, è animale politico capace per natura di fondare la società sull'amicitia in quanto spontaneità naturale ad amare l'altro e a ricercarne la compagnia. Non c'è alcun compromesso alla base della vita sociale, nessun rancore sopito da rivendicare contro il prossimo, poiché «nulla è così proprio degli amici che il vivere assieme» (Etica Nicomachea, VIII, 6). E se è vero che non si può essere amici di tutti, questo vale solo in senso - potremmo dire - affettivo: l'amicizia che lega i partecipanti alla società è l'amicizia di chi si riconosce nell'altro perché uomo come lui, di chi sa che siamo tutti sulla stessa barca e che, in fondo, siamo tutti ugualmente creature. Solo da questi presupposti può scaturire un'autentica etica del prendersi-cura-dell'-altro-da-me, capace di indicare il bonum commune come obiettivo realistico e concreto da perseguire come fine autentico, ordinando ad esso tutti i mezzi e i beni particolari e individuali.