In un’epoca remota lo chiamavano “Il teatro dei sogni”.
Decisamente un buon modo per descrivere un tempio abituato a ricevere nella sua grande hall ospiti e lord inglesi che si identificavano nel fragore di una folla abituata a pressare senza mezzi termini la precisione e gli assiomi calcistici che popolavano il Regno Unito.
Arrivava il sabato, giorno atteso da qualunque categoria sociale, perché già nell’aria si respirava quel clima di festa che 24 ore più tardi sarebbe sfociato nel Sunday Morning, in grado di coronare esperienze di unione e possibilità di spingersi nei meravigliosi luoghi turistici che l’Inghilterra offre.
In città, lungo le vie del centro iniziavano a sventolare bandiere e t-shirt del Manchester United portate in groppa dai bambini che animati dalla fiducia di vittoria si preparavano a festeggiare i 3 punti del club davanti al classico tè britannico; passavano le ore e la lunga folla riunitasi nei pub calcistici si dirigeva presso la Sir Matt Busby Way, la via di Old Trafford che presentava la magia dello United, pronto a macinare gioco e a meravigliare i ragazzi delle scuole calcio che sognavano un giorno di calcare quel prato verde, ricco di storia e onore.
La logica contrastava la matematica anche perché chi scendeva in campo colorato da diavolo rosso sapeva benissimo che l’obiettivo era rendere possibile l’impossibile, scalare quella montagna proibita e divertirsi, perché lo sport è arte e non a caso in Italia un certo Brera parlava di geometrie euclidee. Iniziavano a calciare la palla, a fare triangoli perfetti e a vincere contro tutto e tutti; sulla panchina sedeva Sir Alex Ferguson, lo scozzese di ferro osannato dal popolo del Manchester, inchinato davanti al re.

Come succede in ogni ambito e come affermavano i grandi saggi della letteratura italiana dalla scrivania stracolma di cultura, il tempo passa per tutti e nessuno è in grado di poterlo fermare. La storia dei grandi club, così come quella dei campioni, si dilata sotto la luce delle stelle portatrici di gloria e si assottiglia quando tutto non ruota più nel giusto verso. È capitato a tutti e anche la fama infinita del Manchester United non è riuscita ad evitare il vortice della decadenza. L’ultima Premier League alzata risale alla stagione 2012/13, poi tante delusioni e poche sfide degne del blasone del club. Dall’addio di Sir Alex Ferguson sono passate catene di allenatori che vanno dall’inesperto Moyes a Louis Van Gaal, uomo d’esperienza ricoperto dalle difficoltà di una squadra forse stremata dagli sforzi passati e in cerca di nuove pedine volte a far ripartire in positivo un progetto che sembrava inchiodato alle critiche dei tifosi.

Ci ha provato persino Josè Mourinho a risollevare gli animi e benchè se ne dica lo United, sotto la guida dello Special One, è riuscito ad alzare un’Europa League contro l’Ajax dei ragazzini, club storico che proprio in quel periodo iniziava a lanciare il promettente De Ligt, ambito da tutte le big europee.
Il problema di fondo della gestione Mourinho però si esula dal caratterino dell’ex Inter e tocca anche l’aspetto tattico della squadra. Come ormai tutti sanno il portoghese ama il gioco di contenimento e le ripartenze in contropiede, un po’ come facevano Milito ed Eto’o nella sua esperienza milanese, ma la filosofia britannica non ammette barricate o attese, obbliga a correre dal primo all’ultimo minuto e questo è supportato dal fatto che fatta eccezione per lo strapotere fisico del City è difficile vedere un team in grado di gestire la palla per novanta minuti. Allo stesso tempo, la velocità di gioco e la grinta del popolo obbligano i calciatori ad uscire dalle tenebre difensive e a mostrare gli artigli con serietà e voglia di fare. Per di più, le difficoltà difensive di Lindelof e compagni hanno contribuito ad incassare enormi quantità di gol e a far saltare Josè Mourinho.

Il calcio, così come lo sci di alta montagna, richiede anche una certa dose di coraggio. Il campione affezionato alle discese libere, al suo abbigliamento e alla voglia di respirare la libertà in alta quota si distacca dal mondo, pensa ad un’epoca passata e sa inevitabilemente che per provare ad osare un po’ di più è necessario trovare quella forza di animo che ti fa compagnia durante “il grande salto”, quell’arco di tempo che conduce davanti al pubblico dotato di giubbotti folti per scacciare l’incubo del freddo. E proprio come fanno gli esperti di questo settore, il mondo del pallone obbliga a fare scelte coraggiose e a mandare un segnale forte al contorno dirigenziale; scelte rischiose o sbagliate non importa, perché per coronare la gloria serve avere quel pizzico di follia che possiedono i più valorosi artisti.

In casa Manchester le luci si sono accese con la nomina di Solskjaer, piazzato sulla panchina di Old Trafford per riportare serenità e voglia di giocare a calcio. Sono bastati pochi istanti per capire il valore del tecnico norvegese, affezionato all’ambiente e conoscitore di quel gioco britannico capeggiato da Ferguson, suo ex manager nonché grande amico. Il cambio di rotta è stato effettuato anche in maniera troppo drastica visto lo stile di gioco che presentano i Red Devils con l’avvento del nuovo coach. Non più di dieci giorni fa leggevo commenti che definivano il norvegese un traghettatore alla Caronte da salutare con un semplice “grazie” a fine stagione, ma la verità sta nella sincerità di quest’uomo e nel modo professionale con il quale si è calato in questo suo ritorno casalingo.
A coronare il forte impatto ecco la splendida vittoria ottenuta contro il Tottenham a Wembley, per di più senza subire reti e con parate da fuoriclasse di De Gea, convinto sempre più di rimanere a Manchester. La rimonta dei campioni e forse l’inizio di un nuovo ciclo con un amico del vecchio capostipite scozzese, sempre attento alle vicende del club.

E ora fuori sciarpe, berretti e bracciale perché lo United ha esposto uno striscione a tutta la Premier che recita “We are coming back”.