"... ma sei sicura mamma che sia in cantina?". È iniziato così, per caso, un viaggio particolare, in una noiosa mattina di metà settimana, nella casa dei miei genitori.

Avevo la necessità di trovare una lettera, sicuramente ingiallita, che aveva custodito mio padre, quando ero poco più che ragazzo, da consegnare alla mia vecchia zia. La risposta di mia madre, dopo aver riassettato la mente per cercare di ricordare, fu scoraggiante in quanto la possibilità di riuscita era poco più che irrisoria. Come trovare un ago nel pagliaio. "Sicuramente si trova in uno degli scatoloni che abbiamo custodito quando è morto babbo". Il sicuramente, forte e affermativo mi sembrava quanto meno effimero. "Sicura?" - le risposi. "Penso proprio di si. Sarai agevolato in quanto, prima di mettere lo scotch, in ogni involucro ho scritto cosa c'è dentro". Intanto, le si era insinuato il dubbio con un "penso"; se le sue certezze venivano meno, le mie erano pari allo zero. "Passa prima da me che prendiamo un caffè e poi ti dico dove sono le chiavi per aprire la cantina e ti dò un paio di guanti e una tuta vecchia; vedrai che ci sarà un sacco di polvere" - chiosò la mamma che riattaccò prima che le rispondessi. Avrei voluto dirle che sapevo da sempre che le chiavi venivano messe dentro un pertugio ricavato dallo spostamento di una mattonella. Sembrava il segreto di Tutankhamon ma probabilmente lo sapeva tutto il condominio...

Entrai in cantina, dopo essere sceso nel sottosuolo, come il commissario Mènardier quando era alla spasmodica ricerca di Belfagor, la miniserie televisiva francese in bianco e nero, che terrorizzava noi bambini dell'epoca.
Intanto, dall'esterno, erano ben conservati. Sapevo che, appena ne avrei aperto uno, i cassetti della memoria avrebbero divagato ripercorrendo, nell'immaginifico immaginario, stati d'animo sopiti ma non scalfiti.
Prendo il primo, a caso, e c'è scritto in grande "Superga". Mio padre non era granata; era oltre. Avrà assistito, a partire dal vecchio Filadelfia, fino in trasferta, a un miliardo di partite. L'ho visto commuoversi, incazzarsi, sbraitare, alzare i pugni alla Mondonico, non rivolgere la parola, abbattersi e risorgere. "Il Toro è il Toro" - diceva. Una delle poche volte che ha pianto in vita sua è quando, sedicenne, accadde, il 4 maggio 1949, l'incidente aereo. Alle ore 17:03 il Fiat G.212 della compagnia aerea ALI, siglato I-ELCE, con a bordo l'intera squadra del Grande Torino, si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica che sorge sulla collina torinese. Le vittime furono 31, nessun sopravvissuto.

Il Torino-Fiorentina era un classico. Partivamo il sabato, raggiungendo amici granata residenti nel capoluogo Piemontese, per poi ripartire dopo l'incontro. In quei novanta minuti, nonostante un gemellaggio indissolubile, ci odiavamo. "L'importante è non prenderci per il culo" - affermava. "So cosa vuol dire perdere e soffrire; e anche tu, come me, lo farai tante di quelle volte che ripartirai ancora più forte". Sapeva che, essendo malato di Viola, avrei contato molto di più, nel corso del tempo, le delusioni piuttosto che le gioie.
In Fiorentina-Torino lui andava nel curvino "con i miei fratelli", come li chiamava lui, e io, ovviamente, in Fiesole. Ci rincontravamo in Viale dei Mille alla gelateria Badiani: almeno uno dei due si sarebbe addolcito con la splendida crema chantilly.

