Oggi voglio accantonare per un momento i miei consueti articoli a tema calciomercato, per cimentarmi in qualcosa che per me rappresenta un'assoluta novità.
Incuriosito dalle numerose storie che ogni giorno nascono dal genio creativo dei blogger di VxL e vengono pubblicate su questa piattaforma, voglio cimentarmi nella scrittura e nella pubblicazione del mio primo racconto.
Mettetevi comodi, prendetevi tutto il tempo e lasciatevi trasportare paragrafo dopo paragrafo, parola dopo parola, nella patria del calcio.

Ispirato a fatti realmente accaduti. 

"Uh, che fatica essere arrivati qua sopra! Ci sono voluti mesi e mesi di preparazione per trovare una via per poter assistere alla partita della vita, la più importante per il mio Brasile. Da appena cinque anni è finita la seconda guerra mondiale, che fortunatamente ha risparmiato la mia gente.
Ci ha protetti il Cristo Redentor, sul Corcovado. Costruito poco prima della guerra, dicono i miei genitori, che hanno potuto assistere alla realizzazione dell’immensa opera. Ma, in fondo, io in Dio ci credo ben poco. Non so perché, ma c’è qualcosa nella sua natura che non riesce a convincermi. Se veramente fosse così buono e misericordioso, perché non potrei guardare la partita nello stadio, comodamente seduto su una di quelle belle poltroncine? Ma mamma e papà mi dicono di crederci, che non devo ascoltare le mie idee, perché sono ancora un bambino. E si sa, i bambini cattivi finiscono all’Inferno.

La mia avventura parte a Tres Coracoes, una cittadina nell’entroterra, poco distante da Rio de Janeiro. Sono nato nel 1940, il 23 ottobre. Non era una bella giornata, anzi, pioveva a dirotto, mentre nascevo nella casa dei miei nonni.
Mi chiamo Edson e ho 9 anni, fra poco 10, da cinque anni vivo a Bauru. E amo il calcio. Ogni volta che ne ho la possibilità gioco per strada, con quello che trovo, a volte un frutto di mango, a volte un calzino riempito di stracci, se sono fortunato un pallone bucato. Palleggio di tutto, letteralmente. Poi adoro dribblare la folla che mi viene incontro, far passare il “pallone” fra le gambe dei miei “avversari”.
Papà è fierissimo di me, vorrebbe che io facessi un provino per la squadra della nostra città, ma non abbiamo i soldi nemmeno per mangiare, figuriamoci per potermi comprare un paio di scarpini. Ma, visto che ho già 9 anni, posso mettere da parte qualche soldo, lavorando come lustra-scarpe. Fino ad ora ho messo da parte 50 cruzeiri, mentre gli scarpini che voglio comprarmi costano 550. Magari papà mi potrà aiutare!
Vivo in una piccola “casa”, se così si può chiamare, costruita di ciò ogni giorno troviamo per strada: mattoni impilati per le pareti, una lamina di metallo per il tetto e una tenda di plastica per la porta. Io dormo nella camera dei miei, con papà, il mio eroe. Anche lui ha giocato a calcio, nella squadra della nostra città attuale, ma non è mai riuscito ad arrivare nella Selecao. “Se non fosse stato per questo maledetto ginocchio, Edson...” soleva ripetere quando ascoltava dalla sua radiolina le partite. Sin da quando ero nato aveva dei problemi al ginocchio destro, perché andando ad allenamento era scivolato finendo in una buca. Ma io, ogni singola volta, perché mio papà si meritava la Coppa, gli promettevo che ce l’avrei fatta, che avrei giocato per il nostro Paese e avrei vinto un Mondiale. Non ci sono soldi per gli scarpini, ma sognare non costa nulla, vero?

Oggi è il 23 giugno del 1950. Stiamo aspettando alla fermata di Bauru l’autobus che ci porterà a Rio de Janeiro, dove passeremo tutta l’estate. Ci ospita la sorella di mio papà, mia zia, che ha una casa sulla spiaggia. Probabilmente i miei vogliono che io nuoti un po’ nel mare, che faccia amicizia con i ragazzini della mia età e che stia il più possibile lontano da Bauru, dimenticando per almeno due mesi la triste monotonia che condiziona le nostre vite. Anche se per me non è triste, quando riesco a trovare qualcosa di simile ad un pallone. Ah, eccolo! È proprio identico a quello che ci ha portati l’estate scorsa: altissimo, di colore verde, ogni parte della sua carrozzeria dove si posa il mio sguardo è arrugginita. Entriamo e mio papà paga i 20 cruzeiri per tutta la famiglia, bagagli compresi. Non che siano chissà cosa, una valigia per quattro persone. Oggi è pienissimo, ci sono solo 5 posti liberi, e quattro li occuperemo noi. Sicuramente tutte queste persone stanno andando a Rio, ma per un motivo ben diverso da quello di papà: tutti vanno a vedere il Mondiale, che inizia domani alle tre del pomeriggio, nel nuovissimo Maracanà.
Mio papà no, non vuole: vedere suoi amici e anche ex-compagni di squadra esultare dopo un goal, o addirittura festeggiare la vittoria del titolo sarebbe un dolore insopportabile per il suo orgoglio. Lui ama il calcio, ma la sorte gliel’ha fatto odiare. Eppure in me ha visto qualcosa, perché quando mi guarda sorride, vede in me se stesso da piccolo, ma ben più forte. Dice che ho il tocco di Leonidas, quella velocità, quel dribbling, quel tiro, quel talento... mi dice che sono un vero “diamante”, che spera un giorno possa mostrarsi a tutto il mondo. Mi ha promesso che avrebbe lavorato quest’estate, nonostante sia una vacanza, per permettermi di entrare nell’accademia del Bauru, dove lui è una leggenda. Ah uno scossone, ah un altro! Questa strada è un disastro, non mi lascia nemmeno pensare, dio santo! Ero appoggiato al bordo del finestrino, a cui manca il vetro, e il sobbalzo mi ha fatto sbattere la testa contro di esso.
Mia mamma mi ha detto di stare più attento, ma anche lei sa cosa sto passando in queste settimane: la mia passione aumenta, ma non posso permettermi di praticarla. Mi riappoggio, con più attenzione, cominciando ad immaginare il mio futuro da calciatore, a sognare ad occhi chiusi...

