Non continuiamo a girare attorno ad un problema che vediamo e critichiamo da anni per poi ricevere una caramella e sorridere come bambini dimenticandoci di tutto.
E' meglio non farlo per non svegliarsi più col mal di testa da sbornia post Cardiff. La Juventus è per chi la sente palpitare nel petto.
Il sano riso in bianco di Allegri ci farà sopravvivere per altri cent'anni, dieci finali di Champions e, magari, ne vinceremo una per un clamoroso errore degli avversari. Ma è quello che davvero vorrebbe un tifoso? Purtroppo per far bene l'amore con la vecchia Signora bisogna saperla sedurre, vivere dei suoi particolari, perdere la testa nonostante la veneranda età.

Guardiamo la realtà. Annusiamo lo spettro di un calcio impantanato nel denaro, squadre storiche ormai diventate un conto corrente per stranieri, campionati di calcio sempre più alienati e alienanti, dove la nazionalità è diluita fino a scomparire.
Una famiglia degli italiani, gli Agnelli. Nel bene e nel male. Una squadra italiana, gestita da italiani, allenata da un italiano. E fino a qui sarebbe tutto splendido se colui che materialmente gestisce i calciatori sentisse davvero l'attrazione fatal. In realtà è un lavoratore, uno dei tanti, stipendiato profumatamente e poco amato. Oggi non sarà domani. Domani la Juventus sarà solo il passato.

C'è un allenatore, invece, che ha dimostrato che non serve avere un super campione per vincere, ma giocatori motivati. Non è una pecora, non lo è mai stato. Non è un aziendalista, ma in fondo è chiamato a dirigere una squadra, non a comprarla o metterla a reddito. E' l'amante perfetto, un po' irruente, un po' fanatico, uno che alza le braccia al cielo dopo aver conquistato una vittoria, si, va bene.
E' il gioco, la bellezza di un gingillo infantile. Un Agnello nero, uno di famiglia. Un nobile il cui unico blasone è la fede juventina: Conte.