Apro lo scatolone e, quasi a protezione del plico, trovo una pagina scritta con la sua "Olivetti lettera 32". 
"Filippo Juvarra - Basilica di Superga a Torino". Una delle opere più belle di Filippo Juvarra è la basilica di Superga, posta su una collina da cui si gode la vista di Torino, progettata a partire dal 1715. Si trattava di un progetto ambizioso, dal momento che essa avrebbe dovuto fungere da mausoleo per la famiglia reale. La chiesa, a pianta centrale, è costruita intorno a un corpo cilindrico, preceduto, come il Pantheon a Roma, da un monumentale pronao dalle forme classiche. La zona centrale, coperta da una cupola che richiama quella di San Pietro in Vaticano, è affiancata da due ali simmetriche sormontate da due campanili, con un impianto che rimanda alla romana Sant'Agnese in Agone; essi hanno la funzione di fondere, in un insieme unitario, la struttura della chiesa e quella dell'attiguo convento. Dal punto di vista stilistico, l'edificio è caratterizzato da un solo ordine gigante, scandito da paraste e impreziosito, lungo tutto il perimetro, da un elemento decorativo a balconata.
Non era solo calcio! 
Mi sembrava di essere il protagonista di Jumanji, film del 1995 diretto da Joe Johnston, interpretato, tra l'altro, da Robin Williams.
«Un gioco che sa trasportar chi questo mondo vuol lasciar»
Nella New England del 1869, i due fratelli Sproul, Caleb e Benjamin, si avventurano nel cuore della notte in un bosco e seppelliscono una misteriosa cassa sotto terra per poi fuggire spaventati. Cento anni dopo, nel 1969, il dodicenne Alan Parrish sente fra gli scavi di un'impresa edile un rullo di tamburi e ritrova la cassa. Aprendola, scopre un misterioso gioco da tavolo chiamato Jumanji, che porta a casa.

Sciarpe, gagliardetti, foto, ritagli di giornali. E poi libri, articoli (soprattutto di Ormezzano), biglietti usati e tanto tanto altro.
Riesco, in una piccola scatola di latta, a scorgere almeno una cinquantina di tori: di plastica, in ottone, in ceramica, di vetro, in cartongesso. Una sacco "di corna" spuntavano da ogni dove.
Vedo un inserto con una copertina blu con evidenziato "Giorno maledetto 15 ottobre 1967". 
"... moriva travolto da un’ auto Gigi Meroni. Era domenica e a Torino era scesa la sera. Il Torino aveva disputato in casa la quarta giornata del campionato di serie A, vincendo per 4 a 2 contro i blucerchiati della Sampdoria. Una partita vivace, bella. La “farfalla granata” non segnò ma diede il suo contributo con le giocate di classe che ne avevano fatto un idolo della nostra curva...".
La nostra curva, la chiamava!

"Tutto a postoooo?". Sentì una voce in lontananza e, lì per lì, ebbi timore. Ero talmente dentro quel mondo, quasi piacevolmente intossicato, che non mi accorsi che mia madre, dal balcone al secondo piano, voleva notizie sul documento. "Trovato?" - urlò. Ero intento a rispondere di si: avevo scovato molto di più. "Ancora no", le risposi, quasi schernendomi, "vai pure a fare il tuo giretto, così abbassi il diabete, che poi passi da me e ne parliamo".

