Torneranno le nebbie a Milano,

avrò freddo e così mi coprirò.

Lascerò casa al buio e, lo sappiamo,

che col buio la sera tornerò

ma pensarci adesso da lontano

sembra tutto un po' assurdo mentre ho

colli fiorentini, tutto intorno a me

come dei confini ai pensieri miei...    

(cit. chisseloricordachi)  


La nebbia...

La nebbia non è quella che ci accompagna all'inverno e non è quella antica impregnata dei fumi dei riscaldamenti e delle ciminiere dell'industriosa vecchia Milano, che ti lasciava la polvere nera su ogni dove e che respiravi andando e tornando dal lavoro. Ai giorni nostri il vecchio quartiere, operaio e operoso, dei tempi della mia giovinezza si è trasformato ed ha un aspetto elegante e impersonale, reso tale anche dalle persone che non l'hanno vissuto e vengono qui per l'apericena, il sushi e le specialità che i tanti nuovi locali offrono. Perfino la mia casa di ringhiera è cambiata e dalla mia finestra non si vede più il mio passato né riesco a poggiarvi le pietre per costruire un futuro: ho investito i ricordi in azioni che difendono il loro valore dall'erosione con molta difficoltà, perché la gentrificazione e il tempo mi hanno fatto il vuoto intorno, tra assenze forzate ed abbandoni. Gli archistar hanno costruito grattacieli che mi oscurano il cielo, prepotenti e moderni e le vecchie case di ringhiera sono parenti poveri vestiti a festa. L'umanità che vi viveva è mutata in altro che non sempre riconosco e non sempre avvicino. A pochi metri da casa mia abitava, o forse vi ha ancora casa, in uno di quegli appartamenti non per comuni mortali, anche Perisic e, non molto più in là, ha comprato altra casa la famiglia Icardi. Nessuno di loro pensa al futuro con la fatica di chi deve contare risorse sempre più limitate dai cambiamenti epocali di tecniche e culture che avrebbero dovuto toglierci la fatica e, invece, ci hanno tolto pezzi di serenità.

La nebbia, in questo mio comodo esilio, è quella che ci avvicina alla primavera e vela gli alti alberi, da poco potati, e fa domandare a me stesso, con un po' di apprensione, dove vadano a trovare rifugio dal freddo i tanti scoiattoli che vedi gironzolare in questo piccolissimo bosco cittadino. L'ingannevole bella giornata di ieri, che dal riparo accogliente ti faceva venir voglia di toglierti di dosso qualche strato di indumenti e poi carnevalescamente, una volta fuori, ti burlava affettandoti il viso e le mani con un venticello gelato, ha lasciato il posto a questa umidità che bagna discretamente strade e prati, onesta nel suo fare e distante da casa mia, dove raramente, ormai, la nebbia si presenta. Forse, anch'essa, un po' timorosa di essere male accolta in questi posti che furono anche casa sua e che adesso hanno poco del romanticismo che ci accomuna, estranei a questo "nuovo" rumoroso e festante. Quasi che vuoto fosse un valore in sé e non un posto da riempire. Quasi che le solitudini non fossero solo la sommatoria vana di tanti zeri allineati.

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Chiodo scaccia chiodo, virus scaccia calcio...

Ecco l'esempio di un proverbio utilizzato al contrario. Il virus è tra di noi. La paura è tra di noi. Non cosa distante da analizzare con distacco, ignoranza e pedanteria perché fa vittime lontane e sconosciute, come le tante guerre combattute in questo nostro globo malato di astio e popolato da nemici, dove la solidarietà umana sembra essere ridotta a resistenza di pochi (ma così non è in realtà, quando ci vediamo costretti a connettere il cervello ed a misurarci con la realtà, per fortuna). In questo inizio 2020 i morti sono già 86... Ieri, un altro morto. Questo virus che sta falcidiando vite umane da sempre è noto e la tecnologia, la modernità, il socialismo e il capitale non sono riusciti a batterlo. Quando pensi di avere trovato un vaccino si ripresenta inesorabile con i suoi numeri irridenti e ancora una volta ha vinto lui e tu ti domandi a che cosa serva studiare tanto un problema che ti propone sempre una soluzione semplice ed efficace ma che viene sempre sconfitta dai numeri dei bilanci societari, dove un morto vale ben la pena di un guadagno maggiore. Ah, scusate, credo di avervi tratto in inganno con i miei soliti vaneggiamenti e dribbling verbali. Non sto parlando del coronavirus, giustamente in evidenza e combattuto in questi giorni, e che ad oggi ha fatto 29 vittime da noi ma delle morti sul lavoro. Certo non fanno notizia perché anni ed anni di assuefazioni e di costi dovuti al progresso, quasi che fossimo lì a costruire ancora piramidi, ci hanno resi insensibili a questo virus che colpisce solo i pochi che si ostinano ancora a lavorare, magari in condizioni disumane e malpagati, per costruire le ricchezze degli altri e avere un briciolo di speranza per il futuro incerto dei loro figli.

