In questi giorni il razzismo è tornato di moda negli stadi. È possibile derubricare questo fatto alla voce ignoranza? Davvero la soluzione sarebbe bandire queste orde di “barbari” dai campi di calcio? Siamo davvero sicuri che la soluzione sia così semplice? Qualche castigo e un’ora in più di lettura e via?

Credo che innanzitutto si debba fare un breve excursus storico che ci permette di capire meglio come il razzismo sia insito nell’uomo, ma soprattutto riaffiori in modo costante in certi periodi storici e in determinate circostanze.

Partiamo da lontano e pensiamo a come già gli antichi Greci leggessero il mondo in termini di noi e loro. Noi, quelli che sanno cos’è la libertà, gli altri, i barbari, che parlano lingue incomprensibili (infatti barbaro deriva da balbuziente) e che soprattutto sono soggetti alla tirannide, di fatto uomini abituati alla schiavitù e pertanto schiavizzabili. Però un bel giorno, dei barbari arrivati dalla penisola italica, per noi i gloriosi romani, dei quali certa retorica vorrebbe fossimo discendenti diretti, sottomisero i Greci.
Catone al rispetto diceva: li abbiamo sconfitti e sottomessi, ma io so che quando sono soli “continuano a chiamarci barbari”. Così i romani impararono dai Greci, per i quali provavano una gran venerazione, questa simpatica usanza di chiamare gli altri barbari, i quali però, una volta “civilizzati” potevano diventare cittadini romani. Un bel giorno però questi barbari, misero a ferro e fuoco l’Impero Romano, e s’insediarono nella penisola. Tranquilli però, nel riprodursi furono molto selettivi e noi da loro non discendiamo. Sta di fatto che le prime forme di razzismo non nacquero in uno sperduto bar di periferia, ma nella culla della civiltà occidentale.

Questo vizietto la nostra cultura se l’è portato in grembo per lungo tempo e grazie allo stesso abbiamo “civilizzato” ampie fette di mondo, le restanti le abbiamo ammazzate o schiavizzate. A ruota i barbari e/o altri sono stati i musulmani, gli eretici, le streghe, i neri ecc…

Con il passare degli anni il riconoscimento del barbaro si è dotato di “basi scientifiche” e a turno le razze sono state disposte in scale ordinate secondo maggiori o minori attributi morali e di valore che le stesse avrebbero fin dalla nascita. Poi queste teorie sono servite per sottomettere l’indigeno, il nero, ecc. Ma siccome con il tempo il razzismo è diventato un po’ demodé, giacché avrebbe avuto lo spiacevole inconveniente di produrre approssimativamente quegli 8 milioni di morti, allora hanno preferito chiamare i barbari clandestini, “sans papier”: molto più elegante, molto più in linea con le attuali esigenze economiche.

Ora, quando sentiamo gli ululati in curva e le canzoni dedicate alle banane, non dobbiamo pensare alle orde di barbari, nemmeno a fenomeni di ignoranza diffusa, bensì alla culla della nostra democrazia, a fior fiore di pensatori (Meiners, Arthur de Gobineau, Francis Galton, Theodore Lothrop Stoddard), questo modo di pensare e di dividere il mondo infatti è tipico del pensiero occidentale.

Orbene, perché proprio in questo momento riemergono in maniera così esacerbata quest’esigenza di dividere tra noi e loro? Storicamente il razzismo, non quello delle riviste scientifiche, ma quello di spranghe, mazze, roghi e treni che deportano in orario, riemerge nei momenti in cui una parte della società si sente attaccata, privata delle sue sicurezze, prima economiche e poi culturali e quelle sicurezze vengono spesso a mancare soprattutto in quella parte della popolazione che si occupa di produrre. O per caso qualcuno ha mai visto nel tennis qualcuno gridare: “Đoković, zingaro" Ve lo immaginate qualche lord ululare contro Tiger Woods?  Certi sport, ai quali assiste solo un pubblico d’elite, non possono permettersi certe esternazioni: “so uncool”.

Il calcio invece come si sa è uno sport di massa, anche i vip vi partecipano, ma in tribuna d’onore difficilmente vediamo persone a petto nudo, birra in mano cantare “Lavali Vesuvio…” In giacca e cravatta queste scene non sono permesse.