Capolinea Rio de Janeiro Ipanema, grida il conducente, e io mi risveglio a fatica dal torpore del sonno.
Non ci credo, siamo arrivati! Scendo dall’autobus barcollando, con gli occhi ancora socchiusi, come se fossi ubriaco, solo che il mio vino è il sonno, dopotutto sono solo le 8 del mattino, ma qui a nessuno sembra importare. Non ho mai visto la spiaggia di Ipanema così affollata, fiumi di persone che si riversano come affluenti nell’enorme Oceano Pacifico. Mio papà scuote la testa, sussurrando a mia mamma “Questi turisti distruggeranno il nostro Brasile...”. Più che arrabbiato, è rassegnato. Sa perfettamente che la federazione brasiliana non ha vinto il bando per aiutare la popolazione con gli introiti, o perché il nostro Paese fosse la patria del calcio, ma solamente per arricchirsi. Ma io di queste cose economiche, non capisco molto. E non mi interessa. Per me l’importante è giocare a calcio.
Dopo aver camminato per 10 minuti fino alla nostra casetta, vedo la zia sullo stipite. Le corro incontro e la abbraccio, lei mi accarezza i capelli e mi bacia sulla nuca, dicendo “Finalmente qua, Edson mio...”. Mi vuole tanto bene, e ha spesso insistito affinché mio papà mi lasciasse con lei, cosicchè potessi frequentare l’accademia del Santos, di cui conosceva il presidente. Mi avrebbe pagato tutto. Ma mio papà non voleva avere debiti con nessuno, nemmeno con sua sorella. Ancora una volta il suo orgoglio mi aveva limitato. Ma era pur sempre il mio eroe.
Per il primo giorno, come ogni estate, la zia si era fatta portare da un suo amico italiano la “pizza”, una specie di focaccia piatta con sopra pomodoro e formaggio. A dir la verità, non mi ha mai entusiasmato, ma ogni volta che mia zia mi chiede un parere, dico che è buonissima, perché non voglio ferirla. Dopotutto, anch’io le voglio un mondo di bene, è come una seconda mamma. Dopo aver finito la mia porzione, enorme, esco in città per vedere se qualcosa era cambiato. Ed era cambiato TUTTO rispetto ad appena 9 mesi prima. Gli edifici vecchi sono stati completamente rinnovati, ne sono stati costruiti di nuovi, quasi tutti alberghi per turisti, e qua vicino c’è un campetto da calcio, secondo il vigile a cui ho chiesto informazioni. Devo andare lì. Torno a casa per prendere le mie scarpe, quando la zia mi ferma con una scatola in mano, e mi dice “Questi sono per te”. Apro la scatola e vedo gli scarpini che desideravo...non ci posso credere, l’ha fatto lo stesso, nonostante mio papà non volesse...scoppio a piangere e la abbraccio in una stretta fortissima, mi fondo con lei e sento il suo cuore battere forte, una sua lacrima cade sui miei capelli neri, mentre continua a ripetermi nell’orecchio sinistro “Edson, un giorno sarai qualcuno, salverai tuo papà e tua mamma...e penserai anche alla zia, forse...” Sì zia, ti penserò, promesso.

Mi avvio per andare al campetto, dove avrei sicuramente trovato qualcuno dei miei amici della scorsa estate: Rogerio, Paulo, Sergio, Marcinho, il grande Romarinho... i ricordi affiorano nella mia mente, come fiori all’arrivo della mite primavera, rendendo il mio animo tranquillo, come se i nove mesi che mi hanno separato da questo posto magnifico non fossero mai passati. Neanche il tempo di soffermarmi sui miei vivi ricordi, che il mio viso sbatte contro la rete metallica del campetto di cemento, “invaso” da tutti i ragazzini del vicinato: cercando di scorgere qualcuno dei miei amici, noto Romarinho in porta. Come ai vecchi tempi...ad un tratto, prevalso il mio istinto, urlo il suo nome a squarciagola, superando lo schiamazzo della calca calcistica, e lui si gira di scatto. Fregandosene completamente dell’azione in corso, che avrebbe potuto portare al goal subito, corre verso di me e, dopo un’occhiata di reciproco riconoscimento, mi abbraccia con forza, sollevandomi da terra.
Come ai vecchi tempi... io sono ancora piccolo, mentre lui è sempre il “grande”, il fratellone che ci vuole tanto bene, ma che ci prende anche in giro...battendo con i pugni sulla sua schiena, per scendere da quella giostra che tanto mi era mancata (e da cui non sarei affatto voluto scendere!), mi lascia appoggiare i piedi per terra, dolcemente, quasi mi stesse cullando. Cominciamo subito a parlare, a raccontarci le esperienze vissute in questi mesi, e lui, appena nomino l’inizio dei Mondiali 1950, si rabbuia in viso. “Non parlarmi di quella mer*a, Edson. Hanno costretto me e la mia famiglia a trasferirci per far spazio al nuovo albergo della Selecao, distruggendo la mia casa. E sai cosa ci hanno dato? Una puzzolente capanna di latta nella favelas più schifosa della città! Questi sono i Mondiali della gente? Beh, a me non sembra Edson... io gioco a calcio per aiutare un giorno la mia famiglia e tutto il Brasile dei poveri, visto che questo Stato ha i soldi per costruire enormi alberghi ma non per garantire a me una piccola casa.” Rimango totalmente allibito dalle sue parole, il sangue mi si raggela nelle vene... è questo il calcio? Dio, tu che sei onnipresente e onnipotente, è questo lo sport che amo?
Dopo pochi secondi di silenzio, lui riprende a parlare con il solito tono scherzoso, fino a quando, dopo aver notato che all’appello dei miei amici, che avevano fermato la partita per salutarmi, mancava Sergio, gli chiedo dove sia finito. Tutti mi guardano. I loro occhi non si staccano da me. Mi sento osservato come un fenomeno paranormale, una sorta di portatore di sventure, una reminiscenza dell’infanzia più pura, svanita nell’arco di pochi mesi funesti, “è morto” sono le due parole che emettono le sue labbra. Due fendenti acuminati, diretti al mio fragile cuore. Perchè proprio tu, Sergio? Cosa hai fatto di così male? Eri il più buono, il mio migliore amico...volevo imparare i tuoi dribbling, eri dannatamente bravo a giocare a calcio, una saetta, eppure non ci mettevi mai in ridicolo, per te tutto era un gioco, perché il calcio è un gioco, dopotutto... non è politica né finanza, ma è un gioco per bambini, dove tutti si divertono e imparano a stare insieme. Il calcio è educazione attraverso il lavoro di squadra e il rispetto, verso chiunque. Che sia il tuo avversario, o il tuo compagno di squadra, che sia un ragazzo di un’altra favelas, devi avere rispetto. Mio papà me lo ripete da quando ho cominciato a portare i suoi scarpini nel letto, come scaccia-incubi.

