E’ l’estate del 1983. La Juventus ha da poco sbollito la delusione della Coppa dei Campioni persa in finale con l’Amburgo. Una partita balorda, l’ultima di Zoff tra i pali bianconeri. Per il portierone friulano doveva essere la consacrazione nell’Olimpo degli inarrivabili: dopo la Coppa del Mondo alzata a 40 anni nella dolce notte di Madrid, voleva dire addio come mai nessuno prima e voleva farlo con la maglia bianconera. Ma gli anziani insegnano che chi troppo vuole nulla stringe, e lui - ormai da anziano del football giocato - avrebbe dovuto saperlo. Ad Atene, un tiro indovinato da trenta metri di un certo Magath, un signore anch’egli attempato con un’evidente predisposizione per la birra – dato il pingue intestino che straborda dalla rossa maglietta attillata - ricaccia a casa Zoff, Platini e compagni a mani vuote.

Delusione cocente. E così, insieme al portierone, dice addio anche Bobby gol. Quel Bettega che ai Mondiali dell’anno prima non si consacra campione solo per uno sciagurato infortunio che lo tiene lontano dai campi spagnoli. Al loro posto arrivano a Torino Domenico Penzo, trentenne attaccante del Verona, e Stefano Tacconi, promettente portiere dell’Avellino.

ANONIMO GREGARIO

Da Avellino, nella più totale indifferenza di giornali e giornalisti, si trasferisce sotto la Mole anche il compagno di camera di Tacconi, un ventitreenne che di nome fa Beniamino e di cognome Vignola. Una riserva piccola piccola, negli anni in cui le riserve vedono il campo giusto per allenarsi. Nelle intenzioni della dirigenza, Vignola è un anonimo gregario chiamato a far compagnia in panchina a Tavola e Koetting.

Visite mediche, presentazioni di rito, ma del contratto nemmeno l’ombra! Viene a conoscenza del suo stipendio solo una decina di giorni più tardi durante il ritiro di Villar Perosa, quando Boniperti gli mostra un foglio senza prendersi la pena di spiegargli quello che c’è scritto. Lui autografa e poi legge. I bonus non sono niente male!

RACCOMANDATO DA MICHEL

A guardarlo fa tanta simpatia, Beniamino: piccino, biondo e paffuto, sembra uno di quei putti che decorano gli altari delle chiese barocche. Ha l’aria da bravo ragazzo, rispettoso, senza grilli per la testa. Gli occhi chiari e quasi sempre rivolti verso il basso, approda all’universo bianconero in punta di piedi. Maledetta timidezza, sembra capitato lì per caso sul campo Combi, ad allenarsi tra i mostri sacri del pallone. Osserva molto, cerca di capire, di imparare dai grandi. Lui è una mezzala tecnica. Vi rendete conto: una mezzala tecnica nella squadra di Platini! Povero Beniamino, alla corte di Roi Michel sembra proprio destinato al ruolo di mascotte, con quel nome tanto amabile e gentile. Eppure è stato proprio Platini a notarlo l’anno prima e a caldeggiarne l’acquisto. Vignola era già in parola con Allodi, avrebbe dovuto vestire la maglia viola della Fiorentina. Ubi maior…

FRANCO PARLA FRANCESE

Inizia il campionato e gli occhi sono tutti per i nuovi innesti Penzo e Tacconi. Il portiere, sosia di Zibì Boniek, lavora per guadagnarsi i gradi da titolare sfidando per il ruolo un agguerrito Bodini, mentre Penzo stenta a prendersi la scena che fu di Bettega, schiacciato lì davanti da Rossi, Platini e Boniek. I posti al sole sono tutti occupati. Figuriamoci per Vignola! Eppure, dopo qualche partita, il Trap gli regala la gioia dell’esordio in bianconero. Uno scampolo di gara, nulla più. La maglia numero 16 più grande di tre misure, i pantaloncini che gli scendono malamente alle ginocchia… entra in campo senza dar troppo peso a quell’abbigliamento squinternato e… sembra trasformarsi: la testa è alta, gli occhi rapaci. Non tutti sanno infatti che Beniamino si chiama così solo all’anagrafe, ma di nome per tutti fa Franco, che significa risoluto, schietto e disinvolto. Dopo pochi minuti più nessuno osserva le maniche della maglia che se non fossero arrotolate gli scenderebbero fino alle falangi. Sono tutti rapiti dalla naturalezza con cui si districa tra gli avversari e dialoga con Platini. Franco parla la stessa lingua del francese!

Ma il Trap spegne subito gli entusiasmi di chi lo vorrebbe titolare. E’ troppo gracile – pare abbia confessato il mister di Cusano Milanino ai suoi più stretti collaboratori – non tiene i novanta minuti. Pensieri e parole che se non sanno di bocciatura poco ci manca e rispediscono il ragazzino in quel limbo grigio da cui tenta in ogni occasione di fuggire. Ogni minuto a disposizione, lui infatti lo adopera sapientemente per far ricredere il Trap, i compagni e i tifosi. E i tifosi della Signora, dalle coccole benevoli di inizio stagione, passano presto a gridare il suo nome dagli spalti.

