All England Lawn Tennis and Croquet Club, questo è il nome di quello che è probabilmente il più famoso club di tennis al mondo, ubicato nel sobborgo londinese di Wimbledon (pronuncia corretta Uimbeldon).

La curiosità è che nacque come club dedicato al solo croquet, gioco molto praticato nella Londra Vittoriana, predecessore del golf e del biliardo (è un mix delle due discipline, praticato su un campo in erba, ha l’obiettivo di far passare con una mazza delle sfere attraverso delle porticine), per poi diventare il simbolo del tennis qualche anno dopo, esattamente nel 1877, quando all’interno del circolo si disputò il primo torneo dell’evoluzione della Palla corda.
Da almeno un secolo, quando si chiede ad un bambino appassionato di tennis qual è il suo sogno, la risposta immancabilmente è: giocare a Wimbledon.
Ci sono altri tre tornei, tre sedi di pari importanza (Roland Garros a Parigi, Us Open a New York, Australian Open a Melbourne), ci sono gli Internazionali d’Italia al Foro Italico di Roma che per fascino e bellezza della città non hanno nulla da invidiare a nessuno, ma Wimbledon è Wimbledon, come San Siro è San Siro. Tutti o quasi, da bambini sognavamo di giocare a Wimbledon e/o a San Siro.

Nel 1946, a seconda guerra mondiale terminata, gli inglesi decisero che tedeschi, giapponesi e italiani, figli di nazioni responsabili del più grande disastro umanitario fino a quel momento accaduto e da poco conclusosi, non avevano diritto a varcare i Doherty Gates, i cancelli di ingresso dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, a loro fu negata in quell’edizione la possibilità di calpestare l’erba più desiderata, più sognata da ogni bambino del mondo appassionato di tennis.
Era il 1946, essere tedeschi, giapponesi e italiani in quel momento significava aver distrutto l’Europa, aver portato fame, morte, disperazione, significava non avere l’onore di poter giocare a tennis, di poterlo fare a casa degli inglesi che quella guerra l’avevano combattuta, vinta, onorata.

Oggi siamo nel 2022, la Russia un paio di mesi fa circa ha invaso l’Ucraina come nel 1939 la Germania invase la Polonia, la storia si ripete, la terra di mezzo, di confine, di demarcazione tra Est ed Ovest entra a far parte di un piano geopolitico che ha come unico interesse far pagare l’impagabile alla gente, a quella gente, a tutti noi, che di guerra, di geopolitica, di interessi economici non ce ne frega nulla, vorremmo solo vivere in pace e magari continuare a sognare di giocare a Wimbledon.
La guerra tra l’invasore (Russia) e l’invaso (Ucraina) non è finita, gli inglesi questa volta non sono (per il momento) direttamente coinvolti, ma hanno deciso che essere russi, che chiamarsi russi (e Bielorussi) è un disonore, è a prescindere una forma di responsabilità per quello che sta succedendo, per le bombe su Mariupol, su Kharkiv, su Kiev, su tutte le città ucraine disastrate dall’ennesima guerra che in Europa e nel Mondo noi che vogliamo solo continuare a sognare Wimbledon non avremmo più voluto vedere, subire.

Daniil Medvedev, Andrey Rublev, Karen Khachanov, Aslan Karatsev, Ilya Ivashka, Aryna Sabalenka, Anastasia Pavlyuchenkova, Victoria Azarenka, questi sono i nomi dei tennisti russi e bielorussi più conosciuti, più importanti, più forti che non potranno deliziarci con i loro dritti, i loro rovesci, le loro volèe in tuffo sull’erba dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club.

Credo che lo sport, qualsiasi sport debba fare da scudo alle diseguaglianze, al razzismo, all’odio, alla guerra. Lo sport è di tutti e per tutti, lo sport non conosce confini, non conosce la geopolitica, non conosce le armi, la guerra.
La maggior parte degli atleti sopra citati si è espresso in maniera decisa contrario all’invasione russa, lo ha fatto rischiando, sapendo quali potrebbero essere le conseguenze di andare contro ad un regime.
Perché estrometterli, perché essere italiani nel 1946 era un disonore, perché essere russi e bielorussi oggi lo è alla stessa maniera?

Cari inglesi, cari soci dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, così facendo, Wimbledon sarà solo più brutto e triste.
Chiamarsi russi non è un disonore.