Spesso quando leggo le dichiarazioni di qualche alto dirigente calcistico come appassionato di calcio sperimento la sensazione di uno strano disagio. Un disagio simile a quello che si prova davanti a un funzionario capace, competente, ma freddo e mi domando cosa abbiano a che fare col calcio delle proprietà che considerano i club che dirigono come delle appendici accessorie di un apparato ben più vasto legato al mondo dell'economia o a quello della finanza. Leggo spesso le dichiarazioni di dirigenti di società calcistiche anche di altissimo livello: molta carne al fuoco, risposte a tutto campo sugli argomenti più disparati specie di ambito economico-finanziario-promozionale (le plusvalenze, il fair play finanziario, i video emozionali,etc)  estranei all'aspetto prettamente sportivo tipico di una società calcistica e integrate poi da affermazioni di principio standardizzate. Dichiarazioni anche condivisibili se non dettate dal desiderio di accreditarsi mediaticamente o di accodarsi a una certa amplificazione e semplificazione narrativa mainstream riguardo determinati temi che meritano ben altri approfondimenti in altre sedi. Ma qualsiasi siano i contenutii ciò che se ne ricava è una messe abbastanza scialba e banale di affermazioni apodittiche e autoveritative come fossero slogan pubblicitari preconfezionati che vorrebbero avere il fine di essere tranquillizzanti, quasi una specie di anestesia per non fomentare le inquietudini e appiattire qualsiasi aspettativa dei tifosi: un linguaggio tecnico-giuridico, politicamente corretto, mutuato direttamente dalla politica con continui rimandi allusivi a un futuro che rimedierà agli errori del passato.

Queste dichiarazioni, questo linguaggio sbiadito, attentamente sorvegliato ed emotivamente impoverito, stride con quello che è e deve rimanere il tratto caratteristico che ha fatto del calcio uno sport popolare e quindi di successo: il calcio infatti nasce come sport profondamente legato alle rivalità campanilistiche quale espressione di un territorio con la sua fisionomia caratteristica a propria volta radicata e consolidata in una realtà culturale ben specifica per nulla standardizzata. Per questo, in quanto prodotto caratteristico di una realtà territoriale, il calcio deve la sua diffusione non ai bilanci, alle sinergie aziendali o alle conoscenze in materia economico-finanziaria dei suoi dirigenti, ma alla passione, all'emotività, alle viscere. Aspetti che - beninteso - non devono trascendere determinati limiti, ma che non devono nemmeno essere assopiti e cauterizzati al livello di uno spettacolo che richiede dal pubblico una emotività compressa come si può riscontrare in un'opera teatrale o in uno sport dalle origini sociali completamente diverse come il tennis o in cui manca il contatto fisico e quindi per sua natura emotivamente più gestibile come la pallavolo.

Inter e Milan ad esempio: entrambe hanno proprietà abituate a esercitarsi in ambiti extracalcistici, il loro habitat naturale è materialmente costituito dalle cattedrali della finanza, dal silenzio ovattato di certe sedi bancarie, di incontri al vertice presso dignitose sale conferenze di hotel di pregio. Questo è il contesto fisico da cui provengono che nulla ha a che fare col chiasso caotico fatto di passione e attesa tipico di uno stadio, con le discussioni acerrime fra tifosi di opposte fazioni, con l'esplosione di gioia per un gol segnato o di cupa disperazione per uno subito, per la vitalità con cui si sostengono le ragioni di un rigore dato o non dato in un bar di periferia. Due mondi con due retroterra completamente diversi, che non possono comprendersi: il calcio specialmente in società di primo piano richiede la capacità di sognare, di ambire a grandi traguardi, di una virile contesa per assicurarsi i giocatori migliori. Se il calcio perde tutto questo e recide le sue origini popolari, campanilistiche, emotive e viscerali sostituendole con un sostrato fatto di anonimia impersonale dove tutti parlano lo stesso linguaggio, dove non ci sono polemiche, dove la sana rivalità sportiva viene mortificata, dove qulasiasi manifestazione emotiva come levarsi la maglia dopo un gol viene castigata, se tutto questo accade - dicevo - il calcio perde tutto il suo fascino e con esso la sua capacità di attrazione.

Temo che le proprietà di Inter e Milan pur essendo costituita da persone preparate, competenti, intelligenti  e impegnate in un duro lavoro non possano capire tutto questo e non lo possono capire perchè i loro sogni e le loro ambizioni si esprimono in altri ambiti e secondo modalità che non riguardano il mondo del calcio. Prova ne sia il fatto stesso che spesso nelle loro dichiarazioni traspare come le rispettive squadre siano in realtà concepite solo come strrumenti di marketing, un logo di successo per promuovere e reclamizzare un'altra realtà aziendale o appetite in quanto buona occasione di business finanziario. Dunque Inter e Milan considerate come realtà accessorie, semplici utensili che servono solo a veicolare significati extra calcistici e sostituibili con altri più funzionali appena non fossero più in grado di svolgere questo compito di servizio. Ne consegue che tutto è all'insegna della volatilità, della precarietà: quali ambizioni sportive può avere una proprietà che ha già deciso di vendere la società ad altri il prima possibile? Quali motivazioni può trovare un giocatore che sa già che probabilmente a fine stagione sarà ceduto al fine di ricarvarne plusvalenze? Come possono i tifosi affezionarsi a una squadra che rischia di essere smantellata nel giro di qualche mese? Allora dico che ha ragione Abatantuono: il calcio vive sui bandieroni allo stadio, sulla gente che porta la sua passione sugli spalti, su proprietà, dirigenze e addetti ai lavoro che amano la loro squadra in modo gratuito e a prescindere. Tutto questo deve essere salvaguardato o il calcio del futuro non richiederà nemmeno la presenza del pubblico, sarà un semplice evento mediatico su cui scommettere. Questa però sarà la sua la sua penultima tappa, nell'ultima diventerà di una noia mortale e infine si estinguerà.