"Alza il capo popolo granata, l'urlo della fede non lo puoi dimenticare. Volgi lo sguardo al futuro certo di essere degno del glorioso passato", un toro stilizzato, che piangeva lacrime di sangue, ricordava, forse ancora prima della tragedia, lo stato d'animo di ogni torinista che, rimanendo tale, sarebbe stato da traino ai nuovi beniamini da idolatrare.
Più scavavo e più trovavo autentici cimeli che non solo non ricordavo ma che pensavo di non aver mai visto. Ero diventato una sorta di rabdomante della storia conservata dal babbo. 
Bagigalupo, Ballarin, Maroso, Castigliano, Rigamonti, Grezar, Menti, Loik, Gabetti, Valentino Mazzola, Ossola. Non aprì quella scatola. Sapevo perfettamente cosa ci fosse. Quella cantilena ritmica non poteva essere oltraggiata: lasciai che "l'attaccaticcio" delle cartelline di plastica rimanessero tali.
Ne aprì un'altra e poi un'altra ancora. Speravo che nessuno mi chiamasse e soprattutto non tornasse mia madre. Non volevo, dopo il cambio della mitrale aortica, che avesse una così tanta emozione: un "coccolone" non me lo sarei perdonato.
Fogli su fogli: vecchie bollette, estratti conto, dichiarazioni Inps, scartoffie. E poi ancora libri, manoscritti, appunti fino a quando vicino a delle bottiglie di Brunello degli anni '70 (ma non era meglio berlo?), con una polvere che si tagliava letteralmente a fette, vedo scritto con un pennarello che, nel tempo si era sbiadito, cosa vedo?
Più che un involucro, sembrava una teca Eucaristica. "LA GIOIA. NASCITA DEL TORO. Castellini, Santin, Salvadori, Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Claudio Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici".
"... Era il Torino di Bearzot, di Danova, di Hitchens e del grande Ferrini, quello che si trovò tra le mani il neopresidente Pianelli alla vigilia del campionato 1962-63. Si respirava nuovamente aria di grande calcio, dopo gli anni cupi che avevano fatto da preludio alla prima, dolorosissima retrocessione del 1959. Sì, perché da quel tragico 4 maggio 1949 la squadra non era più riuscita a risollevarsi. Impossibile ricreare dal nulla una formazione vincente in una città sopraffatta dalla tragedia. Troppo grande il peso dei ricordi, delle responsabilità; troppo grande il dolore.
Insomma, dopo un decennio passato a vivacchiare a centroclassifica, tra farneticanti proposte di fusione con la Juventus, anche il povero Torino subì l’onta della B, logica conseguenza di un campionato giocato in pianta stabile lontano dal suo campo, al Comunale, uno stadio estraneo fino a quel momento alla storia granata. Finiva l’era del Filadelfia. Cominciava la sua leggenda.
Pronto quindi il ritorno nella massima serie, un campionato di assestamento, poi gli ingaggi di fuoriclasse turbolenti come Law e Baker, genio e sregolatezza, croce e delizia di una sola stagione. I due britannici non rappresentavano certo il prototipo del giocatore da Torino, notoriamente concreto, attaccatissimo alla maglia, disposto a sputar sangue per non disonorarla. Per quei colori ci voleva gente come Bearzot, o come Giorgio Ferrini, il Capitano, monumento ed emblema di tutto quello che il calcio granata rappresenta.
Pianelli era ambizioso, ma perfettamente conscio dei propri mezzi economici: non si sarebbe mai fatto trascinare in furibonde aste a suon di centinaia di milioni per strappare alla concorrenza il nome capace di eccitare le folle. Il definitivo ritorno del Torino nell’elite del calcio italiano si ebbe soltanto nella stagione 1964-65, che vide la squadra allenata da Rocco precedere finalmente al terzo posto la Juventus, dopo anni di patimenti.

Ma il fatto più rilevante fu l’acquisto del giovane Luigi Meroni dal Genoa. Gigi era la speranza per il futuro: anticonformista, vitale, estroso e dotato di un talento unico, pareva incarnare la “diversità” dell’essere granata in tutta la sua tragicità. Non avrebbe tardato a diventare l’idolo dei tifosi. Firmò altre due belle stagioni, deludendo a volte per l’incostanza, ma confermando di essere dotato di una classe unica, capace di realizzare reti strepitose, di fare impazzire l’avversario. Ma l’avventura del povero Gigi sarebbe finita all’inizio del campionato 1967-68. Fu travolto da un’auto in Corso Re Umberto, una domenica sera, mentre passeggiava con l’amico e compagno di squadra Poletti, dopo una bella vittoria per quattro a due sulla Sampdoria. Un nuovo, crudele gioco del destino chiudeva per sempre gli occhi tristi di quel giovane campione, l’unico che fosse stato capace di portare un alito di novità in un mondo ormai stantìo, con la sua stravaganza, con la sua voglia di essere libero, di essere un uomo prima che un calciatore. Un altro nome si aggiungeva a quelli degli eroi di Superga, altre lacrime bagnavano la storia del Toro. 

Quella 1968-69 è la stagione dei sorprendenti trionfi della baby-Fiorentina di Bruno Pesaola: una vittoria del coraggio, della fantasia e dell’abilità contro l’arroganza dei fantastiliardi delle poche, solite grandi. Il Toro non era poi così diverso dai viola, nell’organizzazione societaria, nella disponibilità economica e nell’attaccamento dei propri tifosi. Pianelli decise pertanto di imboccare la via già intrapresa dal collega Baglini, e inaugurò la stagione dei baby-granata. Ma non si sarebbe trattato di uno sterile plagio: l’armata dei giovani lanciati in maglia Toro avrebbe confermato il proprio valore per anni, mentre la Fiorentina non sarebbe più stata in grado di riproporsi ad alti livelli, dopo la magica annata dello scudetto. Fondamentale si rivelerà l’acquisto, nella stagione 1969-70, quella dell’incredibile Cagliari di Riva, del giovane Claudio Sala, colui che verrà ricordato dai tifosi come "il Poeta". Sulla panca granata si accomodò un allenatore rampante, Cadè, un tipo tranquillo e anticonformista per vocazione, che senza tanti giri di parole si presentò in questo modo: "Non posso anticipare se il Torino lotterà per la salvezza o per lo scudetto. Cercheremo di giocare un buon calcio e di fare spettacolo: ma non poniamo limiti alla provvidenza". Quanto ai tifosi, beh, nella salvezza ci credevano di sicuro, nello scudetto un po’ meno. Alla fine fu un settimo posto, condito da un derby vinto e da uno straperso, ma la soddisfazione di una Juve buggerata dai sardi ripagò in parte lo smacco.

