A volte basta poco per rievocare un ricordo o un evento. Forse dire “poco” è addirittura un’iperbole. Potrete contraddirmi, ma sono certo di non esagerare. Un suono, un posto, una visione di qualcosa, persino un odore (ci arriveremo a breve) può suscitare un tumulto interno, dentro il nostro animo, di dimensioni bibliche. Ovviamente per “dimensioni bibliche” intendo una grandezza che accarezza i sentimenti, le emozioni e che suscita un senso di appartenenza verso quella specifica evocazione. Il più delle volte può farci piacere, altre un po’ meno e, altre ancora, possono solo innescare curiosità o una riflessione su quel determinato episodio. In tutto questo fervore invocato dai ricordi, emerge la figura di Marcel Proust, celebre scrittore e saggista francese che, grazie ad un sapore evocato dal suo palato, oggi conosciamo il fenomeno come Madeleine de Proust. Tale termine – francese – viene conosciuto anche come sindrome di Proust, ma non è molto elegante scriverlo o riconoscerlo in questa modalità, perché va a rovinare un’esperienza che può essere magica. Anche drastica se la rievocazione non è una di quelle che si voglia ricordare, ma comunque magica. Sia nel bene che nel male. Continuando il fil rouge, la Madeleine de Proust va ad indicare il protagonista che tende a far galleggiare quello che a tutti gli effetti possiede i connotati di un ricordo. Nel caso di Proust, il protagonista, anzi, la protagonista in quel caso, non è stato altro che la madeleine o, più raffinatamente, la petite madeleine, un tipico dolcetto francese – caratteristico del comune di Commercy – conosciuto per la sua forma a conchiglia e con un sapore riconducibile ai classici plum cake qui da noi. Quel dolcetto, così effimero e soffice, a tratti insignificante, fece riaffiorare allo scrittore francese un ricordo piacevole. Questo è un estratto di “Dalla parte di Swann”, uno dei suoi passi più famosi:

“Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè […] Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleine, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo […] Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa […] All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio”.

Un innocuo dolcetto ha scatenato in modo piacevole la memoria del giovane Proust. La cosa bizzarra, tra l’altro, si depone nel fatto che una vicenda che non rammentava neppur lontanamente sia stato suscitata da un’azione non voluta, involontaria. Anche a me, l’altro giorno, mi è capitata la stessa cosa. Sono stato anche io “vittima” della Madeleine de Proust. Il soggetto, in questo caso, è stato un dibattito.

Qualche giorno fa, mentre mi accingevo a studiare un libro “Le sorti della videocrazia” valido ai fini di un esame universitario, mi sono imbattuto in una conversazione di diversi anni fa, precisamente avvenuta a marzo del 2001, nel salotto telepolitico “Il raggio verde” di Michele Santoro. Il topic della chiacchierata riguardava il motivo dello sfaldamento del rapporto tra Silvio Berlusconi e Indro Montanelli. A presidiare il salotto, oltre che al carismatico conduttore, era presente Vittorio Feltri e Marco Travaglio. Proprio quest’ultimo, fu chiamato in causa per espletare cosa fosse successo tra il Cavaliere e il giornalista. In quel frangente, Feltri, era molto scettico rispetto a quanto era avvenuto. Non poteva credere che il buon Montanelli descriveva due figure opposte di Berlusconi, l’una completamente avversa all’altra. Queste le sue parole:

Montanelli in pratica dipinge due figure di Berlusconi. Per oltre vent’anni Berlusconi è stato l’editore di Montanelli, e Montanelli è stato bene per quei vent’anni con Berlusconi, tant’è vero che in varie circostanze, senza mai contraddirsi, Montanelli ha detto che Berlusconi è stato per lui il miglior editore possibile, nel senso che gli ha lasciato piena libertà, gli ha lasciato il dominio de “Il Giornale” […] Quindi è un Berlusconi che contrasta con il Berlusconi dipinto oggi da Montanelli, il quale dipingi invece una specie di dittatore, che ama le maniere spicce e che ha una certa vocazione anche per il manganello. Ora queste due figure così contrastanti non si possono conciliare: come ha potuto Montanelli stare per vent’anni con un fascista che ama il manganello? Non si è accorto in vent’anni?”. [fonte “Le sorti della videocrazia”]

Come scritto poc’anzi, due figure totalmente differenti. Un Berlusconi in veste di angioletto, che lasciava una totale libertà al giornalista di Fucecchio e un Berlusconi in veste di diavoletto, con un comportamento totalmente opposto. A quel punto, verso tarda serata, irrompe nello studio Montanelli con una chiamata, la quale sentiva il dovere di intervenire e rispondere alle “accuse” di Vittorio Feltri. Queste le sue parole:

“Nella mia vita ci sono stati due Berlusconi, completamente opposti, ma questo non è mica colpa mia! Non dico che sia colpa di Berlusconi. Fa parte del ritratto di Berlusconi: come imprenditore privato io credo che sia un grosso imprenditore, anche comprensivo, intelligente. Come capo politico è quello che io ho conosciuto in quei brutti giorni in cui scorrettamente, nella maniera più scorretta e più volgare, saltandomi, lui radunò la redazione del Il Giornale per dirgli “qui si cambia tutto”, all’insaputa del direttore. Se questo sembra a Feltri un modo di procedere diciamo democratico e civile è affar suo”. [fonte “Le sorti della videocrazia”]

Un duplice Cavaliere insomma. Uno con il mantello da imprenditore, l’altro con il mantello politico e due personalità per niente comuni. Questa conversazione è stata la mia Madeleine de Proust. Non un sapore, non un odore, ma una lettura di tale dibattito che mi ha riportato esattamente a quello che successe tre anni fa, ad un parallelismo che per certi versi ha dei tratti in comune, seppur con “mantelli” differenti. Parlo di Francesco Totti e Luciano Spalletti.

