"Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta." "Il sentiero per il paradiso inizia all'inferno...".

Qualche giorno fa ho partecipato, tirato per la giacchetta, a un incontro in uno spazio all'aperto per parlare, oltre che di Serie A e, in subordine, di Fiorentina essenzialmente del duello finale tra il Milan e l'Inter che ha portato meritatamente lo scudetto alla società guidata magistralmente dall'ex tecnico viola Stefano Pioli.
È stato interessante fino a quando non sono "entrate in campo" le disquisizioni del "se". È diventata una noiosa contrapposizione sul "se avessimo vinto a Bologna" piuttosto che "se a Verona non avessimo recuperato" oppure "se a febbraio fossimo stati in palla ci sarebbe stato un altro finale". Un botta e risposta leggermente stucchevole che sembrava molto simile alle discussioni tra moglie e marito: "allora io ho fatto" del gentil sesso contro un "si, ma tu non ti rendi conto", la replica dello sposo.
Se la mi' nonna avesse le ruote sarebbe un carretto!
Alla fine ognuno ha la classifica che si merita. La Fiorentina, raggiunta la Conference League dopo la prestazione contro Lei, ha rappresentato una bellissima sorpresa per il campionato. Non voglio cadere assolutamente sul "se non avessimo buttato via la partita di Empoli" o "se a La Spezia la terna arbitrale non fosse stata bieca e cieca sul gol di Acerbi". Saremmo stati quinti e, automaticamente, in Europa League. Questi, secondo il mio modesto avviso, sono discorsi da bar e, come tali, devono durare quanto il tempo per prendere un ottimo caffè, magari fatto da quel grande esperto di Massimo48 (come sottolineato sul suo piacevolissimo ultimo articolo nel nostro blog) che, colgo l'occasione, saluto con affetto.
Non rende onore alle due società di Milano come tra l'altro ha fatto qualche giocatore rossonero esponendo uno striscione inutile e soprattutto maleducato. Prendere un'ovazione in più in un contesto festaiolo è stato veramente di basso profilo.
Ma chi sono davvero i Grandi, gli Eterni che hanno reso famoso il derby meneghino? Ma non è sempre meglio parlare del bello piuttosto che dell'ovvio? Alla fine negli almanacchi, anche mentali di ogni tifoso, deve necessariamente rimanere la giocata. Per questo si ricordano gesta e campioni di un tempo rimasti, come d'incanto, nell'immaginifico di ognuno.
Novanta minuti sul campo, tutto un anno dietro la scrivania; tanto dura il derby visto nella stanza dei bottoni. I giocatori passano, le società restano. E per la dirigenza, la supremazia cittadina non si gioca in una partita sola, ma nell’arco di una stagione, a partire dalla campagna acquisti estiva. Tra i tanti presidenti che hanno retto le sorti di Milan e Inter, due si sono distinti per l’oculatezza delle loro scelte: Andrea Rizzoli e Angelo Moratti. Editore il primo, petroliere il secondo. Entrambi con un amore indissolubile per la propria squadra, entrambi con i cordoni della borsa ben larghi ogni qual volta si rendeva necessario. 
Nei suoi tredici anni di reggenza (1955-1968) Moratti portò all’Inter Angelillo, Suarez, Firmani, Jair, tanto per citare i più famosi. Rizzoli rispose per le rime: Grillo, Altafini, Schiaffino, furono i colpi meglio riusciti. Un derby a distanza, il loro. Si poteva perdere lo scudetto, l’importante era giungere davanti ai rivali. Per qualche anno teatro della contesa non fu il campionato italiano, ma addirittura l’Europa e poi il mondo. Mecenati, è vero, ma mai ricchi scemi.
Solo due allenatori, nella storia delle milanesi, possono essere presi a simbolo di un’epoca: Helenio Herrera e Nereo Rocco. Con loro ogni impresa assumeva contorni da leggenda e con loro Milano dominò il mondo. Accomunati da un destino riservato a pochi tecnici: quello di avere un soprannome. "Mago" e "Paròn" erano profondamente differenti ma altrettanto profondamente simili. L'uno e l’altro sapevano, più di ogni altra cosa, sfruttare a dovere l’uomo ancor prima del calciatore. Tra i cartelli appesi ai muri da Herrera alle battute sdrammatizzanti e un po’ contadine di Rocco, la differenza era poca.
