Mettiamo per un attimo da parte la nostra fede calcistica e accendiamo la TV: ci sono gli ottavi di finale di Champions League, Real Madrid – Rosenborg. Inevitabilmente, e inconsciamente, prendo le parti del Rosenborg, sarei molto più felice se passassero loro al posto del solito Real Madrid. E so che anche per voi è così. Perché in fondo ci piace credere che ogni tanto, quantomeno nello sport, può vincere chi è meno ricco, chi spende di meno, chi è dalla parte più debole. Talvolta, per fortuna, l’imprevedibilità di questo sport ci regala delle bellissime favole; il più delle volte, però, vincono (o comunque se la giocano per vincere) i più forti, i top club con le proprietà più ricche. Da alcuni anni, tuttavia, questo squilibrio è stato acuito dal Fair Play Finanziario, un complesso di regole introdotto nel 2011 per disciplinare la gestione economica e finanziaria dei club europei, riducendo deficit e indebitamenti per promuovere delle gestioni più virtuose, basate sul semplice concetto di “non spendere più di quanto si guadagni”, declinato nella principale imposizione del Fair Play Finanziario, quella del pareggio di bilancio (break even rule), che, dal 2013, richiede ai club di bilanciare spese e ricavi.

Il calcio europeo, una decina di anni fa, versava in una situazione finanziaria disastrosa, con un deficit stimato in 1.7 miliardi di euro, evidenziando la necessità di ricorrere ad un quadro di norme di riferimento in grado di evitare fallimenti e situazioni di crisi societarie. Non c’è dubbio che l’intervento realizzato con il Fair Play Finanziario abbia favorito politiche di gestione più sostenibili, aiutando alcuni club a risanare situazioni di squilibrio finanziario.
Allo stesso tempo, tuttavia, il Fair Play Finanziario ha “fotografato” la situazione in un determinato momento storico (2011), comportando una netta divaricazione tra i club in quel momento più vincenti e tutti gli altri, vincolati al rispetto di regole che hanno permesso loro di rimanere a galla, ma non di svilupparsi ulteriormente per avvicinarsi ai top club.
Peraltro, è palese come i campionati europei partano da basi diverse: se un campionato come la Serie A incassa 1 miliardo (scarso) dai diritti TV, la Premier League ne incassa circa 6. Il punto di partenza è per forza di cose differente, ed è parecchio impraticabile pretendere il rispetto di un sistema di regole omogenee che non tengono conto di queste difformità, perché l’uguaglianza non deve essere solo formale, ma anche sostanziale, nel senso che i casi uguali vanno trattati in modo uguale, ma i casi diversi vanno trattati in maniera diversa.
È un circolo vizioso, positivo o negativo a seconda della prospettiva.
Facciamo un esempio: la Juventus, una squadra che in quegli anni si trovava in un momento storico di successi sportivi, ha potuto beneficiare di questi risultati, con un incremento dei ricavi che ha permesso di aumentare l’appeal del club e sostenere l’acquisto dei migliori giocatori (considerando che l’investimento per lo stadio è escluso dalla lente di ingrandimento del Fair Play Finanziario). Allo stesso tempo, prendiamo un esempio opposto: una società come l’Inter, che veniva sì dalla vittoria del Triplete, ma da una situazione ormai discendente, con un imminente cambio di proprietà e scarsi investimenti, è entrata in un circolo vizioso negativo: senza la possibilità di investire (per rispettare la regola del pareggio di bilancio) non è riuscita a raggiungere un obiettivo minimo che avrebbe garantito maggiori ricavi (l’ingresso in Champions League); senza l’appeal della Champions, non poteva permettersi di acquistare i migliori giocatori (nonostante la proprietà avesse la disponibilità per farlo), e, dunque, si è trovata risucchiata in un limbo di mediocrità da cui solo adesso sembra riuscita ad uscire.