L’anno seguente fu acquistato il promettente Castellini, portiere in forza al Monza. È fuori di dubbio che la dirigenza granata credesse ciecamente nel giovane, visto che ai brianzoli andarono in contropartita Pinotti, Mondonico, Facchinello e Giannotti. Cadè si dimostrò perplesso per le numerose cessioni, non controbilanciate da acquisti di sostanza: "Ringiovanire: sì, era doveroso farlo, ma non so davvero se, pur rinnovati, possiamo dirci più forti". Scontato che un tipo così pacato, così lontano dai facili proclami estivi, fosse destinato a conoscere magre fortune nel nostro calcio.
Intanto Sala, che la stagione precedente aveva disputato trenta incontri, scalpitava, desideroso di esplodere definitivamente. Il mister aveva le idee chiare, al riguardo: quel ragazzo, che pareva l’erede naturale del mai dimenticato Meroni, sarebbe stato il perfetto suggeritore per Bui e Pulici. Quest’ultimo era un giovane sbarcato alla corte granata nel 1967-68 rimasto lungamente dietro le quinte. Sulle sue qualità si nutrivano legittimi dubbi: 24 presenze nel 1969-70 e nessuna rete. Un bottino poco esaltante, per quello che doveva essere il terminale offensivo della squadra. In più, dopo un fallimentare provino, Helenio Herrera aveva detto di lui: "Sarebbe meglio si dedicasse ai cento metri…".
L’unico pronto a mettere la mano sul fuoco era invece proprio Cadè, deciso a rischiare il tutto per tutto pur di dimostrare le proprie teorie: "Più fantasia, più rischio, più coraggio, meno calcolo". Alla fine, però, Paolino deluse nuovamente le attese e dovette accontentarsi di un gramo bottino di tre reti. Meglio di lui addirittura fece l’amico Sala, che di mestiere certo non faceva la punta.
In totale, il Toro realizzò la miseria di ventisette gol. Alla faccia del rischio: a quel punto sarebbe mancata solo una difesa allegra, per volare in Serie B. Eppure, nonostante la sterilità offensiva, quell’anno i granata conquistarono una Coppa Italia, ai rigori contro il Milan. Incredibilmente, il buon Cadè fu silurato pochi giorni prima della finale. Bisogna dire che già da tempo si sapeva che il suo posto sarebbe stato preso da Gustavo Giagnoni, ma tanta premura parve ai più davvero eccessiva e ingiusta nei confronti di un tecnico serio e competente.