Questa notte mi sono svegliato tre volte di soprassalto, tre volte sognando Sergio. Cosa gli è successo? Devo sapere, solo di questo sono sicuro. Scendo dal letto e vado in bagno a sciacquarmi la faccia: ho sudato come se stessi giocando una partita, con la vita, però. Una partita a metà strada fra vita e morte, in cui se perdi, sei fuori. Per sempre. Sergio la sua l’ha persa. Eppure non se lo meritava... era il migliore, in qualsiasi cosa facesse. Dopo aver fatto colazione, manco a dirlo abbondante, dopo il bacio alla zia, ritorno al campetto, quando sono le 9: come sempre tutti sono lì. Li saluto uno ad uno e cominciamo a giocare: tocca a me e a Rogerio fare le formazione. Che rottura, è il lato peggiore della partita! Perchè devo escludere qualcuno, e prendere qualcun altro? È pur sempre un gioco, o sbaglio? Inizia lui, scegliendo Romarinho, mentre io prendo David per la porta. Santi in attacco, Mindo in difesa, Joao esterno. Beh dai, questa volta mi è andata proprio bene. Speriamo di divertirci e di vincere! Il primo possesso è nostro, ricevo la palla e mi accentro, attirando su di me due giocatori avversari: eludo il loro pressing con uno-due con Joao, arrivo alla conclusione, la finto mandando fuori tempo il portiere e con un morbido scavetto la palla, placidamente, entra in porta. 1-0!
Vamos meninos! La partita continua su ritmi altissimi, ma il mio Mindo difende come se giocasse per la Selecao, mentre Santi, grazie alla sua stazza imponente, riesce a proteggere il pallone a far salire la squadra. Ad un certo punto prendo palla, la passo a Santi che la lascia con un velo a Joao. Tiro in porta e...e...parata di Rogerio! Incredibile salvataggio del mio avversario che si è buttato alla disperata salvando in scivolata un goal certo... si sarà sbucciato dappertutto sul cemento.
La partita termina così, 1 a 0 per noi. Ci complimentiamo con gli avversari, che ci promettono una rivincita. Bene, io attendo!

Tutti insieme andiamo alla fontana per bere un po’ d’acqua fresca e in un istante che sono solo con Romarinho, gli pongo una domanda. “Roma, cosa è successo a Sergio?” lui si volta verso di me, e scoppia in lacrime. Il suo fratellino, per noi, c’è ancora. Ogni sera lo aspettiamo ritornare a casa per la cena, frugale ma per questo buona. Ogni mattina lo aspettiamo al campetto, ma non arriva mai. Gli hanno sparato, perché una gang aveva rubato venti radioline. E il primo ragazzino che hanno trovato è stato lui. Niente da fare: pensavano fosse stato lui, perché ne teneva in mano una. Era quella di suo papà. Nemmeno il tempo di spiegare, che uno dei derubati aveva tirato fuori una pistola e, puntata alla tempia, aveva premuto il grilletto. Un brivido mi scosse, come se d’un tratto un fulmine a ciel sereno m’avesse colpito. Sei tu, saetta?

Torniamo nelle rispettive case per pranzare e ci diamo appuntamento alle una per incamminarci verso il Maracana. Alle tre si giocava la partita inaugurale, ed essere lì un’oretta prima ci garantiva dei posti gratis e la visione della cerimonia inaugurale, che da quanto mi diceva mio papà, era una delle parti più belle di tutto il Mondiale. Ci siamo fidati, e non ne siamo rimasti delusi: uno spettacolo inaudito, che doveva mostrare al mondo la rinascita del Brasile! Una rinascita inesistente, che aveva solamente riempito di tasse noi poveri, continuava a ripetere Romarinho, seduto accanto a me. “Ma pensa al calcio” gli ripetevo io, perché ancora non capivo.

Inizia la partita: Brasile-Messico.
Siamo in tantissimi allo stadio, ma non è che mezzo-pieno. Non voglio nemmeno pensare alla finale e alla vittoria del Brasile. Ovvio che vincerà, è la squadra più forte del mondo! I ritmi non sono altissimi all’inizio, il Messico difende strenuamente la proprio porta, mentre il Brasile attende una crepa nella sua fragile difesa.
Al 30esimo Ademir si incunea e segna l’1 a 0. Un boato esplode nello stadio, un grido di gioia e di rivalsa che coinvolge ogni persona presente allo stadio, ma anche tutti quelli che sono attaccati alle radioline: è il grido del Brasile, di un leone ferito che vuole dimostrare di essere ancora forte. Il grido di un popolo ammaliato dai suoi campioni, che servono alla politica per “tenerli a bada”. Si sentira fino a Bauru, penso. Ma in questo momento io sono un tutt’uno con il calcio, non mi importa che i politici controllino la nostra società.
Sono ancora un bambino, capirò, come dice mio papà... il primo tempo prosegue in scioltezza, con il Brasile che amministra il proprio vantaggio contro una squadra di semi-professionisti, passandosi la palla di prima, con uno-due rapidi, quasi come se si trattasse di un allenamento.
Così si conclude il primo tempo della partita inaugurale dei Mondiali. Girando leggermente la testa, noto che Romarinho, assorto nei suoi pensieri, sta ripetendo un nome, che si trascina stancamente fino alle mie orecchie “Sergio, Sergio, Sergio...” Mi avvicino a lui, e lentamente poso un braccio sul suo. “Sergio è felice, adesso. Ci sta guardando da lassù” e gli indico il cielo azzurro. “Spero, Edson...”.