IL PRIMO “INTENSO” DEL CALCIO ITALIANO

E’ il 26 febbraio. Nel derby di ritorno, sotto di un gol, Trapattoni toglie Prandelli e lo butta nella mischia. Lui entra in campo, si avvicina a Platini e gli sussurra: “Questa partita devi farcela vincere tu”. Le Roi lo guarda un po’ accigliato, gli consegna le chiavi del centrocampo e lo accontenta. Michel si sposta un po’ più avanti e firma una doppietta, con il suo alter ego borghese a innescarlo dopo avergli ricordato la sua nobiltà.

Con il passare dei mesi Beniamino Vignola – per gli amici Franco - diventa il dodicesimo titolare di quella squadra. Continua a partire dalla panchina, ma tutti sono certi di vederlo giocare nel secondo tempo. E’ per così dire il primo “intenso” della storia del calcio italiano; una specie di Duglas Costa solo un po’ più integro fisicamente. Spesso è un attaccante a lasciargli il posto: a volte Pablito, scuro in volto, a volte Zibì, con relativa immediata incazzatura e corredo di parolacce.

NON C’E’ PLATINI? C’E’ VIGNOLA!

La Signora macina punti in campionato e il 1° aprile al Comunale si gioca Juventus-Fiorentina. Un crocevia fondamentale verso lo scudetto, ma il Re è malato: Platini ha la febbre. Nel prepartita Giampiero Galeazzi lo fa notare a Tardelli che risponde: “Non c’è Platini? C’è Vignola!”. Un riconoscimento mica da poco per il timido ragazzino di Verona dalle giocate folgoranti e dai coordinatissimi tiri al volo. Per la prima volta da quando è a Torino scende in campo con il 10 sulle spalle e quella maglia, ancora oggi, è l’unica che conserva.

La partita non si sblocca: uno 0-0 destinato a trascinarsi fino alla fine se non fosse che all’ultimo minuto Pecci atterra Boniek in area. Zibì cade e l’arbitro fischia il rigore. Nel trambusto generale, Vignola non ci pensa due volte: prende in mano il pallone e lo poggia sul dischetto. E’ un gesto istintivo il suo, di pancia. Ad Avellino i rigori li ha sempre tirati lui. L’arbitro fischia mentre Boniek si tiene le mani tra i capelli. Rincorsa, collo interno forte a incrociare, Giovanni Galli da una parte e pallone dall’altra. Un boato chiama Beniamino sotto la curva: è il gol che vale la partita e lancia la Juve verso il suo ventunesimo scudetto.

LA DOPPIETTA TRICOLORE

C’è però ancora un ostacolo sul percorso tricolore ed è rappresentato dall’Udinese di Zico, fuoriclasse brasiliano che ha scelto il Friuli per portare in Italia le sue magie. E’ la ventisettesima giornata. Nel primo tempo, al gol di Rossi rispondono Mauro e proprio Zico. In un minuto il match è ribaltato. Ma nella ripresa il Trap sostituisce Boniek con Vignola, che ne fa due! Il primo su assist di Tardelli, il secondo con un assolo da centrocampo che lascia storditi gli avversari per tecnica e caparbietà. Manca solo la matematica a consegnare lo scudetto alla Juve e arriva due domeniche dopo, guarda caso proprio contro l’Avellino. Un salomonico pareggio consente a Vignola di festeggiare il suo primo e unico tricolore e la salvezza della sua ex squadra. Ma non è ancora l’apoteosi. Per quella occorre aspettare una decina di giorni.

EROE DI BASILEA

La finale di Coppa delle Coppe – quella bella competizione tra tutte le squadre europee che l’anno prima avevano vinto la coppa nazionale – si gioca a Basilea, in uno stadio fatiscente, zeppo di tifosi bianconeri. Quella sera la Signora è in giallo. Missione: assassinare il Porto per vendicare la coppa dalle grandi orecchie persa malamente l’anno prima. Le squadre sono schierate in campo per le foto di rito e con il numero sette c’è dal primo minuto Beniamino Vignola. Prima del calcio d’inizio, Platini si volta e lo guarda. Il francese negli occhi ha ancora i fantasmi dell’anno prima. Vignola lo carica, gli urla qualcosa per scuoterlo. Non si può perdere; e se Platini non vuol far Platini, toccherà che qualcuno lo faccia al suo porto. Questo deve aver pensato Beniamino e così, dopo 13 minuti dal fischio di inizio, un canarino strappa a centrocampo e si defila sulla sinistra, guarda in mezzo, ma non vede nessun “giallo” da servire. Allora carica il sinistro e voilà un perfido diagonale che s’infila preciso nell’angolino opposto, con il portiere Zebeto immobile, di sasso per la prodezza del piccolo fenomeno che si inginocchia con le braccia al cielo. Lo raggiunge per primo Cabrini, che gli sventola un pugno davanti e lo solleva insieme a Boniek. Ma il Porto non molla e pareggia, tocca fare un’altra magia, che arriva puntuale al minuto 40. Boniek si inserisce nello spazio e Vignola scodella un passaggio chirurgico che il polacco sfrutta alla perfezione per il vantaggio. Capitan Scirea alza al cielo la Coppa, ma la firma sull’impresa è tutta di quel piccoletto, biondo e tanto timido fuori dal campo quanto determinato sul rettangolo verde.

UNA MAGLIA AL MUSEO

A trent’anni da quella sera benedetta, entro al JMuseum di Torino e tra il luccichio dei trofei e le mille immagini della storia bianconera, vengo attratto da una teca dedicata alla coppa del 1984. C’è una maglia gialla dentro, con il numero sette. E’ quella dell’eroe. L’antidivo mutato in “beniamino” del popolo bianconero.