Poesia e calcio, un binomio apparentemente senza alcun nesso logico. Capita, a volte, che alcuni calciatori vengano definiti “poeti del calcio”. Un titolo che suona quasi “nobiliare” nel mondo del calcio, un titolo che di fatto eleva il singolo calciatore ad una sorta di “artista del pallone”. Che poi questo “artista” sia effettivamente forte non importa.

Di poeti del calcio forti ne sono esistiti. Eccome se ne sono esistiti. Parlo dei vari Van Basten, Pirlo, Sneijder, Iniesta. Insomma, calciatori che con il pallone ci sapevano fare come pochi. Poi vi è stato anche un caso molto particolare: sto parlando de “el mudo” Riquelme, uno dei giocatori più talentuosi e rappresentativi del calcio sudamericano degli anni 2000. Un talento che, purtroppo, in Europa non è riuscito a confermarsi. Vuoi per le sue caratteristiche incompatibili con un calcio dinamico, vuoi per la saudade argentina, vuoi perché la Bombonera è sempre casa. Una casa più speciale di mille Santiago Bernabeu o Camp Nou.

 

Ma proprio il Camp Nou è stato il teatro di uno dei più grandi direttori d’orchestra della storia del calcio. Un giocatore elegante, leggiadro, immenso. Leopardi lo definirebbe “infinito”, probabilmente gli dedicherebbe una poesia. D’Annunzio stesso, da vero “esteta”, non rinuncerebbe ad inchinarsi di fronte alla sua classe cristallina. Sto parlando di Xavier Hernàndez Creus, noto al secolo come Xavi.

Il centrocampista spagnolo (ed è un insulto ridurlo ad un ruolo del calcio!) è stato una bandiera del Barcellona e della Nazionale spagnola. Ma questa è storia nota e apprezzata da tutti. In fondo, di bandiera ce ne sono state molte. Va bene, ogni storie è speciale, diversa, storica a modo suo. Ogni club ha avuto la sua bandiera, ogni club ha avuto il suo giocatore simbolo. Il Milan ha Maldini, l’Inter Zanetti, la Roma Totti, la Juventus il denaro (si scherza carissimi juventini, ovviamente devo citare Del Piero e Buffon).

Spesso e purtroppo, si parla di queste bandiere come di giocatori fortissimi, vincenti e rappresentativi. Punto. Il problema è proprio questo. La discussione non si può fermare a chiacchiere da bar, quando si parla di “bandiere”. Più che giocatori, sono veri e propri monumenti del calcio. In effetti, per ogni bandiera, andrebbe analizzato ogni singolo gesto, calcistico o non, per capire l’eternità di un gioco che non è solo un gioco. Perché ogni gesto ha la sua importanza ed a suo modo è decisivo. Ma soprattutto, ogni gesto è bello, mozzafiato, sbalorditivo. Utilizzate l’aggettivo che preferite. E se volete impegnare il vostro tempo nella ricerca di un nome che concretizzi il gesto tecnico di una bandiera (Xavi in questo caso), fate pure. Io, se mi permettete, vi semplifico la vita: ogni gesto di Xavi è bellezza, nella sua forma più pura.


Xavi è sempre stato un giocatore apprezzato, da chiunque. Un giocatore tecnicamente strepitoso, ma anche carismatico. Insomma, un giocatore fortissimo, che il Barcellona ha avuto la fortuna di avere nella sua storia. Un giocatore che sapeva giocare sia con la squadra che da solo, un giocatore capace di fermare una partita, gestendone totalmente i ritmi. E non sto esagerando.

Prendiamo ad esempio una qualsiasi partita di Xavi: il regista prende palla, si ferma in mezzo al campo, come se fosse rimasto interdetto da qualcosa di più grande di noi, e non reagisce a nessuno stimilo esterno. I centrocampisti avversari non gli si avvicinano nemmeno, come se fosse avvolto da una misteriosa aura di invincibilità, che lo rende inattaccabile. Ed egli blandamente riprende a correre per il campo, cercando un momento di vulnerabilità nell’avversario. Appena un suo compagno si muove, creando uno spazio per l’inserimento dell’ala offensiva, Xavi lancia per quest’ultima, con la consueta classe. L’ala non può che stoppare il pallone e proseguire la sua corsa fino in porta, dove può decidere di rientrare sul sinistro e tirare in rete o di passare la palla ad un suo compagno che si trova in una posizione migliore. Questa caratteristica appena descritta era una delle più peculiari di Xavi: infatti egli era considerato il “re del pre-assist”, ovvero di quel passaggio che precede l’assist. Purtroppo questa caratteristica non è conteggiata nelle statistiche del calcio, ed è un grave peccato nel suo caso.