Attenzione, il commentatore richiama tutti gli spettatori sugli spalti: inizia il secondo tempo!
Parte il Messico che questa volta, e la sua strategia pare chiara sin dall’inizio: cercare di tenere palla più tempo possibile, impedendo così ogni velleità offensiva brasiliana. Questa tattica, sicuramente voluta dall’allenatore, porta i suoi frutti sperati fino al 65esimo, quando con un potente piatto di sinistro Jair batte il portiere messicano. 2-0 Brasil! Adesso l’urlo è più sommesso, il leone ha inferto la ferita fatale e si gode la vista della preda sanguinante. I giocatori messicani non ce la fanno più, sono esausti: i ritmi della verdeoro sono talmente alti da impedire qualsiasi ripartenza, o anche il solo pensiero di essa. 6 minuti più tardi, su cross dalla fascia destra, Baltazar svetta su tutti in area di rigore e indirizza il pallone all’incrocio dei pali: 3-0! Apoteosi dei giocatori brasiliani! Che roba oggi la verdeoro, penso, guardando Romarinho, che sembra si trovi in altro luogo. Lo chiamo, ma lui non risponde. Sergio, perché lo hai lasciato solo? Neanche il tempo di finire la preghiera per il mio amico, che il verdeoro segna il quarto goal, con un inserimento da rapace di Ademir che lascia impietrita la difesa messicana. Che giocatore, è il mio preferito... un giorno vorrei essere come lui, velocissimo ma freddo davanti al portiere, un giocatore che non ha paura di giocare con il fisico e di astuzia... gli ultimi minuti passano senza pericoli per la Selecao, che amministra con saggezza il vantaggio, non sprecando ulteriori energie. Il Messico non prova neanche a strappare la palla agli avversari, è una fortuna che siano ancora in campo: oggi il Brasile si è ufficialmente candidato a favorito per la vittoria finale.
Al fischio finale, un secondo, assordante, boato scuote il Maracanà. Tremano le fondamenta, tremano le voci di milioni di miei concittadini, inorgogliti da una prestazione monumentale. Il Brasile è una bolgia paradisiaca, in questo momento. Nello stadio le 80000 persone presenti esultano sfrenatamente, e da fuori proviene un grido ancora più forte. Il leone ferito sta rinascendo... così penso. Romarinho, andiamo a casa. Sergio...no, non ci aspetta più.

Arrivato a casa, la mamma mi chiede il risultato della partita. “4-0 mamma, è stata una partita incredibile”, ero veramente entusiasta di aver assistito ad una partita vittorioso da parte della mia Nazionale. Papà era già a tavola, ma la zia e la mamma non avevano ancora servito nulla: mi aspettavano, ma non erano preoccupati. Sapevano che ero in buona compagnia e che non mi sarebbe successo nulla. Mi avvicino alla zia e le stampo un bacione sulla guancia, poi vado da papà e lo abbraccio, ma lui non mi chiede nulla della partita: anzi, appena comincio a parlare dei marcatori a tavola, partendo da Ademir, il suo viso si tramuta in una smorfia di disgusto, e con rabbia negli occhi, furenti come due cavalli imbizzarriti, ma con tono pacato, come suo solito, mi dice “Edson, sai chi ha insegnato a quello lì a giocare? Tuo padre! Al Vasco, 10 anni fa, non sapeva nemmeno tenersi in piedi! E adesso chi è quello che non riesce nemmeno a sorreggersi? Io...” l’ultima parola porta con sé un silenzio funebre, che nessuno ha il coraggio di spezzare. Innervosito, mio padre non cena questa sera ed esce di casa, con il pallone fra le mani: da quanto tempo non lo vedevo così? “Molti anni, Edson...” dice mia mamma.
I pensieri sono sfuggiti, esuli, dalle mie labbra, senza che io me ne accorgessi. La zia nel frattempo porta una ricca cena: oggi bistecca! Dopo averla gustata come si deve, finita una giornata lunghissima e piena di emozioni, esco di casa per passeggiare sulla spiaggia. Quanto mi mancava Ipanema... adesso, a sera inoltrata, i turisti sono tutti ritornati nei loro alberghi, solo noi autoctoni restiamo a goderci il soave canto del nostro mare, accompagnato dalla melodia della brezza. I bambini escono per giocare a pallone, simulando partite spettacolari alla luce della luna, ma io no, oggi no. Voglio restare qua, disteso sulla fine sabbia, ad ammirare il nulla.
Ripenso a Sergio, all’estate scorsa, a quella precedente, alle nostre partite, ai scherzi, alle battute, alle batoste...un fiume in piena attraversa la mia mente, cancella tutto il superfluo, il calcio diventa unico padrone. Quando, ad un certo punto, dopo non so quanto tempo, sento un pallone rotolare sulla sabbia, veloce. Un’ombra nera gli sfreccia dietro, felina. Non sento i passi, ma percepisco i movimenti del corpo. Ad un certo punto svanisce lontana, perdendosi come un gabbiano nell’infinito oceano. Non sapendo quanto tempo fosse passato, se minuti o ore, mi alzo, con la schiena completamente coperta di sabbia, e mi avvicendo per tornare a casa.
A poca distanza, noto che sullo stipite si trova papà, che sta parlando con la mamma: sarà appena tornato?
Entrato papà, dopo qualche secondo, entro anch’io. Vengo accolto da un suo abbraccio, il suo modo di scusarsi per avermi quasi urlato addosso prima. La mamma mi stampa un bacione sulla guancia, mandandomi subito a letto: è già mezzanotte! Sono rimasto fuori ben 4 ore...non ci posso credere. Beh, è ora di sdraiarsi e lasciarsi sopraffare dal sonno.

