“Il rischio consentito non è misurabile in astratto. Il perimetro di esso è la risultante di un attento vaglio del caso concreto. L’area consentita è pertanto delimitata dal rispetto delle regole del gioco, la violazione delle quali, peraltro deve essere valutata in concreto, con riferimento alle condizioni psicologiche dell’agente, il cui comportamento scorretto, travalicante, cioè quelle regole, può essere la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario, approfittando della circostanza del gioco”. (Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, Sentenza n. 9559/2016)

Questa è la posizione espressa dalla Suprema Corte interrogata in merito alla sussistenza della scriminante in ambito di violenza sportiva, relativamente alle lesioni procurate da un atleta durante un incontro di calcio valido per il campionato, serie Eccellenza, girone Sardegna.

La vicenda aveva luogo durante i minuti di recupero del secondo tempo di un match di Eccellenza, quando un'atleta della formazione ospite nel tentativo di fermare un'avversario lanciato in contropiede, interveniva con veemenza in tackle procurando all'avversario la rottura della tibia, e la conseguente lunga convalescenza. 

Sottoposto a giudizio a seguito di querela, l'uomo veniva riconosciuto colpevole del delitto di lesioni personali colpose, di cui all’art. 590 co. 1 e 2 c.p. dal Giudice di Pace di Alghero con conseguente condanna, oltre alla pena stimata di giustizia, a risarcire il danno, da liquidarsi in separata sede; successivamente lo stesso veniva prosciolto, per intervenuta prescrizione del reato, dal Tribunale di Sassari, in funzione di Giudice dell’appello, che tuttavia confermava le statuizioni civili relative al risarcimento del danno.

L’imputato ricorreva pertanto per Cassazione avverso la suddetta sentenza, allegando due motivi di censura. Col primo motivo si prospettava la liceità della condotta del ricorrente, trattandosi di infortunio da considerarsi scriminato dalla causa di giustificazione che fa riferimento alla teoria del rischio consentito. Col secondo motivo si evidenziava invece una violazione della legge processuale relativa alla competenza del Giudice di Pace, che veniva dalla difesa contestata; trattandosi di infortunio sul lavoro, la competenza sarebbe dovuta ricadere sotto la giurisdizione del Tribunale. Riteneva infatti la difesa dell’imputato che la continuità e la retribuzione dell’opera del proprio assistito fossero caratteri che permettono di qualificare senza dubbio l’attività come professionale.

Analizzato sommariamente il secondo motivo di ricorso, gli Ermellini ritenevano infondata la doglianza, e ciò sul presupposto che: “gli artt. 28 e29 delle norme organizzative della F.I.G.C. attribuiscono la qualifica di sportivi professionisti ai calciatori che militano nelle serie A, B e C, mentre coloro che militano nelle categorie inferiori”. Pertanto concludeva l’organo giudicante: “il legislatore ha minutamente regolato la disciplina sportiva del gioco del calcio, della quale fa parte integrante e qui non sindacabile, la qualificazione giuridica dell’attività sportiva esercitata dai singoli associati. Non assume perciò rilievo la diversa volontà che si possa ricavare dall’autoregolamento di interessi privati: per assioma di legge il calciatore di squadra iscritta al campionato di eccellenza deve ritenersi atleta dilettante.”

Maggior interesse riveste l’analisi della Suprema Corte, in merito alla scriminante della violenza sportiva. Il ricorrente sosteneva infatti che la ricorrenza dell’invocata scriminante fosse resa palese ed evidente dalle peculiarità del fatto: innanzitutto, la scena incriminata era quella di una tipica azione di gioco, caratterizzata dall’agonismo tipico degli ultimi minuti di un incontro di calcio; inoltre, il calcio, sport fisico a violenza eventuale, contempla il contatto fisico; infine, si riteneva che non vi fosse stata alcuna volontaria aggressione all’altrui bene dell’integrità fisica, ma si fosse trattato di uno sviluppo fisiologico della concitata azione di gioco, come tale sanzionabile solo a norma del regolamento del gioco del calcio.