L’avvio della stagione 1971-72 vide un Pianelli più battagliero del solito: "Pretendo che mangiate l’erba, che usciate dal campo a testa alta, con le maglie intrise di sudore. Non voglio più sentire nessuno lamentarsi, non voglio discussioni contro questo o quello. Entrate in campo e fate il vostro dovere fino in fondo. E niente vittimismo se qualche volta le cose andranno storte". C’era fermento, in casa granata: si capiva che il momento di godere dei frutti di quasi dieci anni di duro lavoro non potesse essere così lontano. I ragazzi del vivaio stavano maturando e lo stesso Pulici sembrava ormai vicino alla zona-esplosione, nonostante le riserve espresse sul suo conto dal tecnico sardo: "Stia attento, Pulici, perché alle sue spalle può esserci un Bui".
Fu un campionato incredibile: alla fine dell’andata il Toro si ritrovò settimo, staccato di sei lunghezze dalla Juve capolista. In più, nel primo derby della stagione, i granata le avevano prese. Ma il bello doveva ancora venire: grazie a un prodigioso recupero, i ragazzi di Giagnoni si inserirono a sorpresa nel vivo della lotta per il titolo. Alla ventiseiesima, addirittura, fu portata a termine l’operazione sorpasso ai danni dei cugini zebrati.
I tifosi cominciarono a sognare, seppure col disincanto che da sempre distingue il supporter granata: finalmente una squadra col Toro sul petto onorava i caduti di Superga. Ma l’estenuante inseguimento aveva ormai sfiancato i ragazzi del "corsaro" Giagnoni. La domenica successiva ci fu il controsorpasso juventino, e da quel giorno le sorti del campionato sarebbero state saldamente in mano ai bianconeri. Alla fine, il generoso Toro sarebbe stato secondo, in compagnia del Milan, a un solo punto dalla vetta.
Occorre sottolineare che facevano già parte della formazione granata quattro elementi dell’undici che avrebbe conquistato il tricolore pochi anni più tardi: Castellini, Sala, Pulici e Lombardo. Sala, nonostante le frequenti difficoltà di collocazione in campo, era ormai un campione acclamato, un regista geniale dalla classe cristallina; Castellini si era rivelato un acquisto indovinato, Pulici era sempre tra coloro che sono attesi. Ma per Paolino era finalmente giunto il momento della consacrazione: Giagnoni, che tanto aveva lavorato per disciplinare tatticamente e tecnicamente quell’acerbo campione, lo inventò ala sinistra, da centravanti che era, scoprendo così la pietra filosofale. Da quella stagione in poi, Pulici sarebbe stato noto alle difese di tutta Italia come "Puliciclone". Diciassette centri, per lui, nel 1972-73, che gli valsero il titolo di capocannoniere in compagnia di Rivera e Savoldi. In più, l’esordio in azzurro. Nonostante le prodezze del bomber tanto atteso, il campionato dei granata non fu all’altezza delle aspettative, e la zona-titolo non fu avvicinata neppure per sbaglio. I tifosi non si raccapezzavano: si favoleggiava di migliorare l’organico, di puntare alle zone nobili della classifica; poi l’acquisto-bomba per il 1973-74 fu un ragazzino di vent’anni, un tale Francesco Graziani attaccante, proveniente dall’Arezzo, Serie B. I dirigenti avevano visto nuovamente giusto: quel ragazzo venne preso sotto l’ala protettrice di Giagnoni e dei "vecchi" della squadra, come Ferrini, che ne intuirono subito le straordinarie qualità. Il tecnico sardo, che si era reso conto delle potenzialità dei giovani, decise di non bruciarli, per cui evitò di gettarli nella mischia fin dalla prima giornata. E poi, Graziani andava tenuto d’occhio: fidanzato con una ragazza di Arezzo, aspettava solo una distrazione da parte dei cerberi granata per tagliare l’angolo; in più era un po’ rotondetto, e anche la sua linea andava controllata. I primi mesi sotto la guida del Corsaro furono traumatici, per quello che sarebbe presto diventato il Ciccio nazionale.
Ma oggi Graziani ricorda Giagnoni con affetto e stima: fu lui a farlo esordire in campionato, contro la Sampdoria, nel novembre del 1973. Gli affidò la maglia numero 7 e, viste le lamentele del giovane, abituato al 9, sbottò: "Tu andrai in Nazionale e ci andrai con la maglia numero 7". Fatto che puntualmente si sarebbe avverato. Malauguratamente, le cose per il Toro si misero maluccio, e in seguito a un pesante tre a zero beccato a Milano dall’Inter, mister Colbacco fu sostituito da Edmondo Fabbri. In più, al termine di un incontro precedente, il focoso Agroppi, che non perdeva occasione per far cagnara, era quasi venuto alle mani con un gruppo di tifosi, per cui si trovava nei guai con la commissione disciplinare. Il povero Mondino si trovò quindi catapultato in una situazione bollente, il giorno dell’esordio sulla panchina granata contro la Sampdoria. Ovviamente le cose potevano soltanto precipitare, a quel punto. L’incontro si concluse uno a uno, ma i tifosi torinesi, scontenti dell’arbitraggio, a fine gara provocarono violentissimi incidenti con le forze dell’ordine, che costarono una giornata di squalifica al Comunale.
Nella gravità del momento, però, i giocatori fecero quadrato, a riprova dell’attaccamento a quella gloriosa maglia. Alla fine, nonostante le tribolazioni patite, il vecchio Toro trovò un onorevole quinto posto. Inoltre, il giovane Graziani aveva dimostrato di saperci fare: sei reti erano un bottino di tutto rispetto, per un esordiente. Implacabile davanti ai portieri si confermava intanto Pulici, bomber principe dei granata con quattordici centri.