Buongiorno Ipanema! Che sole che splende oggi, dorato come i gioielli della zia! Oggi mi sono proprio svegliato bene, nessun incubo mi ha colto nel sonno. Sergio, che tu abbia finalmente trovato la pace? Scendo subito dal letto e vado in bagno, per sciacquarmi il viso. Alzo leggermente il viso, e nello specchio vedo il riflesso dell’ombra di ieri sera. Mi giro di scatto, ma come un lampo oscuro, non c’è più. Cosa sei? Impaurito, raggiungo la sala da pranzo, dove la zia ha preparato una colazione veramente ottima: pane e marmellata, con thè fresco da bere. Zia, almeno che ci sei tu che mi vizi, e che mi fai ingrassare! Ma papà non c’è. Papà manca, come ieri sera a cena. Chiedo alla zia, la quale elude abilmente la mia domanda. “Edson, è uscito. Ma non sono cose da ragazzini. Veramente, non preoccuparti: papà sta bene”. Zia, mi dispiace, ma non posso crederti.
Presi gli scarpini, che avevano protetto il mio sonno notturno, mi avvio verso l’uscita, ma, cercando con le mani il mio pallone nel ripostiglio, non trovo nulla. Che papà l’abbia preso? Non credo, lui odia il calcio. Sarà servito a qualcuno, e la zia glielo avrà prestato. La zia presta sempre tutto a tutti, ha un cuore d’oro. Perciò mi incammino per arrivare al campetto, dove mi stanno aspettando tutti i miei compagni di avventure, pronti per una nuova partita a pallone, sperando che almeno loro ce l’abbiano: guardando il campanile mi accorgo che sono già le dieci: devo correre!
Il primo che mi vede è Romarinho, che avvicinandosi per abbracciarmi, mi stringe e mi tira una pacca sulla spalla: urlo dal dolore! Che male che fa, Roma! Sorpreso dalla mia esclamazione, si discosta lentamente per guardarmi negli occhi, e con la solita aria da bonaccione, mi dice ridendo “Ei pappamolla!” Non me la prendo, so che sta scherzando, ma reagisco lo stesso “Questa pappamolla dopo ti fa goal. Scommettiamo 10 cruzeiri Roma!”. “Accetto Edson, prepara i soldi!”. Una risata sguaiata, da parte di entrambi, e la sfida è partita. Il patto è reciproco, oltre che rinsaldato dalla presenza degli altri.
Non sono sicuro di vincere, ma ci credo. Papà mi ha sempre detto che credendoci arriverò dove vorrò. E io voglio battere il mio amico. Iniziamo a modellare le squadre: per la prima volta dopo anni, senza estenuanti ricerche, i capitani sono già sicuri. Io e Romarinho, parte lui, concludo io: una discreta squadra, per fortuna sono riuscito a prendere Rogerio, con cui riesco sempre a dare il massimo.
La partita inizia ed io ho subito la palla: dribblo il primo avversario con una finta di corpo, eludendo il successivo con un rapido uno-due con Rogerio, arrivo davanti alla porta, quando mi si para davanti Romarinho, il grande Romarinho, che davanti a me sembra un puma che si avventa su uno sfortunato tapiro. Ma io sono un tapiro molto agile. Controllo la palla di interno piede, velocemente mi sposto sul mio piede debole e, colpendo dolcemente la palla, scavalco Roma.
Voltandomi verso la mia squadra, esultando come se avessi vinto la Coppa del Mondo, noto le loro facce sconvolte: ho appena segnato, perché non sono felici? Girandomi di scatto, mentre la palla è ancora in volo, vedo Romarinho rialzarsi come un felino, compiere un balzo incredibile e letteralmente volare per prendere il pallone... la mano destra si allunga in uno sforzo sovrumano, il suo corpo si raggiunge la massima altezza e il pallone, leggermente sfiorato dalle dita, sbatte dolcemente sulla traversa, lasciandomi esterrefatto.
Ma come ha fatto? Non... non è possibile... io... lui... Romarinho, stai bene!? Cadendo per terra ha sbattuto violentemente il capo sull’asfalto, e il suo corpo pesante non ha attutito la caduta. Chiamo subito aiuto, per portarlo a casa sua, che per fortuna è a pochi minuti di camminata da qui. In sei lo solleviamo, e sbracciando per farci spazio fra la folla di turisti e di autoctoni accorsi per vedere la partita, lo accompagniamo velocemente da sua madre, la gentile Lea.
Arrivati, ci guarda pietrificata: dopotutto, ha già perso un figlio, e la sola vista di Romarinho le ha raggelato il sangue nelle vene. Noi lo portiamo dentro, appoggiandolo dolcemente ed augurandogli il meglio, anche se sapevamo perfettamente che non poteva sentirci. Gli altri se ne vanno, io resto, pochi secondi, a pregare sul suo corpo: Dio, se sei così benevolo, giusto ed onnipotente come dicono i miei genitori, salva il mio amico. Non deve morire per colpa mia, non deve... concludendo la preghiera con un amen ed incamminandomi per uscire, infilo una mano nella tasca: le mia dita afferrano un pezzo di carta. No, non è un pezzo di carta. Tirandolo fuori delicatamente rimango sbalordito: 50 cruzeiri! Ma chi diavolo me li ha messi in tasca? Non ci posso credere, oggi è proprio il mio giorno.. .no, non è il mio giorno fortunato.
Romarinho, il mio fratellone, sta male, ma Lea non ha sicuramente i soldi per chiamare un dottore: sono molto poveri, e la loro casa è come la mia a Bauru: costruita di ciò che si può trovare per strada o, al massimo, nelle discariche. Mi volto, guardo la madre di Roma negli occhi e le consegno tutti i 50 cruzeiri, ne più ne meno. “Romarinho ha vinto la scommessa, tenga tutto. E che si rimetta in sesto. Passo domani a vedere come sta, arrivederci.
Uscendo di casa, i miei occhi si riempiono di lacrime sincere, dolenti, che rigano il mio volto, posandosi delicatamente sulla mia maglietta. Corro a casa, sperando che nessuno mi veda: Edson non piange, almeno, non davanti agli altri. Il codice d’onore vale sempre, qualunque cosa accada. Ma non mi importa. Ciò che adesso è importante è la salute di Roma.

