Sono un ragazzo che appartiene alla cosiddetta Generazione Punto Zero, ossia quel grande capitale umano e sociale di esperienze e relazioni che fatica a trovare una direzione precisa in un sistema bloccato, che si muove nella consapevolezza di appartenere ad un sistema socio-economico che non riesce ad offrire prospettive e soprattutto un lavoro ai più giovani. Conscio che la vita è ricca di ostacoli da superare e con alle spalle successi, sconfitte, cadute, tentativi e con un sacco di progetti nel cassetto, ho sempre visto il calcio come un grande raccoglitore di storie, un moltiplicatore di opinioni, un alimentatore inesauribile di passione e principalmente uno spazio per riallacciare il dialogo tra generazioni. Insomma il calcio stile di vita.

E non potrei pensarla diversamente dal momento che mi sono appassionato a questo sport leggendo “Il manuale del calcio” di Agostino Di Bartolomei. Mi capitò tra le mani durante il periodo di Zdenek Zeman sulla panchina giallorossa e Juventus-Roma era diventata la madre di tutte le partite.
Pensando al suo periodo, alla sua storia e alle sue parole e confrontandole con il mondo del pallone attuale il primo pensiero che mi viene in mente è che persone come Ago e come il capitano bianconero Gaetano Scirea erano la fortuna delle loro squadre, ma non solo. Erano, infatti un bene per tutto il calcio italiano. Persone e non personaggi, che il calcio lo hanno vissuto e amato. Con loro lo sport aveva un significato preciso: non era mai una guerra e il rispetto dell'avversario non era solo una regola del gioco, veniva proprio prima di tutto. Una lezione che prescinde dal tempo perché è rimasta nella mente anche di chi, come me, non era ancora nato quando Di Bartolomei calcava i campi da gioco. Il suo è un vademecum di regole ed esercizi per diventare anzitutto persone sane. Perché i suoi insegnamenti valgono non solo nel calcio, ma anche nella vita. E la sua storia, bella e disperata, deve rimanere un insegnamento per tutti noi e deve restituirci la voglia di non disperdere la sua lezione col passare del tempo.

Peccato che la speranza di quello che può portarci il futuro si infranga contro gli scogli di un presente che porterà in eredità episodi come quelli successi al termine di Juventus-Manchester United di Champions League. Una gara che fino a pochi minuti dal termine stava scivolando via senza nessuna sorpresa rispetto ai pronostici della vigilia.
Poi il ribaltone finale e l'incredibile epilogo. Sarebbe bastata la prima sconfitta interna stagionale dei bianconeri e i primi due gol subiti in Champions da una difesa fin lì imperforabile, ma Mourinho, poco dopo il triplice fischio non ha resistito allo sfizio di irridere i tifosi di casa, rei di averlo insultato per 90 minuti, facendo il segno dell'orecchio, come a voler dire “ora non vi sento più”. Al suo gesto ha fatto seguito la rabbia di alcuni giocatori bianconeri che lo hanno, per così dire, invitato a smetterla, e per giunta il disappunto dei salotti televisivi post gara, come in quello Rai, dove una stizzita Paola Ferrari, ha provato invano (e poco coadiuvata da un timido inviato) di far redimere il portoghese, che ha solo ammesso che a freddo non lo avrebbe fatto. Persino la stampa d'Oltremanica ha considerato, quasi all'unanimità, il gesto poco raffinato. In Italia, invece, si è colta la palla al balzo per incentrare il dibattito sull'antidiluviana guerra tra Juve e Inter, considerando tutt'oggi Mourinho un simbolo dei colori nerazzurri.

Il suo gesto è un ibrido: non abbastanza volgare da poter essere considerato un insulto, non tanto elegante da poter essere derubricato come insignificante. Di certo resta una caduta di stile per un personaggio comunque istrionico e che non è nuovo a questa teatralità. Dal gesto delle manette a quello delle orecchie, dalla reazione nei confronti dei suoi ex tifosi del Chelsea a quella di altri stadi, il tecnico portoghese ha scelto di entrare in una nuova dimensione, rispondere a tono e scendere un gradino più in basso di chi lo prende di mira, perché non dimentichiamo che rimane un professionista in un mondo, quello del calcio, dove la provocazione dei tifosi avversari esiste da sempre tanto che le eventuali reazioni scomposte di tecnici e giocatori sono sanzionate a livello disciplinare.

C'è forse un fondo di verità a chi riconduce questo suo atteggiamento alle molte, troppe stagioni senza vittorie di prestigio, dimenticando, però, il suo successo in Europa League del 2017. Dicono sia cambiato, che sia invecchiato e che la frustrazione, figlia delle mancate vittorie, lo porti a compiere gesti non alla sua altezza. È possibile. Mi preme, però, sottolineare il cortocircuito comunicativo che circonda ormai ogni ambito. La totale assenza di quello strato di protezione che divideva il personaggio pubblico da spettatori e tifosi, e che permetteva di non dare risalto alle frustrazioni di gente che si sente autorizzata a recapitare a chiunque la dose giornaliera di insulti, che sia in uno stadio, per strada o sul web. C'è una totale confusione di ruoli, che non vengono più rispettati da più parti, e la conseguenza è un frastuono in cui si mischiano volgarità, sfottò, dileggio senza controllo, ma anzi amplificate dai mezzi di informazione e dai social. Insultare l'allenatore della squadra avversaria non è certamente legittimo, anche se si paga il biglietto, così come non lo è la risposta di un tecnico pagato fior di quattrini pure per essere più forte di un insulto o di una provocazione. Quindi più che parlare di quale parte ha torto e quale ha ragione emerge chiaramente che di questi tempi lo stadio è un luogo dove si può insultare chiunque, anche un'intera città come Napoli (pure se assente dal contesto), senza subire conseguenze, anzi al massimo paga una multa la società. Ci si indigna giusto il tempo che una nuova partita cominci e visto che si gioca quasi tutti i giorni vuol dire al massimo 24-48 ore.

Mou ha risposto agli insulti e il suo “non vi sento” può essere considerato particolarmente fastidioso. Quello che non ha senso, e trovo particolarmente ipocrita è la guerra tra interisti e juventini, quell'odio che trovo quasi comico per la sua inconsistenza e quel senso di appartenenza che scatena un personaggio come Mourinho che è altrettanto incongruente se si pensa a quante squadre ha allenato e ne ha rivendicato il suo legame. Resta, pertanto, il fatto incontrovertibile che lo stile è una parola che appartiene ormai al passato e che la lezione di Ago viene ogni giorno dimenticata un po' di più.