Penso che tutti conoscano il coup de théâtre tra l’ex capitano della Roma e l’allenatore di Certaldo. La prima parte di questa storia d’amore possedeva connotati magici, tant’è che sotto la sua guida la Roma vinse diversi trofei, sfiorando lo scudetto e, con la sua inventiva di Totti falso 9, lo portò a vincere la scarpa d’oro. La seconda, invece, è stata l’esatto contrario, proprio come il buon Montanelli descriveva Berlusconi, “completamente opposti”. Il tutto, poi, è riconducibile anche nel libro “Un Capitano”, dove dedica un capitolo intitolandolo “Il primo magico Spalletti”, mentre, qualche pagina dopo, lo intitola “Il secondo tragico Spalletti”. Nel primo capitolo è possibile notare subito la netta somiglianza delle affermazioni tra Francesco Totti e Indro Montanelli: “Nel corso della mia vita ho avuto a che fare con due versioni di Luciano Spalletti […]”. Insomma, lo mette subito in chiaro e lo fa proprio nel capitolo in cui lo descrive come il migliore che abbia avuto. In campo, ma anche fuori, visto che poteva parlargli anche delle cose più intime, personali, insomma, extracalcistiche, come fanno due amici e non due colleghi. Tant’è che il suo addio è tra i più dolorosi, il più coinvolgente dal punto di vista umano, uno di quelli spezzaossa, affermerà il capitano. Nel leggere le parole di Francesco è davvero particolare il rapporto che i due hanno avuto, da migliori amici e non da allenatore e giocatore. Eppure, quello che accadde qualche anno dopo, sembra contraddire tutte le parole e le belle cose descritte nel capitolo de “Il primo magico Spalletti”. Forse Feltri sarebbe intervenuto anche qui.

Nell’altro capitolo, cioè in quello dove “primo” viene sostituito da “secondo” e “magico” da “tragico”, Totti affermerà di aver sentito immediatamente un certo vento gelido correre nei discorsi del “pelatone”: “non mi chiede nulla dell’infortunio che mi ha costretto a tre mesi di inattività”, per poi ribadire la sua demonizzazione per il gioco delle carte, che lo contraddistingueva anche nella sua prima gestione. La guerra fredda continuerà e diventerà ancora più pungente quando Totti rilascerà l’intervista alla Rai – quella dove chiedeva più rispetto – mentre Spalletti terrà una conferenza stampa – quella dove affermerà che Francesco partirà titolare. A volte, quando una coppia non riesce ad uscire dalla crisi e alla fine il vaso, colmo di crepe, si rompe, gli amici o i conoscenti tendono a dire “eravate quelli giusti ma al momento sbagliato”. Non sempre, ovvio, ma spesso accade. In questo un po’ rivedo Totti e Spalletti, come anche Berlusconi e Montanelli. Quelli giusti al momento sbagliato. Però, poi, mi chiedo: come si fa ad essere giusti nel momento sbagliato? Se due sono fatti per stare insieme, per continuare una storia d’amore, d’amicizia o professionale che sia, se tengono l’uno all’altro, come si può mettere davanti il momento sbagliato al valore sentimentale? Fatto sta che Totti darà del lei a Spalletti per la prima volta. Una guerra fredda, destinata a diventare incandescente per i toni iperconcitati tra i due. E sarà così, per tutto il finale di stagione e quella successiva.

Un Francesco che chiude il capitolo dei gol contro il Torino, quella persa 3-1; lo chiude con un calcio di rigore, firmando 250 in Serie A. La beffa è che fermandosi e guardandosi indietro, è stata la stessa squadra che, nell’anno prima, lo ha visto di una rimonta pazzesca, quella che un papà racconterebbe al figlio. Una partita in casa, sempre contro i granata e sotto 1-2. Poi la luce, un bagliore che illumina il tabellone delle sostituzioni e che vede entrare la stella di Trigoria, quel ragazzo che veniva scelto sempre per ultimo nelle streetfootball, per poi ripensarci e mischiare di nuovo le squadre perché il ragazzo biondo, il “Bimbo de Oro”, era troppo forte. Talmente forte che quel giorno, in cinque minuti, prima in semirovsciata e poi su rigore, regala i tre punti alla squadra. Esulta sotto la Sud con la gente che lo chiama, piange, stramazza, filma con i telefoni un ricordo che rimarrà nella storia. Quelle braccia spalancate che segnavano un mix di onnipotenza e un abbraccio caloroso verso quella Curva che lo ha sempre amato e che continuerà ad amarlo per sempre. L’ultima partita poi, sempre vinta 3-2, sempre in rimonta, sarà la fine di una storia e l’inizio di una leggenda.

E così, la mia Marlene de Proust non è stata altro che una discussione, un dibattito tra Feltri-Travaglio e Montanelli e un Berlusconi non protagonista avvenuta tanti anni fa, ma che ho conosciuto solo recentemente e che hanno rievocato in me un ricordo calcistico quello di Totti-Spalletti. Un ricordo amaro, purtroppo, ma che è stato addolcito dalla figura che ho sempre idolatrato.