Olanda-Danimarca, Amsterdam sabato 26 marzo 2022, partita amichevole vinta 4 a 2 dagli Orange che tutti ricorderemo per il minuto 47, quello in cui, raccogliendo un cross basso arretrato di un compagno, Christian Eriksen ha definitivamente varcato la linea di confine tra la vita e la morte, o per meglio dire tra la morte e la vita, perché, senza voler beccare di blasfemia, il calciatore danese è come Gesù di Nazareth resuscitato, non lo ha fatto in tre giorni all’interno di un sepolcro ma sul prato verde di un campo da calcio, il luogo che più identifica la sua vita.

Nessuno di noi dimenticherà mai il momento in cui per qualche secondo, forse per qualche minuto, attraversò quella linea non poi così tanto immaginaria che determina la fine della vita terrena per dare inizio, come dicono i credenti, ad un’altra ancora più bella, più gioiosa tra angeli che suonano le arpe e anime pure che cantano inni alla pace, alla tolleranza, alla giustizia.
Quale giustizia ci sarebbe stata veramente per un ragazzo di ventinove anni che dopo aver dipinto, con il suo educatissimo piede dentro, di mille meravigliosi colori gli incroci dei pali di tante porte che aveva incontrato, se ne fosse andato così prematuramente, così presto lasciandoci soli nel non poterlo più ammirare nel suo sorriso sincero e felice ogni volta che delizia il mondo accarezzando quella sfera adorata da tutti?

Nessuna giustizia ci sarebbe stata, sarebbe stato solo dolore per chiunque, per la sua famiglia, per i suoi amici, per la sua nazione, per il pianeta Terra intero.
Non meritava lui e non meritavamo tutti noi di vederlo sopra le nuvole, e perciò saremo eternamente grati a quel defibrillatore, a quei medici, al suo amico e compagno di nazionale Simon Kjaer che per primo lo ha assistito, saremo per sempre totalmente grati, anche i non credenti, a quella forza superiore che lo ha tenuto qui tra noi, a tutti quelli che hanno contribuito a non rovinare l’esistenza a sua moglie e ai suoi figli e hanno dato la possibilità a noi inguaribili romantici amanti del calcio di poterlo ancora ammirare in quelle sue movenze non velocissime ma di una classe ormai sempre più difficile da trovare in chi pratica lo sport più bello dell’universo.

Io sono interista, per me Christian Eriksen significa un meraviglioso goal su punizione che ha dato la vittoria in un derby, significa un girone di ritorno strepitoso culminato con la vittoria del diciannovesimo scudetto, significa la felicità di pensare, di sognare ad occhi aperti una grande Inter come quella di Herrera, del Trap, Mourinho.
Quella grande Inter che la scorsa estate immaginavo non esiste più, non c’è più anche perché Christian Eriksen è per fortuna vivo ma ha nel petto un’assistenza per l’esistenza, un qualcosa che per i medici italiani non dà garanzie per poter praticare sport a livello agonistico, professionistico.
Non mi voglio pronunciare sulla questione, non sono un medico, non ho le competenze per farlo, mi interessa solo che l’ex numero 24 interista stia bene, che sia così in forma da poter convincere i medici inglesi e danesi che può ancora deliziarci con le sue magie sul rettangolo di gioco.

Il mio sogno ora non è più una grande Inter, ma rivederlo anche solo per una partita indossare ancora una volta la maglia neroblu, magari calciando una punizione al sette alla destra del portiere rossonero una palla che va a gonfiare la rete.
La vita è strana, proprio nel momento in cui sembra volerci togliere, improvvisamente ci dà, e proseguendo a sognare lo faccio urlando al cielo, a quel cielo che grazie a Dio lo ha rimandato giù: Viva Christian Eriksen!