Era il maggio del 2007. A breve, tempo due mesi, mi sarei diplomato dopo cinque anni di liceo Socio-Psico-Pedagogico. Un periodo dunque in cui cominciavo realmente a pensare cosa fare della mia esistenza, della vita adulta che era prossima ad arrivare. Ma particolare anche da un punto di vista sportivo. Quel maggio infatti sancii la fine di quello che potremmo definire come un ciclo. Una serie di quattro stagioni in cui la mia squadra di pallacanestro vinse altrettanti titoli consecutivi. In quel maggio in particolare, vincemmo il quarto titolo da imbattuti nella regular season, se vogliamo chiamarla così, e con appena una sconfitta nelle serie dei playoff. Un anno straordinario nel nostro piccolo insomma, ma anche un anno che sanciva la fine definitiva di un bel gruppo di compagni e amici. Mossi da una giusta ambizione infatti, molti di essi decisero di cercare di fare un piccolo salto per la loro giovane carriera. Dei tredici che avevano dato vita a quella piccola epopea di vittorie, ben 8 cercarono fortuna in società più blasonate.
Nel mio piccolo, anche io avevo ricevuto un paio di offerte da squadre avversarie ambiziose, ma preferii rimanere. D’altronde, la polisportiva per la quale avevo sempre giocato era stata fondato da uno dei miei nonni. Il pensiero di non giocare più in quel palazzetto, che ne porta ancora oggi il nome, mi urtava alquanto. Rimasi dunque, e in quella squadra giunsero diversi giocatori provenienti dalle compagini giovanili. Sebbene rivoluzionati nell’organico, insieme a coach Daniele ci appropinquammo allora a una nuova stagione, mossi da grandi speranze e da una terribile abitudine, la peggiore: quella di vincere

Quello che seguì fu forse il campionato più difficile, mai affrontato nella mia giovane carriera. Essendo una squadra completamente nuova, trovare i ritmi e le sinergie fu un processo lento, fatto di errori e continui ostacoli. Nel girone di andata, ben quindici match, ne vincemmo appena sei. Le squadre sopra di noi in classifica correvano, mentre noi arrancavamo alle loro spalle. Passata la metà della stagione, l’unico obiettivo realmente perseguibile divenne l’ultimo posto disponibile per l’accesso ai playoff, l’ottavo. Obiettivo che purtroppo ci dovemmo giocare sino all’ultima giornata della regular, giocata per altro tra le mura amiche e con un bella affluenza di pubblico. Perdemmo di sole due punti, ma nel modo peggiore. Classico tiro della domenica da 3; tabellone, ferro, canestro, sirena. Per quanto si trattasse di un mero campionato giovanile, per tutti, sottoscritto compreso, fu uno shock. Nessuno degli obiettivi raggiunti, fallimento totale. Dove alcuni miei compagni, tra i più giovani in particolare, reagirono con lacrime di delusione, io abbandonai il parquet nel silenzio e con un desiderio. Quello di dimenticare. Troppo abituato a vincere com’ero, presi quella stagione maledetta con un mero fallimento personale e di squadra. La vittoria, droga beffarda, mi aveva assuefatto e mi ci volle un pò, prima di capire che lo sport, sebbene veda la vittoria come uno dei suoi obiettivi, non è il più importante. Si può perdere quando si fa sport, eccome se si può. Per quanto sia ovvio, io me ne ero dimenticato e per questo emotivamente la pagai cara.

Come ho detto, ho cercato di dimenticare, ma inutilmente.
Sono passati anni, eppure il ricordo di quel campionato non mi ha mai abbandonato, anzi continua periodicamente a tornare. Proprio ieri sera, al termine di Juventus - Milan, ennesima sconfitta per il club rossonero di cui sono un fedele praticante, è tornato a pungere con maggior cattiveria. Una squadra affaticata, abbandonata alla propria confusione, con i risultati negativi a tediare le incalcolabili nottate insonni. E l’obiettivo, quello di partenza, la Champions, lontano anni luce, irraggiungibile. Il deja-vù perfetto, si potrebbe dire ironicamente, per la mia personale esperienza. Perché in quella stagione maledetta di oltre dieci anni fa, la mia squadra visse la stessa identica cosa, sebbene priva di stipendi sontuosi e con ambizioni ben diverse. Una stagione iniziata nell’illusione e preparata in una fiducia mal riposta. Un campionato immaginato tra fasti e vittorie, e per questo preparato male, sia mentalmente che fisicamente. Esattamente come capitò a me e alla mia squadra, in quel finir di estate di tanti anni fa. 

