Parlare di qualcosa quando ancora ci siamo sotto, significa condannarsi da soli a non comprenderne mai le vere dimensioni: per esprimersi è necessario prendere le distanze dall’evento, aspettare che diventi un qualcosa-gettato-davanti a noi (ob-jectum). Al contempo, bisogna evitare che l’evento stesso evapori nella vaga memoria che tutto tende a perdonare: l’intellettuale (di qualunque tema si occupi) deve essere costantemente preoccupato da questa misurazione del distanziamento tra il suo pensiero e gli eventi.
Credo che ora cominci il tempo in cui può essere veramente prodotta una riflessione autentica sul fenomeno Superlega, una riflessione che non sia schiava di sentimenti e passioni e al contempo sappia avere il calore di chi una realtà la vive o l’ha appena vissuta sulla propria pelle, lontano dal calcolo gelido dei posteri.

Quanto si è detto in questi ultimi dieci giorni è in buona sostanza tutto vero, ma si limita a raschiare la superficie delle ragioni che muovono gli eventi: di fatto, sappiamo giudicare giusti o sbagliati solo gli effetti e non le cause, perché non le vediamo più; abbiamo confermato la naturale tendenza dell’uomo a dividere in buoni e cattivi anche laddove questa divisione non andrebbe fatta (cioè andrebbe spostata ad un livello più alto di riflessione); abbiamo, in conclusione, dato prova dell’ingenuità clamorosa in cui il mondo precipita: pensiamo che le diverse sfere della vita sociale siano compartimenti stagni, che non comunichino, e che quindi possiamo pretendere di non riconoscere validità alcuna a principi etico-politici, ma poi sentirci in diritto (e dovere) di gridare allo scandalo laddove si tolga al calcio una poesia che è presente solo nella nostra immaginazione.
La Superlega non è molto altro che il coerente sviluppo del modello di industria culturale elaborato ed espresso dalla civiltà Occidentale da secoli a questa parte, applicato allo sport. La regola fondamentale di ogni genere di attività è che produca; il problema sorge allorché si sceglie come prodotto il profitto. Di per sé, il profitto mangia tutto: è legge a se stesso. Una volta assunto come misura della bontà degli investimenti, non lascia spazio a nessun altro genere di valore e valutazione: meglio ciò che costa poco e in proporzione produce molto, senza guardare alle implicazioni che questo atteggiamento porta con sé. Gli scandali delle plusvalenze fittizie, l’evoluzione dello sport come business, la bolla economica creatasi intorno al calcio, in particolar modo ma non solo, sono aspetti della stessa realtà, modi diversi di guardare alla stessa situazione. Non c’è spazio per l’etica, l’atleta non è tale se e solo se è capace di dominarsi tanto nello spirito quanto nel corpo, ma è nei fatti un fenomeno da baraccone. Lo sport, nobiltà decaduta del modello greco della kalokagathia, è spettacolo e spettacolo è, in regime di industria culturale, mangime per polli da spremere in allevamenti intensivi. Inutile prendersela con la Superlega, inutile chiedersi se Ceferin sia il buono od il cattivo, finché gli spettatori restano bestie da telecomando, illusi di contare qualche cosa: conta semplicemente quanto, del proprio portafogli, ognuno è disposto ad accordare affinché lo show vada avanti. Oggi gli idealtipi che vengono proposti dai mass media hanno la stessa funzione della stella del cinema di cui parlano Horkheimer e Adorno: «essa non si limita a visualizzare, agli occhi della spettatrice, la possibilità, di cui potrebbe usufruire un giorno anche lei, di essere presentata sullo schermo, ma ribadisce, in modo ancor più evidente e più incisivo, la distanza che le separa» (Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, p. 155). Il bambino messo davanti alle pubblicità di Cristiano Ronaldo fin da piccolo sarà l’ennesimo pollo da spremere un domani, che si nutre di utopia e che, schiacciato dalla potenza fenomenale della comunicazione massmediatica, decide di delegare ai padroni dei media la sua stessa libertà.

Se davvero c’è qualcuno contrario non solo alla Superlega, ma ad una vita in diretta e continuamente eterodiretta, dove cambiare canale significa semplicemente passare da un padrone ad un altro, spenga il televisore e torni a giocare in strada.