Edson, non mi farai gol...non me lo farai! Si sta dirigendo verso di me, veloce come una pantera, eppure nei piedi ha la forza di un anaconda...so già che virerai a destra per tirare con il tuo piede forte... cercando di prevedere la sua mossa mi muovo verso destra, ma lui cambia direzione repentinamente, portandosi la palla sul suo piede debole... ma non l’ha mai fatto... io sono a terra, e lui, con un dolce tocco sotto, sta già esultando per il goal... no, non posso perdere la scommessa... non ho 10 cruzeiri da dargli, perderei l’onore della mia famiglia, e la mamma si arrabbierebbe molto se lo sapesse... no, Edson, non segnerai!
Mi rialzo velocemente, e saltando con tutta la forza nelle mie gambe, allungando il braccio destro e le dita della mano, sfioro leggermente il pallone, che sbatte sulla traversa. Ce l’ho fatto, Edson... ce l’ho fatta! Nemmeno il tempo di esultare, che l’infinito tempo trascorso in aria, da prova di tutto il suo peso, sbattendomi violentemente per terra.
Sono ancora cosciente, nonostante l’impatto... vedo sangue per terra, mentre la mia testa sembra vicina ad esplodere, tanto è il dolore... vedo tutti avvicinarsi, sembrano migliaia... due Edson, tre, quattro…

“Roma, Roma... non ci posso credere, sei tornato dal regno dei morti... Roma...”.
Una voce che riconosco, indistintamente... è proprio la sua voce, Edson, sei tu... sento lacrime, calde, cadermi sul viso, ma non capisco perché, sento le grido di gioia di mia madre, il suo pianto felice... cosa succede? Apro gli occhi, di scatto, e la luce mi acceca. Aprendoli solo leggermente, vedo il viso scuro di Edson che mi guarda, con un sorriso che ricorderò per il resto della mia vita. Uno volta abituati, riesco ad aprire completamente i miei occhi, vedendo mia madre. Mi corre incontro, mi abbraccia, mi sussurra parole incomprensibili all’orecchio... capisco solo “Almeno tu... grazie Sergio, dall’alto l’hai salvato”... la sua voce è rotta dal pianto, e singhiozzando mi dice “Roma, adesso non farlo mai più...” Io non riesco a capire, ancora, ma noto che non siamo a casa, no.
Le lenzuola del letto sono candide, bianche come le piume di una colomba, ed affianco a me vedo molte donne vestite di bianco, con una croce rossa sul petto. Che sia in Paradiso? “No, Romarinho, sei in ospedale: la tua mamma Lea ha pagato le cure fino ad oggi, 15 luglio.”
No...ma, non era il 25 giugno? Edson, cosa sta succedendo? Il Brasile, sta vincendo? Mamma, stai bene? Cosa...cosa...cosa diavolo sta succedendo! La mia testa sta scoppiando, di nuovo, come prima...come tre settimane fa...”Stai calmo, Roma: adesso sei qui, con noi, ed è questo l’importante. Stai calmo se non vuoi ritornare in coma, ti spiegherò tutto quando starai meglio.”
Edson, grazie di cuore... ma la mamma, come ha fatto a pagare le cure? Non abbiamo i soldi per mangiare? Cosa... Roma, respira, stai calmo. Tutto va bene, adesso. Dormi. No.
Oggi è il 15...domani gioca il Brasile. No, il Brasile no. Ha rovinato il nostro Paese. Ma è la finale...no. Sì. No. Sì. No...dio, aiutami
.

Non ci posso credere, si è svegliato... Roma, sei con noi. Proprio in tempo, che sia stato dio a volerlo? Un giorno prima della grande partita, la finale della Coppa del Mondo, la vittoria del nostro Brasile. Potrai anche tu esultare con noi, se lo vorrai...ma sì che lo vorrai, è pur sempre la Selecao! Ci andremo insieme, allo stadio, entreremo prima come il 24, ci siederemo, eviteremo le guardie ed esulteremo alla fine, scendendo in campo per toccare, anche solo sfiorare i nostri campioni...poi magari regaleranno la loro maglia, e potremo sollevare anche noi la coppa, domani. Ci uniremo alle sfilate nel centro della città, vedremo tutti esultare, tutta la città, tutta la nazione.
Nessuno sarà lasciato da parte, dal più povero dei senzatetto al più ricco degli imprenditori, tutti, per un giorno, vivranno il Paradiso. Il leone verdeoro ruggirà più forte che mai, e con lui tutta la nazione. Saremo i più forti del mondo, più forti di Italia, Stati Uniti, Russia, Inghilterra...di sicuro non ci fermerà l’Uruguay.
Torno a casa, dalla zia, sperando abbia preparato la colazione: sono solo le sette del mattino, perché ho passato tutta la notte, l’ennesima, in ospedale, sperando che si risvegliasse... ed è successo. Dio, sei tu? Arrivato a casa, mi accoglie la mia famiglia al completo: papà è illuminato in volto, come se sapesse già la notizia, mentre la mamma e la zia sembrano preoccupate. Papà, mamma, zia, Romarinho si è svegliato oggi, un’ora fa! “Non ci posso credere” dicono quasi in eco la mamma e la zia, piangendo, mentre papà fa silenzio, ma sorride. Vuole bene a Romarinho, ma non esterna quasi mai i suoi sentimenti. Poi aggiungo “Domani c’è la finale” e papà “Andremo a vederla insieme, se vuoi” con un sorriso che non avevo mai visto prima. Papà, cosa ti è successo? Di sicuro non rifiuterò, anzi, speriamo solo Roma riesca a venire con noi.

