Non so voi, amici milanisti, ma io sento questa vittoria molto più di tante altre! 
In oltre 35 anni di tifo milanista, sono stato fortunato nel vedere arrivare, e ahimè partire, tanti campioni. Ricordo ancora, come fosse ieri, il mio primo Milan, con Hayley e Wilkins. Ricordo ancora l'acquisto di Donadoni, il primo vero acquisto degno di nota. Correva l'annata 1986-87.
E da lì inizio un trentennio di vittorie, tra scudetti, coppe campioni, intercontinentali e supercoppe. Francamente, ho perso il conto. E le vittorie arrivavano così copiose che mi ero assuefatto.

Questo scudetto però ha un sapore diverso, di vera vittoria, di conquista. Uno scudetto epico. Figlio dei sacrifici, dei rospi mandati giù in un sol boccone.
Figlio dei trionfalismi juventini. Dei mercati oculati. Figlio dei bilanci al ribasso, dei giocatori lasciati partire a parametro zero piuttosto di farsi mettere i piedi in testa e dei giocatori non presi perché sforavano i parametri auto-imposti.
Ma soprattutto, figlio dei vari #PioliOut.
Dei vari "scudetto dei bilanci" e "non si vince col bilancio apposto".
E dei vari "solo perché uno è un grande giocatore, non vuol dire che sarà un grande dirigenza".
Eh già. Per fortuna in società abbiamo gente competente e che non ascolta nessuno, non fa eccezioni, e soprattutto, non guarda in faccia a nessuno.

E allora, a chi penso quando guardo a questa stagione?
È troppo facile dire che questo è lo scudetto di Leao, di Theo di Ibra e Giroud. Io invece penso che questo è soprattutto lo scudetto dei "15 punti che ti porta Donnarumma"; per fortuna Maignan ne ha portati pure di più. È lo scudetto del cuore di Calabria. Dell'umiltà di Pierino Kalulu. Del coraggio di Tomori. Di Romagnoli, capitano buono e silenzioso e cha ha accettato la panchina come pochi avrebbero fatto. Del milanismo di Tonali. Della caparbietà di Benna. Della serietà di Frank che ha lottato fino all'ultimo minuto. Del sogno divenuto realtà di Messias. Della abnegazione di Krunic, giocatore ovunque - averne di giocatori così. Di Casti, poche presenze, ma che con un gesto ha dimostrato tutto il suo amore per il Milan: spense la luce nerazzurra e accese quella rossonera mentre usciva dallo spogliatoio dopo il derby di ritorno.

Al nostro buon Pioli, persona per bene, umile e con i piedi ben piantati per terra, dal cuore buono, tanto che il suo pensiero è stato chiamare la mamma e dirle che finalmente avevano vinto qualcosa da dedicare al papà.
Una persona che è riuscita nell'intento di entrare nella testa dei giocatori, diventando per loro non solo un allenatore, ma soprattutto un amico, un padre, un confidente, una persona su cui contare sempre e comunque. Insomma, diventando uno di loro. Come solo il buon Carletto riuscì a fare. Con la differenza che Ancelotti aveva una squadra di campioni a disposizione, mentre Pioli se l'è dovuta un po' costruire e un po' inventare.

E anche a Gazidis, che dopo una partenza all'insegna della squadra "young", fatta di soli under 23, talenti da scovare in anticipo, formare in casa e all'occorrenza vendere per risanare le casse, si è attorniato di gente come Maldini, Massara e Moncada che gli hanno fatto capire l'importanza di avere in squadra giocatori dal peso specifico rilevante.
E così, mentre si faceva arrivare in squadra gente giovane e promettente come il diciannovenne Leao, come il panchinaro Theo, come il grande cuore rossonero di Tonali, e come il capolavoro Kalulu, gente su cui nessun altro avrebbe scommesso e il cui arrivo ha fatto storcere parecchi nasi, venivano accolti anche gente come Zlatan Ibrahimovic, Simon Kjaer e Alessandro Florenzi. Campioni veri, che sono riusciti ad aiutare Pioli dal punto di vista dell'etica lavorativa, dell'impegno, dell'esperienza internazionale e soprattutto della mentalità. Tutte qualità che è difficile, se non impossibile, avere quando sei ancora in giovane età. Ibrahimovic, in particolare, è perfino riuscito ad avvicinare ancora di più Gazidis alla squadra, specialmente quando nel giugno 2020 lo ha confrontato a muso duro chiedendogli dove era stato negli ultimi mesi di assenteismo. E che soprattutto ha creduto in Pioli e dato il ben servito a Rangnick; thanks, but no thanks. E per fortuna.

Ed infine al nostro grande direttore Paolo Maldini, che ha accettato una scommessa, mettendoci non solo il suo prezioso tempo, la sua conoscenza del mondo calcistico, la sua esperienza, moralità ed etica, ma anche e soprattutto la faccia.
Perché prendere in mano un Milan in condizioni disastrate, come fece lui, e dopo una carriera gloriosa e unica come la sua, non è proprio da tutti: uno probabilmente si chiederebbe "Chi me lo fa fare?". Non Paolo, non lui, perché lui ed il Milan sono una cosa sola. E spero tanto abbia dedicato questo trofeo al suo papà, il nostro grande Cesarone: Paolo, penso proprio che papà sarebbe davvero orgoglioso di te.