Per rispondere a questa domanda bisognerebbe fare prima una piccola digressione sul campionato che, più di tutti, ha sposato la globalizzazione calcistica. Il campionato inglese. Una decina di squadre sono in mano a proprietari stranieri nella sola premier, per non parlare delle serie minori. Una globalizzazione a 360°, indipendente dal prestigio delle squadre acquistate. Risultato di questa “invasione” straniera? Il campionato inglese resta in assoluto il più ricco del mondo, con il fatturato maggiore, nonostante in Europa non sia di certo il più vincente. Ho fatto questa piccola premessa per introdurre immediatamente quello che, a mio avviso, è l’elemento principale della globalizzazione nel calcio. Il denaro. Quando pensiamo al nuovo proprietario che acquisterà la nostra squadra del cuore, da una parte storciamo il naso perché viviamo una specie di rapimento della nostra identità calcistica, dall'altra, iniziamo a sfregarci le mani immaginando i fantamiliardi che verranno investiti nel mercato, un po’ con il Manchester city, passato dalle lotte per la salvezza, alla vittoria della premier. Il discorso, per fortuna, è molto più complesso. Il calcio italiano non deve commettere l’errore di guardare i proprietari stranieri come dei ricchi paperoni disposti esclusivamente a elargire denaro a fondo perduto. Sarebbe il nostro peccato originale. Dovremmo affrancarci dalla nostra idea romantica di presidente. Il presidente legato ai colori della propria squadra, disposto a sacrificare i propri capitali pur di ottenere la gloria di qualche successo. L’imprenditore straniero è abbastanza lontano da questa idea. È prima di tutto un investitore. Amante dello sport sì e anche capace di slanci di patriottismo sportivo, ma resta un investitore e, come ogni aziendalista, ragiona sul lungo periodo, auspicando un aumento del capitale investito. Resta dunque più legato a un’idea di equilibrio economico-sportivo, a un lavoro mirato a far crescere la squadra come un’azienda, piuttosto che a un discorso di gloria e fama. Ragionando così riesce difficile immaginare al calcio italiano come una terra promessa per i proprietari stranieri, essendo ben lontano dal fatturato economico che può garantire un campionato ricco come la premier. Partendo da questo presupposto, però, il nostro calcio dovrebbe sfruttare questo periodo storico e questa possibilità. L’imprenditore straniero, infatti, è un uomo d’affari abituato a ragionare in termini di crescita. Vuole essere parte attiva di un cambiamento e produrlo. Recentemente lo stesso Pallotta ha rilanciato il suo obiettivo di costruire uno stadio di proprietà per la Roma. In questo senso il calcio italiano dovrebbe sfruttare l’intraprendenza e la determinazione di un altro tipo di mentalità legata allo sport. Un modo di ragionare più dinamico, veloce, dove le cose vengono pensate e si cerca subito di attuarle. Un modo di guardare al calcio ben lontano dai tempi biblici della nostra politica sportiva e che potrebbe portare a una sorta di “svecchiamento” del nostro movimento, ormai imbolsito in vecchi modi di ragionare. Dovremmo promuovere una nuova maturità gestionale e abbandonare vecchie abitudini permettendo così, al nostro movimento calcistico, di inglobare mentalità vincenti, anche a livello imprenditoriale. Dovremmo andare nella direzione di promuovere un cambiamento strutturale che possa gettare le basi per una nuova era del nostro calcio, sperando di tornare ai tempi in cui il nostro era uno dei campionati più ambiti e prestigiosi del mondo. Tornando alla domanda iniziale dunque, la mia personale risposta è sì! A unica condizione però. Quando si parla di globalizzazione, non parliamo di un modello negativo o positivo in sé, ma di un modello che porta sempre un cambiamento. La condizione necessaria è quella di essere aperti e farsi trovare preparati a questo cambiamento, altrimenti il rischio è di bruciarsi una buona occasione per crescere.