La sera stessa, dopo essermi allenato al campetto, con la solita sessione di corsa, dribbling e tiri, oltre alla partitella con tutti i miei amici, ritorno all’ospedale, sempre correndo.
Oggi mi sento proprio carico, come non mi sentivo da troppo tempo. Sarà che domani c’è la partita più importante della mia vita, ma oggi voglio proprio godermi il tempo con il mio amico. Arrivato all’ospedale, salgo fino al quarto piano. E vedo Roma in piedi, a palleggiare un pallone. Non ha dimenticato nulla, proprio nulla. Palleggio come se si fosse allenato per mesi, anche se è la prima volta che tocca un pallone dopo settimane. Vedendomi, stoppa il pallone con la suola e mi chiama a gran voce. “Edsonnnnnnnnnn, viene qua!”.
Appena mi avvicino il giusto, mi prende di forza e mi solleva, come ha sempre fatto, stritolandomi in un abbraccio fortissimo. Perchè deve finire questo momento? Voglio rimanere così per sempre, con il mio fratellone. Ma dopo pochi minuti mi fa scendere, perché gli gira la testa: non si è ancora ripreso completamente, ma siamo sulla buona strada, questo è sicuro. Si siede sul letto per pochi secondi, poi si rialza ancora più vigoroso e forte di prima. “Dai pappamolla, fammi vedere quello che sai fare!” è sempre spavaldo, è sempre Romarinho. Io però, sono Edson, e posso batterlo quando voglio. Però non oggi, oggi ci passiamo solamente il pallone, facendo attenzione a non rompere nulla in questo ospedale, ma con grande velocità, non fermandoci mai. Di prima, di prima, manteniamo il ritmo, costante, sembriamo un unico corpo. Intanto parliamo di calcio, gli racconto di come sia andato il mondiale, di come il Brasile abbia sbaragliato la concorrenza, arrivando in finale grazie ai goal di Ademir. Lui ne è entusiasta, e mi promette che domani andremo insieme a vederla. Io dico che andrà anche mio padre, con noi. “Certo Edson, chi non vorrebbe andare a vedere una partita con il grande Dondinho!”. Eh già, papà è famoso anche qui. Eppure, al mondiale non ha preso parte, per quel maledetto ginocchio. Ad un certo punto mi chiede “Ma, scusami Edson, se lo sai, mia mamma come ha fatto a pagare le mie cure?”. Io, non sorpreso, dico “Roma, le ho pagate io. Dopo che ti avevamo trasportato a casa, frugando nella mia tasca, avevo trovato 50 cruzeiri, e visto che avevi vinto la scomessa, ho deciso di darli a tua mamma. Visto che a qualcosa sono serviti?” “Edson...non dovevi...”. Quando, sfiniti, ci sediamo su letto, noto che sono già le nove di sera. Il tempo vola! Soprattutto quando sei con un amico speciale, con cui ti divertiresti anche a guardare una parete bianca...Roma, grazie che sei ancora vivo, con me. Grazie di non avermi abbandonato. Senza di te, non avrei mai giocato a calcio…

È arrivato, finalmente, il 16 luglio. Oggi canteremo vittoria, tutti insieme.
Sono le 9 di mattina, ed io con papà stiamo andando a prendere Romarinho all’ospedale. Per le strade di Rio vediamo fiumi di persone, brasiliani, uruguagi, inglese, italiani...un oceano di nazioni diverse, che si riversano nei vari bar della zona, alla ricerca di una televisione e del posto migliore per guardarla, mentre, passando per la favela, vediamo decine di anziani e giovani attaccati alle radioline, che stanno cercando di sintonizzarsi con la principale emittente per poter ascoltare la radiocronaca della partita più importante delle loro vite. Arrivati, troviamo Romarinho che ci aspetta fremendo: non l’ho mai visto così su di giri per una partita del Brasile, che qualcosa sia finalmente cambiato in lui, che abbia trovato la positività nel calcio dei grandi?
Tutti e tre partiamo alla volta del grande Maracanà, ma arrivati, ben tre ore prima del fischio d’inizio, troviamo una brutta sorpresa: controlli della polizia ad ogni varco del grande stadio, e file chilometriche alla biglietteria. Purtroppo, sono file di quasi soli ricchi brasiliani e turisti. Noi, popolo triste, inerme, senza un soldo, schiavo della nostra epoca, schiavo del capitalismo, non siamo il Brasile. Per chi comanda, ma saremo noi a comporre i cortei dopo questa partita, saremo noi ad esultare per anni dopo questa vittoria, saremo noi il vero emblema del Brasile. Comunque, non è un problema la fila: aspetteremo fino all’ultimo.
Nel frattempo io, Roma e mio papà palleggiamo. Alle 14.50 la coda è quasi terminata e la polizia, totalmente entusiasta, perché avrebbe potuto assistere alla partita senza pagare un centesimo, entra nello stadio, lasciando fuori solo poche sentinelle, anch’esse distratte. Mio padre si mette a parlare con un poliziotto, chiedendo informazioni, mentre io e Roma, complice la sua poca attenzione, sgattaioliamo dentro uno degli ingressi, nascondendoci dietro ad una porta. Dopo pochi minuti arriva anche papà, che dice di muoversi perché tra poco sarebbe arrivata la polizia a controllare che non vi fossero intrusi. Alzandoci velocemente, ci dirigiamo verso la tribuna ovest, la più gremita, per confonderci con le persone e far perdere, in questo modo, le nostre tracce.
Manca pochissimo all’inizio della partita, le squadre si sono appena disposte in modo da salutare le migliaia di persone che trovano posto sulle tribune del nuovo gigante di Rio.”Saranno più di 100000” dice mio papà, esterrefatto. Romarinho trova un posto per sedersi: quando sta in piedi per troppo comincia a girargli la testa. Io e papà, al suo fianco, stiamo in piedi, carichi come non mai. Andando qua abbiamo visto persone distribuire giornali con in prima pagina il titolo “Brasile vittorioso!”, oppure, i più pessimisti, “Ou vince ou racha” (per la traduzione chiedo nei commenti un aiuto, grazie mille in anticipo), mentre nello stadio vediamo magnifiche coreografie, e un cartellone, che grazie a dei palloncini, porta al cielo, al Creatore, la scritta “Viva o Brasil”. Che il Creatore rifiuterà, poi…