Detto questo possiamo dunque dire che il razzismo nasce per colpa di due poveracci che non hanno studiato? NO. Ma allora perché negli stadi il razzismo impera nelle curve, ossia il posto popolare per eccellenza e cioè quello più economico?

Perché dagli anni ’60 in poi in Italia qualsiasi movimento è stato incanalato in modo cosciente dalle classi politiche negli stadi, l’irruenza e la rabbia sono state fatte sfogare appositamente lì dove sono contenibili e relativamente innocue.

Allora il razzismo è colpa della classe popolare? No, il razzismo d’oggi nasce come conseguenza di una concentrazione della ricchezza senza uguali, dove sono sempre meno quelli che stanno bene e sempre di più quelli che stanno benino ed hanno paura di finire con lo stare malaccio. Una situazione dove a livello di diritti lavorativi abbiamo fatto un salto indietro generale di circa cent’anni, ricattabili e ricattati nella maggior parte delle professioni. Ma la colpa di tutto ciò, non è del tipo con la testa rasata ed il tatuaggio che si beve la sua birra allo stadio, bensì di chi anno dopo anno ha permesso questo tipo di degenerazione economica. Infatti, quello che sta in curva, affianco al ragazzetto di buona famiglia che ci va per fumarsi una canna e vivere qualche emozione di gruppo, è quello che fa fatica ad arrivare a fine mese, quello che ha paura di perdere il lavoro perché qualcuno lo fa per meno e quel qualcuno guarda a caso viene da un paese barbaro che abbiamo bombardato e dal quale estraiamo il nostro petrolio a buoni prezzi.

Ma attenti perché se quello con la testa rasata dovesse scoprire di avere molto più in comune con il negro/zingaro/terrone di turno chi si gode, pianifica, gongola, progetta a tavolino questo mondo popolato da ampie masse di diseredati potrebbe avere qualche problemino, invece quest’ultimo, siede tranquillo godendosi la finale di Wimbledon, con il suo biglietto da 4000 euro in mano, ritenendosi fortunato di non appartenere a quelle orde di barbari, che bevono, sbraitano sugli spalti della nostra Serie A. Non per questo non è razzista, solo che il suo razzismo è un po’ più chic.

Bene, vi danno fastidio i razzisti negli stadi, allora non serve a nulla proibire l’entrata, semplicemente basterebbe aumentare il prezzo de biglietto, il pericolo però è che invece di ritrovarveli in curva alla domenica, ve li troviate il lunedì sotto casa, con intenzioni poco amichevoli.

Ora, chi aveva promesso di combattere contro la povertà e l’ingiustizia, quelli che gliela faremo vedere noi, quelli che prima gli italiani, non hanno la benché minima idea di cosa fare, di come infastidire chi genera la povertà che genera l’odio che genera il razzismo, per cui si accontenta da una parte di aizzare cercando consensi, dall’altra di ammonire (nei salotti bene è meglio ancora non indossare la camicia nera), infine, siccome di tempo ne avanza, di dispensare pillole di saggezza calcistica. Nel frattempo, chi pianifica a tavolino la povertà d’oggi si lucida le sue nuove scarpe da 5000 euro, mentre fuma il suo Cohiba Behike per celebrare il fatto che la diminuzione del costo del lavoro, dovuta all’abolizione di questi insostenibili diritti lavorativi, abbia fatto schizzare le azioni della sua azienda quotata nella borsa di Londra.  

Intanto, il politico manda un tweet su Gattuso, mentre il tifoso a cui sono stati tolti i suoi diritti è intento a scagliare il suo odio sul “negro”.

Per concludere, purtroppo per noi, non basta leggere qualche libro di storia per evitare il razzismo (anche se male non farebbe), non basta chiudere le curve, non basta essere politically correct, non basta multare e penalizzare, purtroppo il razzismo è insito nella nostra mentalità occidentale del noi-loro (dicasi dicotomica) e ad esso ci aggrappiamo ogni qualvolta la gravità della situazione lo disponga per ritrovare le nostre sicurezze distrutte da 10 anni di impoverimento sia economico che culturale.

 Ora il razzismo che vediamo negli stadi nasce e si riproduce ben lontano da essi, ma forse, finché vi rimane confinato sarà anche il male minore, frutto dell’antica tradizione del panem et circenses.