Ma descrivere semplicemente un gesto tecnico di Xavi, che potreste dire essere anche molto comune, sarebbe un insulto a questa vera e propria leggenda vivente. Quindi andiamo ad analizzare quei tratti quasi metafisici, che superano ciò che è descrivibile usando solo la “fisica”.

Xavi, come abbiamo già detto, è stato un giocatore incredibile dal punto di vista tecnico, meno dal punto di vista atletico. Con ciò non voglio assolutamente dire che non sapesse correre o cos’altro, perché ben sappiamo quale importanza rivesta la parte atletica nel calcio moderno. Semplicemente, come da lui stesso dichiarato, “il cervello supera il fisico”. E questa frase è quanto di più vero non si possa dire. Di fatto è ciò che io ho affermato nel mio precedente articolo (che vi invito a leggere qui): il talento (ciò che possiede Xavi e che risiede nel suo cervello, nella sua psiche, per dirla alla greca) è il motore primo dell’idea di talento. Ovvero, il cervello (o l’anima, che dir si voglia) ha in sé un ideale di talento, una sorta di proto-idea, da cui scaturisce un’idea finale di talento, che viene applicata tramite i mezzi fisici, che ce lo possono impedire o meno (le famose 4 vie). Qui, Xavi sembra contraddirmi: effettivamente potrebbe essere così. Ma così non è, e vi spiego subito il perché (sono anche un poeta capace di rimare in prosa?): io, affermando che il talento è il motore primo dell’idea del talento poi applicato fisicamente, ho altresì affermato che l’idea, per essere applicata fisicamente, ha bisogno di un fisico adeguato, ovvero di una struttura fisica che ci permetta di mettere in pratica il nostro talento. E Xavi infatti non afferma che il cervello sostituisca il fisico e ne prenda il posto, ma semplicemente lo supera.

Ciò cosa vuol dire? Non vuol dire che se in campo mettiamo 11 giocatori che non corrono ma pensano e 11 giocatori che non pensano ma corrono, vincono i primi. Ma in un ipotetico giocatore “costruito su misura”, è migliore il giocatore che tende ad avere una componente psicologica più solida e sviluppata.

Per questo motivo, nelle scuole calcio, i ragazzi andrebbero allenati prima di tutto dal punto di vista psicologico, per aiutarli a comprendere quali sono i loro mezzi. Perchè spesso i ragazzi (e sono uno di loro, quindi parlo perché so) vedono nel calcio una via pressochè unica, in cui la scuola gioca il ruolo dell’ostacolo. Così non è, perché se si ha una proto-idea di talento ben applicata a scuola, si potrà anche sviluppare nel calcio. È così dicendo anche in altri campi. Questo, però, non è argomento di questo articolo, ma verrà sicuramente trattato in futuro.

 

Ritornando a Xavi, abbiamo capito che lui è il giocatore che meglio incarna la filosofia del “cervello che supera i mezzi fisici”. Basta guardarlo giocare e cercare di indagare nella sua mente: mi rifaccio ad un gesto ben preciso per non essere troppo astratto e quindi di difficile comprensione.

Prendiamo Xavi, che si trova nel cerchio di centrocampo: prende palla, corre verso l’area avversaria, ma gli si parano di fronte due avversari, mentre un terzo sta accorrendo. Può passarla solo indietro, ovviamente, essendo praticamente circondato. Xavi si gira, come se effettivamente volesse passarla dietro, sembra fermarsi, quasi accartocciarsi sul pallone quando gli avversari gli si avvicinano per prendergli la palla. Ma lui, grazie anche alla sua incredibile intelligenza, si gira di scatto, nascondendo il pallone fra i piedi ed eludendo così sia la marcatura dei due difensori vicini a lui, sia quella di quello che stava accorrendo, preso inevitabilmente contro tempo. Una giocata che può sembrare normale: diciamo pure che un qualsiasi giocatore dotato di una buona tecnica di base potrebbe eseguirla senza troppe difficoltà. Ma il fatto interessante è che il regista catalano l’ha ripetuta decine di volte durante la sua carriera, quasi sempre con esito positivo. Ma vediamo di guardare più introspettivamente questo gesto tecnico.