Se questo non bastasse, va aggiunto che il rispetto delle regole, solitamente, si ottiene sanzionando in maniera efficace ed effettiva ogni violazione delle stesse: solo in questo modo “la legge è uguale per tutti”. Evidentemente, gli organi preposti al controllo del Fair Play Finanziario non hanno adottato questo principio, ma, al contrario, rifacendosi al romanzo di George Orwell, hanno pensato che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, permettendo ad alcune società di aggirare le regole senza essere punite. Due esempi su tutti: il Manchester City ha ceduto i naming rights del proprio stadio alla Etihad, stipulando un accordo di circa 400 milioni di euro per 10 anni. Per la cronaca, Etihad è la compagnia aerea degli sceicchi di Abu Dhabi, proprietari del Manchester City stesso. Il secondo esempio è quello del Paris Saint-Germain, che, per finanziare le folli spese sul mercato, ha sottoscritto un accordo di sponsorizzazione con la Qatar Tourism Authority per la modica cifra di 600 milioni di euro. Indovinate un po’: il proprietario del Paris Saint-Germain, Nasser Al-Khelaifi, è lo sceicco del Qatar. Le sanzioni sono state minime e insignificanti: ad esempio, la multa di 60 milioni di euro è pagabile in 3 comode rate annuali. Senza contare le numerose plusvalenze fittizie (pratica abbastanza diffusa anche in Serie A) utilizzate per gonfiare i bilanci e rientrare così nei paletti del Fair Play Finanziario.

L’UEFA, quindi, ha deciso che l’uguaglianza nel rispetto delle regole deve rimanere soltanto uno slogan formale, nella sostanza le differenze permangono, polarizzando il divario tra i top club, ricchi ieri, e ancora più ricchi oggi, e tutti gli altri, che continuano a barcamenarsi nel complesso percorso di risalita ai vertici. E così, se una società come il Milan viene acquistata da un fondo che gestisce 35 miliardi di euro, che ha intenzione di investire, non può farlo, perché il vincolo del pareggio di bilancio lo impedisce, e se decide di investire ugualmente, a differenza del PSG, le sanzioni (come l’esclusione dalle competizioni UEFA) sono ovviamente più pesanti. Il ricorso presentato dal Milan al TAS di Losanna (naturalmente accolto) ha segnato la strada, mostrando le crepe di un sistema imperfetto come il Fair Play Finanziario, in cui la contraddizione più grande risiede nella limitazione alla capacità di spesa: il principio per cui se si hanno capitali da investire in una società di calcio, non lo si può fare liberamente, è un vincolo alla libertà di iniziativa economica troppo stringente. Ed è molto probabile che, se una società decidesse di ricorrere non più ad un Tribunale sportivo, ma ad uno ordinario, il sistema del Fair Play Finanziario sarebbe seriamente a rischio.

Ci sono diverse proposte che potrebbero apportare a questo complesso di norme maggiore flessibilità ed equità sostanziale, come ad esempio tassare club che superano determinate soglie di spesa (luxury tax), oppure imporre un tetto massimo ai salari (salary cap), in stile NBA. L’inefficienza del sistema si rende evidente nel momento in cui solo la violazione delle regole stesse permette di raggiungere dei risultati e intraprendere un ciclo positivo e virtuoso, sia dal punto di vista sportivo che della sostenibilità economica.
Non c’è dubbio che ci sia qualcosa di strano: le regole non devono ostacolare le possibilità di sviluppo e di crescita, ma devono stabilire i confini entro i quali la nostra iniziativa può esprimersi liberamente. Un sistema come il Fair Play Finanziario necessita di regole e sanzioni condivise ed effettive: del resto il “Fair Play”, nella sua accezione più stretta, significa proprio “gioco leale e corretto”, conoscere le regole, rispettarle e accettarle.
E poi godersi lo spettacolo del calcio in tutta la sua semplicità e imprevedibilità, dove anche il Rosenborg può eliminare il Real Madrid. E a noi piace così.