Il nuovo virus, che ha cancellato tutti gli altri problemi negli ultimi giorni, ci minaccia da vicino, terribile in quanto ci vede tutti vittime potenziali e fragili cose di passaggio, realtà sempre in sottofondo nella nostra vita quotidiana. Non intendo parlarne perché da non esperto, come egli ammette, ne ha già parlato, nel suo solito stile e benissimo, qwerty977 (L'amore ai tempi del co... ronavirus), che invito a leggere, dandovi un senso di ironica leggerezza per trasportare concetti seri e ben rilevanti, in quanto a peso, e tanti altri. Né intendo citare esperti virologi, che in televisione bullizzano quelli un po' più sobri e professionali, uno dei quali poco tempo fa affermava "In Italia il rischio è zero. Il virus non circola. Questo non avviene per caso..." e adesso è il più allarmato e allarmista. Né quel politico il sui solo accenno ad un eventuale sciopero della fame gli fa riempire lo schermo televisivo con un faccione sempre più pieno e un inizio di doppio mento, tendente al triplo, che per ottenere consenso un po' da tutti ha verità buone ad ogni uso, anche se contrastanti tra loro, per cui la mattina si dovrebbe chiudere tutto, in nome della sicurezza emergenziale, e il pomeriggio si dovrebbe aprire tutto, in nome degli affari a rilento e dei danni economici conseguenti; il mattino chiede meno tasse per tutti e il pomeriggio il potenziamento delle strutture sanitarie pubbliche (con la bacchettà magica?), facendo molto affidamento sulla volatilità della memoria che abbiamo installata nel cervello.

Mi limito solo ad osservare che questo virus impazzito improvvisamente è diventato da fastidioso a mortale, nel suo mutamento, segue inondazioni devastanti, incendi di proporzioni letali per il nostro ecosistema e guerre diffuse che generano grossi esodi di gente che aspira alla sopravvivenza, come tutto il resto del genere umano. Ieri, in un servizio televisivo, vedevo un padre che cercava di attraversare la frontiera con un bambino in braccio. Il destino di quel bambino era tutto racchiuso nello spazio di una fuga o di diventare, tra pochissimi anni, un vecchio-bambino soldato. Anche le guerre sono virus antichi che il progresso, pur con i suoi grandi balzi, non è riuscito a battere e cancellare.

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In tutto questo viene ad essere coinvolto anche il mondo del calcio. La partita dell'Inter in E.L. aveva dato a molti (io e chi altri?) l'impressione che una strada fosse stata imboccata e che quella si sarebbe seguita. Fatti pochi passi, però, ci si è accorti che a qualcuno non andava bene e si è preferito far impazzire il sistema e non pestare i piedi a chi quel sistema rappresenta in modo più visibile (anche qua invito a leggere il bell'articolo di Zardoronz "Il campionato si ferma in ossequio a una Juve sulle gambe"), spingendo il calendario in là, con dei recuperi che potrebbero rivelarsi quantomeno difficilmente applicabili e sportivamente poco sostenibili, dato che l'Europeo ha tempi certi ai quali attenersi e non ci permetterà di sforare giocando anche a ferragosto (si fa per dire). Ma il campionato si ferma per alcuni e non si ferma per tutti e qua già non si capisce il senso, in termini di pari opportunità sportive tra le varie compagini e, se non vi è pari opportunità, della sportività te ne fai nulla, se non mascherare l'inopportuno con una parola abusata al limite della denuncia.

Tempo fa avevo scritto qualcosa in proposito alla parentela fra il "gioco del calcio" (quindi anche quello estremamente amatoriale e improvvisato) e il "calcio professionistico" e ne traevo conclusioni che portavano alla consapevolezza che oramai la parentela è davvero lontana nei vari rami dell'albero genealogico e che bisogna prenderne atto. Disdire un campetto prenotato può costare al massimo il dover pagare comunque la cifra prevista, giocare Juventus-Inter a porte chiuse ben altro, oltre le considerazioni di carattere sportivo avanzate da Zardoronz.

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Unplugged...

Inter-Ludogorets, con lo stadio vuoto e silente, dava un senso di tristezza diffusa, invincibile e inconsolabile. Il rito del saluto a metà campo, vuoto nella spettacolarità della promessa di sportività e amicizia dell'evento, fatta ad un pubblico davanti agli schermi, risultava depotenziato e quasi inutile. Anche per chi, ormai, è abituato a vedere le partite su uno schermo, quel rumore di sottofondo era musica e ambientamento, arrangiamento musicale dell'evento, con strumenti un po' distorti e prepotenti, divenuti quasi essenziali.

Quando ho sentito il rumore dell'impatto del piede contro la palla, oramai non più ravvisabile con un pubblico caloroso e rumoreggiante, ho pensato alle tante partitelle con amici, colleghi o avversari in tornei amatoriali. I vari suoni che produce un tiro di collo pieno, un passaggio vellutato, un calcio di interno o di esterno piede, l'imprecazione, la risata, l'incoraggiamento e lo sfottò. L'arrangiamento unplugged e povero di strumenti di un evento normalmente così ricco di spettacolarità invadente mi ha riportato al "gioco del calcio" ma, chissà perché, vederlo giocare, non in un campetto di periferia ma in uno stadio pieno di gloria o di provincia, non sembra più così divertente come una volta, interpretato da ricchi e famosi pedatori.