Xavi ha la palla, e si gira solo per un istante a controllare la situazione: vede due giocatori ed un terzo che sta accorrendo. Vede il proprio difensore centrale che gli viene incontro per ricevere la palla, e questa sarebbe un opzione di appoggio semplice e sicura. Xavi, tuttavia, se ne disinteressa completamente, come se la sua mente fosse completamente rivolta alla porta avversaria, come se il campo finisse lì dove lui si trova. E questo è molto interessante: come può un regista, che per autonomasia dovrebbe dettare i ritmi della propria squadra con sicurezza, correre un rischio del genere? Lui può, perché più che un regista d’orchestra, come ho erratamente affermato prima, lui è un compositore che gioca di squadra. In che senso? Nel senso che lui gestisce sì i ritmi della propria squadra, ma come vuole lui. Quindi la squadra è in balia della sua voglia? Se lui volesse potrebbe benissimo spegnere la luce e far sprofondare la propria squadra nel buio? Non proprio, perché uno spartito di fondo c’è. Una sorta di canovaccio, più che un copione. Nel senso che la trama generale c’è, ma gli acuti, le parti che verranno ricordate dai posteri, sono affidate alla sua esclusiva fantasia.

E un campione come Xavi difficilmente sbaglia anche nei momenti più difficili: ritorniamo al nostro giocatore. La sua mente ha già escluso la possibilità di passarla, quindi bisognerà girarsi in qualche modo. Qui viene fuori la genialità di Xavi, che sconfina dai campi da calcio e giunge nelle terre della fisica: essendo più basso, e quindi dotato di un baricentro più basso, Xavi ha maggiore controllo del pallone, non dovendo muoversi su gambe particolarmente lunghe. Questo però gli impedisce di aver una grande progressione del lungo: poco importa, lui gioca da regista, un ruolo in cui le grandi distanze sono pressoché assenti. Non dovendosi muovere su gambe particolarmente lunghe, lui può abbassarsi, quasi ingobbirsi, mantenendo con tranquillità sorprendente il possesso. I difensori gli si avvicinano, convinti di averlo in pugno: ed è naturale, dopotutto è quasi impossibile uscire da una marcatura a tre senza passare il pallone ad un compagno di squadra.

Ma Xavi ha già deciso cosa farà: ingobbendosi ed essendo già basso, costringe i marcatori ad abbassarsi e a creare uno spazio fra di loro, rendendoli anche meno mobili. Questo buco può essere perfettamente sfruttato da Xavi, che con agilità pone il pallone sotto di sé. A questo punto, i giocatori che lo marcano sono costretti a fare una scelta in pochi millesimi di secondo: purtroppo pochi hanno questa reattività, e quindi vengono saltati di netto. Il tutto con lo stupore degli stessi compagni di Xavi che non si potevano aspettare un gesto simile in una situazione simile.

 

Però qui, sembra cadere la frase di Xavi: perché riesce a compire quel gesto tecnico? Perché è basso, e quindi ha un baricentro più basso e può controllare meglio il pallone. È vero, però qual è il motore primo di quel gesto? L’idea di talento, che viene applicata in quel gesto. È qual è il motore primo dell’idea del talento? Il talento stesso.

A dimostrazione del fatto che il cervello, nel calcio, viene e verrà sempre prima del fisico, almeno finché quest’ultimo non riuscirà ad assumere una sua anima (ovvero mai). Una teoria che affonda le sue radici nel totavoetbal olandese, in cui l’idea di talento era superiore a quella di qualsiasi altra idea. Il più grande portavoce di questa idea fu il mitico Johan Cruijff, che guarda caso dove ha giocato? Al Barcellona. È come se il suo spirito avesse pervaso la Masia e avesse preso possesso di Xavi.

 

Per questo Xavi non è solo bellezza, idea di calcio e di talento, ma è proprio un poeta. Ovvero un’entità che genera bellezza, ma che è lei stessa bellezza. Un giocatore irripetibile: un vero e proprio poeta del calcio, che ha saputo, grazie al suo talento, scrivere pagine irripetibili nella storia del calcio.

 

Federicoz