Riprendendo il discorso, giunti alla metà di quella stagione, dove le sconfitte superavamo quasi nettamente il numero delle vittorie, capimmo infine di aver sbagliato tutto. Fu così che nella pausa natalizia, che da noi durava circa un mese, ci mettemmo giù a lavorare duro. Ricominciammo tutto da capo, eliminando schemi e tattiche inutili, raddoppiando gli allenamenti quando possibile, ripassando i fondamentali come i bambini del mini-basket e cercando uno stile di gioco semplice. Ben 12 punti ci dividevano dall’ultimo posto disponibile per l’accesso ai playoff, ovvero ben sei vittorie e altrettante sconfitte avversarie. Le prime quattro giornate di ritorno furono giocate al cardiopalma, ma alla fine si tramutarono tutte in vittorie. Qualcosa era veramente cambiato, finalmente eravamo diventati un qualcosa di più simile a una squadra. Non guardavamo più alla classifica, ma affrontavamo ogni partita partendo dallo zero a zero, come se ognuna di esse fosse una finale. Ma soprattutto, avevamo cominciato a riapprocciarci allo sport nella maniera giusta. Finalmente non c’era più il pensiero di portare a casa il risultato, ma di giocare prima di tutto, e giocare bene. Non c’erano più avversarie imbattibili, almeno nelle nostre teste, così come avevamo dimenticato l’illusione, avuta in partenza, di essere imbattibili. Fu così che un campionato disastroso, si tramutò in una stagione di rinascita, in una stagione di fede assoluta nelle nostre capacità, nel nostro amore per lo sport e la sua capacità di migliorarci, sul campo e nella vita. 

Chissà che ciò non possa capitare anche a questo Milan ferito e sfiduciato.
Chissà che la partita di ieri sera nella quale, per buoni sessanta minuti, quei ragazzi tinti di rosso e di nero hanno dato l’impressione di giocare, senza tener conto di chi avevano di fronte. Senza aver paura di una squadra che ha vinto annichilito il campionato per anni, che ha sfiorato la champions diverse volte nelle ultime stagione. Senza aver forse quella maledetta convinzione che, solo per i colori che indossano, la vittoria spetti loro di diritto.
Il ciclo del grande Milan è infatti finito diverse ere geologiche addietro ed è ora di ricominciare.
Ricominciare da dove e come è giusto farlo, ovvero dal fango delle fondamenta, con sudore, olio di gomito, ma soprattutto passione. Per quanto infatti il risultato finale sia spiacevole, per la prima volta in questo campionato disastroso, un plauso è doveroso. E sono sicuro che, se questo spirito verrà riproposto nel prossimo futuro, non sarà l’unico di questa stagione. Come andrà a finire poi, forse bisognerà farsene una ragione già da adesso. I punti da recuperare in effetti non sono infiniti, ma a dividere questa squadra dall’obiettivo è ben altro e ben più pericoloso. Pazienza, perché non tutti i mali vengono per nuocere. Un po’ come il vaso di Pandora dal quale uscirono le piaghe di questo mondo infatti, dietro di essi si nasconde sempre un barlume di speranza che, se afferrato con forza e passione, può tramutarsi nel medio periodo in qualcosa di più.

A volte infatti ci vuole fede. Fede in una passione stupenda chiamata sport, la quale ci insegna che non è la forza a fare il risultato, non sempre almeno. Spero che questa sia dunque una stagione di fede assoluta.
Così come accadde molti anni fa dove, con un po’ di umiltà e tanta, infinita passione, una squadra giunta al termine di un ciclo ne creò un altro. E tornò a vincere dopo tre stagioni.