Quello 1974-75 fu un campionato interlocutorio, che vide però affermarsi in prima squadra un altro giovane di valore, Zaccarelli, destinato a diventare una vera e propria bandiera. Oltre a Pulici, anche il ragazzino prelevato dall’Arezzo confermò le buone impressioni suscitate la stagione precedente: alla fine furono trenta le reti per i "gemelli del gol". Grande merito ebbe Fabbri, che trovò la definitiva sistemazione a Claudio Sala: gli affidò la maglia numero 9, ma i suoi reali compiti furono di appoggio ai due arieti che, ispirati dal grande regista, esplosero fragorosamente. Che la squadra fosse pronta per l’impresa, si capiva. Mancava solo qualche ritocco, magari anche un nuovo manico.
A sostituire il buon Mondino fu chiamato un tecnico emergente, un giovane che si era fatto una certa fama allenando il sorprendente Cesena, ma che veniva da un’avventura dai risvolti amari a Cagliari: Gigi Radice. In Sardegna era riuscito nella miracolosa impresa di salvare una squadra ormai soltanto lontana parente di quella che aveva vinto il campionato pochi anni prima, ma il benservito riservatogli dalla dirigenza lo aveva scottato. Il tecnico lombardo si presentò nel capoluogo piemontese senza proclami, quasi in sordina. L’obiettivo non dichiarato era il secondo posto, perché i cugini bianconeri apparivano, in tutta onestà, inavvicinabili. Radice, dopo una rapida occhiata all’organico, capì di avere una grande squadra per le mani. Al presidente chiese soltanto due uomini: un difensore e un centrocampista. Detto fatto. Dal Bologna arrivarono il ruvido Caporale e l’imprevedibile Pecci. Come parziale contropartita agli emiliani fu ceduto Cereser, 13 anni di militanza Toro, una bandiera. Ma la campagna cessioni non si arrestò, e coinvolse proprio i giocatori simbolo, i più amati dai tifosi. Addirittura Ferrini, il grande capitano, ammainò il vessillo di una vita, dopo 16 anni dedicati alla causa granata, e lasciò il Toro proprio nella stagione della massima gloria. Anche quel "maledetto toscano" di Agroppi se ne andò, dopo aver trascorso otto anni a Torino. Gli uomini chiesti da Radice si rivelarono i più indicati per fare grande una squadra da troppi anni in incubazione: Caporale, ferito dall’esperienza bolognese, era in cerca di rivincite, quindi motivatissimo; Pecci, superbo uomo di regia, matto come un cavallo, avrebbe permesso di dirottare il "poeta" Sala in altre zone del campo. A una delle prime sedute di allenamento, Eraldo, eterno guascone, si rivolse al tecnico con queste parole, fingendo di piagnucolare: "E se qualcuno mi marcherà, che cosa farò?". E il mister, che già si era guadagnato la fama di essere un duro: "Ad attaccare ci vai tu, così da aggredito diventi aggressore". Questo concetto, apparentemente semplice, racchiudeva l’essenza del gioco propugnato dal "prussiano" Radice: un calcio moderno, che aveva come modello la grande Olanda di quegli anni, dell’immenso Cruijff e del calcio totale, antesignano del moderno pressing. La stagione del Toro non iniziò nel migliore dei modi: subito fuori dalla Coppa Italia, sconfitti alla prima di campionato a Bologna. Ma i ragazzi di Radice non erano attanagliati dall’ansia di successi, e delle iniziali battute d’arresto non fecero un dramma. La forza del Toro stava nello straordinario gruppo, in cui convivevano generosi gregari, come Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Santin e Gorin II, raffinati esteti come Claudio Sala e Pecci, un centrocampista d’assalto come Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i "gemelli" Pulici e Graziani. In più, Castellini, un estremo difensore di grandi qualità. A fare da collante a questo incredibile collettivo, un allenatore coraggioso, con idee assolutamente innovative per il calcio italiano.