Orbene, secondo la giurisprudenza maggioritaria, gli eventi lesivi causati nel corso di incontri sportivi e nel rispetto delle regole del gioco, restano scriminati per l’operare della scriminante atipica dell’accettazione del rischio consentito; tuttavia l’operatività di tale scriminante deve considerarsi esclusa, con conseguente antigiuridicità del fatto:
a) quando si constati assenza di collegamento funzionale tra evento lesivo e competizione sportiva;
b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e alla rilevanza dello stesso;
c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione.
Per converso, deve escludersi l’antigiuridicità della condotta, e quindi alcun obbligo di risarcimento insorge quando si tratti di atto posto in essere senza volontà lesiva, nel rispetto del regolamento e l’evento di danno sia la conseguenza della natura stessa dell’attività sportiva, che importa contatto fisico. Parimenti, deve escludersi l’insorgere di responsabilità qualora, pur in presenza di violazione della norma regolamentare, debba constatarsi l’assenza di volontà diretta a ledere l’avversario. (In tal senso vedasi Corte di Cassazione, Sez. III Civile, Sentenza n. 12012/2008).

Deve pertanto individuarsi quale causa di giustificazione possa nel caso concreto venire in rilievo. Escluso che possa invocarsi la scriminante del consenso dell’avente diritto, il quale non potrebbe giungere sino a giustificare lesioni irreversibili dell’integrità fisica, nonché quella dell’esercizio del diritto, che non consentirebbe di escludere dall’area della responsabilità penale tutte quelle condotte, che pur commesse in violazione del regolamento, non risultino esuberare l’area del rischio accettato, i giudici hanno concentrato la loro attenzione sull’esercizio di attività sportiva.

Orbene, sul punto, si osserva come l’esercizio, in particolar modo a livello agonistico, di una disciplina sportiva che implichi l’uso necessario o anche solo eventuale della forza fisica, costituisce un’attività rischiosa consentita dall’ordinamento, a condizione che il rischio sia controbilanciato da adeguate misure prevenzionali sia sotto forma di regole precauzionali, che dall’imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti. In tal senso si era già espressa la Cassazione con sentenza n. 20595/2010 ove statuiva che: “il rischio qui preso in considerazione sia relativo e non assoluto, in quanto posto a fronte di un vantaggio sociale del pari relativo e non assoluto e come il bilanciamento di interessi contrapposti imponga uno scrupoloso rispetto delle regole cautelari” con la conseguenza che “il rischio accettato non ricomprende le azioni volontarie poste al di fuori dell’azione di gico o anche solo non finalizzate alla predetta azione e neppure quelle tali da apparire sproporzionate ex ante, in quanto ne sia soggettivamente percepibile la lesività”.

A questo punto è possibile ricavare un quadro più completo della scriminante dell’accettazione del rischio nell’attività sportiva: in primo luogo, la scriminante copre azioni dirette a ledere l’incolumità del competitore solo nelle discipline a violenza necessaria o indispensabile, salvo ovviamente il rispetto rigoroso della disciplina cautelare di settore (in ogni caso la scriminante non opera se si accerta che lo scopo dell’agente non era quello di prevalere sul piano sportivo). Occorre poi il rispetto della regola della proporzionalità dell’ardore agonistico al rilievo della vicenda sportiva e l’eventualità che venga violata una delle regole del gioco costituisce evenienza preventivamente nota ed accettata dai competitori, i quali rimettono alla decisione dell’arbitro la risoluzione dell’antigiuridicità, che non tracima dall’ordinamento sportivo a quello generale. In ogni caso, ove il fatto violento, pur conforme alle regole del gioco, sia diretto ad uno scopo estraneo al finalismo dell’azione sportiva, l’esimente non opera. Infine la scriminante in oggetto non potrà trovare applicazione nei casi in cui il fatto violento appaia inidoneo, ex ante, a perseguire lo scopo sportivo e ancora quando l’azione violenta venga commessa nonostante risulti percepibile da parte dell’agente, la prevedibile lesione dell’integrità fisica del competitore.

In conclusione, nel caso di specie, gli Ermellini hanno ritenuto che l’infortunio fosse maturato in un frangente del gioco particolarmente intenso, a riguardo di un azione di gioco decisiva, nonché in un incontro di estremo rilievo; ne conseguiva che la condotta dell’imputato, diretta a colpire il pallone, venisse ritenuta meritevole di mera censura intranea all’ordinamento sportivo, non già perché smodatamente violenta, bensì perché, mal calcolando la tempistica, invece che cogliere il pallone, aveva finito per colpire la gamba dell’avversario, non sconfinando tuttavia certamente dal perimetro coperto dalla scriminante sopra illustrata.

Pertanto venuta meno l’antigiuridicità del fatto la Suprema Corte di Cassazione, annullava senza rinvio la sentenza perché il fatto ascritto all’imputato non costituisce reato.