L’arbitro sistema le ultime cose, chiedendo l’ok per iniziare ai due portieri, e via, si parte!
Il Brasile attacca con l’impeto di uno tsunami, mentre l’Uruguay tenta di difendersi in maniera ordinata: questo è il punto forte dei nostri avversari. L’ordine, la disciplina, quella che non ha il nostro Brasile, che dal canto suo è dotato di tecnica cristallina e di grande fantasia tattica. La partita sembra essersi messa sui binari giusti sin dai primi minuti, ma l’Uruguay persevera con la sua difesa ad oltranza. Sembra quasi giochi per il pareggio, non per la vittoria. Schiaffino guida con ordine la squadra, dettando i ritmi, mentre Ghiggia, pericolosissima ala, aiuta la squadra difendendo. I tifosi dagli spalti continuano a spronare il Brasile, che tuttavia non riesce a segnare, arrivando alla fine del primo tempo sul punteggio di 0 a 0. I tifosi non si scoraggiano e, terminato il primo tempo, continuano ad incitare a squarciagola i propri beniamini, che a testa bassa scendono negli spogliatoio, mentre gli uruguagi, freddi e concetrati, vengono insultati in tutti i modi possibili. Peccati che io non senta quasi nulla. La speranza è l’ultima a morire.
Mi volto verso Romarinho, che è completamente perso nei suoi pensieri e nella partita. Non l’ho mai visto più teso e al contempo stesso più felice, non sembra nemmeno lui. Papà mi pizzica la spalla e mi dice “Bella partita, ma quell’Ademir non sa proprio stoppare un pallone”, concludendo quella frase con un malizioso sorrisetto, indirizzato a me, che tanto adoro Ademir.
Nemmeno il tempo di andare a prendere qualcosa da bere o da sgranocchiare (non mangio da stamattina!), che le squadre rientrano in campo. I giocatori brasiliani sembrano molto motivati, dice mio papà. L’allenatore avrà fatto uno dei suoi discorsi, è molto bravo a parlare, aggiunge. Lo aveva conosciuto di persona, qualche anno prima, e diceva fosse una persona molto esigente, ma forte di carattere. Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno.
Appena voltato lo sguardo, vedo Ademir sulla fascia, che crossa velocemente verso Friaca, che con un diagonale sul secondo palo segna il primo goal della partita. Goooooooooooooooooooool! Un boato di gioia, indescrivibile, esplode nella stadio, frantumando i miei timpani, mentre da fuori provengono grida ancora più forti, ancora più decise. Un anziano vicino a me, senza una gamba, si alza dal suo posto come se fosse nel fiore della sua forze, esultando come se avesse vinto 100000 cruzeiri. Dalle tribune esplodono petardi, e le persone agitano i loro fazzoletti. Mio padre e Romarinho esultano gridando a squarciagola, intonando il nostro inno nazionale, e tutto lo stadio si unisce in un unico, possente, grido. I giocatori in campo sembrano più tranquilli, alleggeriti dal peso di un goal che potrebbe significare la loro glorificazione, ma sono pur sempre coloro che devono sostenere le aspettative di vittoria di un’intera nazione. Gli uruguagi, tuttavia, non sembrano turbati da una simile dimostrazione di amore calcistico.
La partita prosegue con il solito andamento, il Brasile attacca e l’Uruguay difende, ma venti minuti dopo accade l’impensabile: Ghiggia riesce a superare Bigode sulla fascia destra e passa la palla a Schiaffino, sul primo palo: con un incredibile torsione di destro riesce a metterla sul palo del portiere, esattamente sotto l’incrocio dei pali. Barbosa non puoi farci niente…
Un
cupo silenzio cala su tutto lo stadio, le grida di festa si placano di colpo, e le gambe dei giocatori si fanno pesanti, affondano nelle sabbie mobili del Maracanà. Fuori, le grida di gioia si fermano, il Brasile sembra stia cadendo da quella zona sicura che si era costruita nella competizione. Mio Brasile, no oggi...Dio del calcio, Dio, ascolta le mie preghiere, è troppo importante... il Brasile riprende a giocare, ad attaccare, nonostante possa portarsi a casa il mondiale anche con questo pareggio.
Ma i volti dei giocatori sono impauriti, sembrano delle belve costrette a battersi nell’arena. Romarinho e mio papà sono cupi in viso, il mio amico si è completamente lasciato andare. È in una fase di trance agonistica, credo.
Passano i minuti, inesorabili, mentre noi brasiliani stiamo vivendo uno dei drammi più grandi: il mio cuore batte freneticamente, il sudore riempie la mia fronte, tutto attorno a me viene annullato. Vedo solo il campo da calcio e le squadre che giocano, il pallone che viaggia veloce fra le gambe dei brasiliani, mentre gli uruguagi difendono. Ma prende palla Ghiggia, che parte sulla fascia destra, è velocissimo, nessuno riesce a prenderlo, arriva al tiro sul primo palo, Barbosa si tuffa...goal. Goal di Ghiggia. Barbosa ha...ha sbagliato. Io...io...io non ci posso credere.
Il mio cuore sembra arrestarsi, di colpo. Mi siedo per terra, tengo il capo fra le mani, strappo dei capelli. Il Brasile, tutto il Brasile, sta perdendo. Le persone al mio fianco piangono. Sono zitte. Il mondo si ferma, per un istante interminabile. Da fuori, nulla. Da dentro, nulla. Ovunque, nulla. Nessuno esulta, non ci sono uruguagi sugli spalti, ma solo in campo e in panchina. Solo loro esultano.
La partita riprende, 10 minuti di sofferenza attendono tutto il Brasile: attacca, attacca, attacca! Brasile, ce la fai...5 minuti...4...3...2...1.

L’arbitro fischia la fine. Barbosa cade per terra, seguito da tutti i suoi compagni. Piangono disperati.
Al mio fianco, papà piange. I tifosi, piangono. Il Cristo Redentor piange
. Suo padre, si è preso gioco di noi. Un destino, inesorabile, scritto nelle stelle. Io, piango. Il mio Brasile ha perso, tutti noi abbiamo perso. Un’intera nazione, caduta come un soldato accoltellato al cuore, che, appena sfiorato, smette di battere lentamente, lasciando agonizzante l’uomo.
Questo è adesso il Brasile. La speranza è morta.
Mi volto per abbracciare Romarinho, cercando un posto sicuro dove piangere, ma appena lo sfioro, lui non reagisce, è freddo. Letteralmente freddo. Gli occhi sono chiusi. Non respira, il suo cuore possente non batte più. Con il Brasile, è morto anche Romarinho".

Esattamente otto anni dopo, quel bambino, si rivelò al mondo...