Antonio Conte è sicuramente uno degli allenatori più estremi del calcio europeo e pertanto uno dei più interessanti.

Ciò che lo caratterizza non è tanto il modulo di gioco (il 3-5-2 è solo un approdo, non la sua essenza), quanto l'approccio e i valori: una tensione esasperante verso la vittoria, sorretta da una disponibilità incondizionata al sacrificio. Intensità e rabbia agonistica, nessun compromesso con tutto ciò che è alieno al suo universo. Questo è ciò che Conte pretende (e ottiene) dalle sue squadre, questo proietta nelle menti dei suoi giocatori; ma se guardiamo bene, ciò che proietta è proprio se stesso. E qui è stato sinora il suo limite più evidente.

Forse è più facile allenare se sei stato un calciatore scarso: per definizione, non puoi essere tu l'esempio. Forse è ancora facile se sei stato un fuoriclasse: non puoi essere la pietra di paragone dei tuoi calciatori, perché è ovvio che un talento unico non si può riprodurre a comando, e neppure creare col lavoro.
Il problema si pone se sei stato un calciatore forte, con buone doti tecniche e un buon fisico, ma nulla più, e ti sei arrampicato al livello dei più grandi col sacrificio e la forza di volontà. Quello stesso carattere, quella ferocia che ti faceva chiudere il divario coi compagni più dotati ti ha pian piano suggerito che, in fondo, il più forte eri tu. Quante volte avrà sorriso dell'indolenza e della timidezza di un Baggio, quante volte si sarà chiesto cosa avrebbe potuto fare se avesse avuto i suoi piedi. E la conclusione, nella sua mente, era sempre la stessa: la dote più importante è quella che ho io. 

Diventato allenatore, non ha fatto altro che proiettare il suo credo inossidabile sulle sue squadre. La cosa incredibile è il successo immediato: per convinzione, per carisma, o per paura, i suoi giocatori sembrano subito investiti dal suo sacro fuoco, subito pronti a morire sul campo. Poi...
Poi arriva il momento in cui la parte del mondo scientemente accantonata e soppressa si prende la sua rivincita. Il momento in cui la tecnica e la logica ristabiliscono le gerarchie, con tanti saluti alla "fame", al sacrificio e alla fedeltà.

Juventus-Bayern, Champions 2013: un divario tecnico imbarazzante, la Juventus leonina di Conte diventa un mite agnello, non combatte neanche più e si limita a guardare il palleggio altrui.

Italia-Germania, Europei 2016: l'Italia pareggia immeritatamente, dopo più di 70 minuti di dominio tedesco, su un rigore generoso; i tedeschi sono stanchi e nei loro occhi leggi un misto di terrore e rassegnazione; è evidente ciò che stanno pensando: "Se neanche oggi, pur dominandoli, siamo riusciti a chiudere la partita, vuol dire che finirà come tutte le altre volte, con gli azzurri che esultano". È un momento magico, per un allenatore: deve solo richiamare le due punte in panchina e inserire El Shaarawi e Zaza, ordinando loro di puntare sistematicamente gli stremati difensori tedeschi. Il punto non è tecnico, è psicologico: significa confermare ciò che nelle teste dei difensori tedeschi ha già preso piede, l'ineluttabilità della sconfitta, lasciarli nei loro incubi finché gli si spengano le ultime forze. E invece Conte non vuole tradire Eder e Pellè: sono le sue creature, fedeli ai suoi dettami, pronti a morire per lui (anche perché solo con lui potevano arrivare in nazionale): dovrebbe sostituirli con due indolenti stralunati? Così si andrà a supplentari insulsi e poi ai rigori maturerà la prima sconfitta coi tedeschi in un incontro ufficiale.

8 marzo 2020. In un clima surreale, nel pieno di una pandemia, si gioca Juventus-Inter a porte chiuse. Sembra l'ultima partita della storia, chissà se ci sarà un domani. E quindi è il momento perfetto: il teorema di Conte può fissarsi per sempre nel libro eterno del calcio: impegno, fame e ferocia contano più della tecnica.  Il primo tempo scorre nella battaglia: la Juve di Sarri prova altezzosa a palleggiare, vorrebbe colpire ma non riesce; l'Inter sgasa e combatte, vorrebbe segnare ma non può. Nel secondo tempo, un gallese temporaneamente sottratto all'infermeria lascia un segno: 1-0. Conte e l'Inter vogliono ribellarsi a questo segno scandaloso. Ma un piccolo argentino si infila coi suoi sci immaginari tra i paletti nerazzurri e, irridente, il pallone colpito d'esterno si spegne in rete. Gli occhi bassi di Conte a fine partita non sono solo per la sconfitta, o lo scudetto che se ne va. Sono il dubbio atroce che il suo credo possa vacillare, che la tecnica da sola, per quanto indolente, possa ribaltare il più strenuo impegno e incatenarlo al suo ruolo subalterno.

Nella stagione 2019/2020, quasi tutte le partite dell'Inter con squadre di maggior tecnica sono finite con una sconfitta. Ma Conte non vacilla: servono 11 Antonio Conte in campo e quindi così si imposterà il mercato; si apre la caccia ai Vidal e ai Kante, che si aggiungeranno ai Barella, ai Brozovic ecc... Eriksen, emblema dell'odiata accoppiata tra tecnica e indolenza, resterà secoli in panchina. Conte porterà la sua scommessa al limite: lui deve dimostrare che con 11 Conte in campo si vince.

Forse riuscirà finalmente a dimostrarlo.
O forse il dubbio, prima che accada, si insinuerà nella testa di alcuni suoi giocatori e, uno dopo l'altro, lo abbandoneranno.
Chissà...