La rincorsa allo scudetto partì quindi alla seconda giornata: scontato che la squadra da raggiungere fosse proprio la Juve. Un titolo vinto su un avversario diverso avrebbe avuto meno gusto, d’altronde. Ma ci fu un momento in cui i bianconeri apparvero soltanto come un puntino all’orizzonte. Cinque punti di distacco alla ventunesima giornata avrebbero scoraggiato anche i meglio intenzionati, ma non il Toro, forgiato a immagine e somiglianza dell’allenatore. I giocatori, poi, non si sottrassero mai alla pugna, fieri di indossare la maglia che era stata della squadra più forte di tutti i tempi.
Pulici e Graziani, cosi uguali e così diversi, imperversarono per le difese avversarie, innescati dai geniali lanci provenienti dai piedi fatati di Sala e Pecci, nel tentativo di riuscire nella missione apparentemente impossibile di agguantare la zebra per la coda. "Puliciclone" meglio degli altri riuscì a incarnare lo spirito Toro; sanguigno, istintivo, non si dava mai per vinto: "Ogni pallone per me era una specie di guerra. Non conoscevo mezze misure e rifiutavo l’idea che si potesse giocare badando a mantenere il risultato". Ovvio che quel ragazzo fosse l’idolo della Maratona, la curva dei tifosi granata. Alla ventiduesima partì finalmente l’inattesa riscossa del Toro: i bianconeri si concessero un grave passo falso a Cesena, proprio alla vigilia del derby, mentre il Torino stendeva la Roma. Sotto la Mole, la Vecchia Signora fece harakiri: due a uno per il Toro grazie alle autoreti di Cuccureddu e Damiani. Quell’incontro sarebbe poi stato annullato dal giudice sportivo, che avrebbe assegnato il due a zero a tavolino per i ragazzi di Radice. Questo non cambiava comunque la sostanza dei fatti: nel giro di due giornate i granata si trovarono a sbuffare vapore sul collo dei cugini, ormai completamente in preda al panico. Addirittura, già la domenica successiva ci fu il tanto sospirato sorpasso: la Juve cadde sotto i colpi dell’Inter, mentre Graziani e Garritano infilzavano il Milan. E il Toro tenne la testa della classifica fino all’ultima giornata, conservando un esiguo punto di vantaggio, che non permetteva quindi calcoli di sorta, per la gara conclusiva col Cesena. A semplificare le cose provvidero i cugini bianconeri, che caddero a Perugia: un sofferto pareggio casalingo con gli ostici romagnoli fu sufficiente a consegnare all’armata di Radice il settimo, tanto atteso titolo. Il pubblico non invase il campo, ma rimase ad applaudire compostamente gli eredi dei Più Grandi. Sugli spalti tanti piansero, quel giorno: 27 anni dopo Superga, sulle maglie granata era fiorito nuovamente il tricolore".

Mi cadevano le lacrime...
Non so nemmeno se lessi tutto poiché ogni passaggio lo riportavo sulla mimica della faccia di mio padre. 
Si era fatto davvero tardi e le mani erano talmente nere che sembravo il personaggio di "Cam-caminì, cam-caminì, spazzacamin allegro e felice pensieri non ho...".

Gianni Brera, il papa o il papà di ogni giornalista, diceva che "Il calcio è straordinario proprio perchè non è mai fatto di sole pedate. Chi ne delira va compreso, non compatito; e va magari invidiato. Il calcio è davvero il gioco più bello del mondo per noi che abbiamo giocato, giochiamo e vediamo giocare".

"Ti fermi a pranzo?" - si affacciò sull'uscio la mamma. "Ti ringrazio ma preferisco andare a casa per fare una doccia e riordinare mente e materiale che porto via con me".
"Trovato?" "Cosa?", le risposi. "Come cosa: la lettera" - mi rimproverò come quando ero piccolo. "Ah, già la lettera. No, tornerò un altro giorno".

Misi in auto tutto quello che ero riuscito a racimolare. Rientrando a casa vidi un piccolo quadretto con la foto del babbo che aveva inviato a Tuttosport, insieme alla copia della sua tessera del Toro Club di Firenze, che lo ritraeva per l'invasione di campo che fece il 13 giugno 1999 in occasione della promozione in serie A.
Venne pubblicata: "un fiorentino alla conquista del Delle Alpi" - scrissero in sede di presentazione.
Aveva scelto una foto simbolica, anche in considerazione dell'età, per ribadire che il Toro è il Toro.
Adesso è appesa nel mio studio.
Ho capito dopo molti anni, quando non ho potuto dirglielo, cosa fosse l'identità; consiste nella coerenza di ciò che si fa e di ciò che si pensa. Soprattutto nelle sconfitte, anche della vita.

In fondo, se il ricordo è il tessuto dell'identità, la personalità era per mio padre ciò che il profumo è per un fiore.

"Ricordati la lettera!". Va bene babbo...