Due tecnici di grande spessore, due animali da spogliatoio, capaci di far rendere cento ciò che valeva dieci. Non si trovarono di fronte molto spesso, sulle due panchine di San Siro. Il loro bilancio nell’epoca d’oro, quella degli anni Sessanta, parla di un’assoluta parità, una vittoria per parte e quattro pareggi. Al di là dei risultati del campo, Herrera e Rocco giocarono un loro derby strettamente personale, basato sull’originalità e la fantasia dei personaggi. E non si può dire che questo derby speciale abbia avuto un vincitore.  
Giorgio Ghezzi, detto Kamikaze, arrivò all’Inter nell’estate del 1951 proveniente dal Modena, dopo che il vecchio Franzosi se ne era andato al Genoa per raccogliere gli ultimi spiccioli di gloria. L’allenatore Olivieri (uno che di portieri se ne intendeva) lo lanciò in prima squadra, alternandolo con il giovane Puccioni. Al suo primo derby, nella stagione seguente, Ghezzi si trovò di fronte Lorenzo Buffon, al quale verrà contrapposto nell’ambito di un dualismo che doveva coinvolgere tutti i protagonisti del calcio cittadino.
Nel 1958 Ghezzi lasciò l’Inter, che non lo vedeva più di buon occhio, approdando al Genoa, dal quale tornò presto a Milano, però sull’altra sponda. Il calendario, beffardo e maligno, mise di fronte le due squadre proprio in occasione del possibile debutto, il 6 novembre 1959. La settimana antecedente la sfida fu terribile: dalla tifoseria interista giunsero segnali di accesa contestazione e Ghezzi venne dipinto come subdolo Giuda, traditore. "Darei dieci anni della mia vita per giocare la partita più bella della carriera" - dichiarò alla vigilia. Mantenne le promesse, al punto da essere il protagonista dell’incontro.
Giuseppe Meazza di stracittadine di campionato ne giocò in tutto ventitré, ventuno da nerazzurro e le ultime due sul versante opposto. Erano i tempi in cui la parola derby non era ancora scritta nei vocabolari di italiano. Meazza viaggiava verso la trentina quando si fermò a causa del famoso "piede gelato". Il sangue aveva deciso di non circolare più nel suo destro e per un anno non potè giocare. Ritrovata l’efficienza, si vide però chiusa la porta in faccia dalla dirigenza nerazzurra, che non credeva nel suo recupero.
Per vendicare l’affronto subìto, Meazza vestì la maglia rossonera nella stagione 1940-41. Peppino non disputò il derby di andata, ma si presentò al secondo appuntamento in piena forma. Un'Arena stipata fino allo stremo tributò un lunghissimo omaggio al vecchio campione, che risentì dell’emozione per tutti i novanta minuti. Con il groppo in gola ispirò i compagni, colpi un palo, prima di siglare la rete del pareggio. Poco prima di morire dichiarò: "Mi vennero le lacrime agli occhi, avevo segnato alla mia Inter".
Aveva ventisette anni, il vigile scelto Gunnar Nordahl, quando nel gennaio 1949 scese in Italia. La sua destinazione originaria, in verità, era la Juventus. Prese la via di Milano come "biglietto di scuse" che gli Agnelli girano ai rossoneri per dissipare le nubi generate tra le società dopo il caso Pløger. 

"La Juventus, dopo aver perso Præst, virò su Johannes Pløger, furetto di un metro e settantadue, che poteva vantare una grossa esperienza maturata in otto anni di incontri a livello europeo con la maglia della Nazionale. Anche il Milan, però, era interessato al giocatore: la società rossonera era avvantaggiata rispetto ai bianconeri, avendo già inviato a Copenaghen il proprio segretario Giannotti, per far firmare un pre-contratto. Il dirigente milanista convinse Pløger al passaggio nelle file della sua squadra e, alla fine di dicembre, il danese si mise in viaggio per l’Italia. Durante il tragitto, a Domodossola, John Hansen incontrò l’ex compagno e gli fece presente che la Juventus era disposta a riconoscergli un ingaggio superiore a quello del Milan. Pløger nicchiò, consigliato dal suo legale (che, guarda la combinazione, si chiamava Hansen), in attesa degli sviluppi della situazione. Giunto a Milano, il giocatore trovò il dirigente milanista Busini e il collega juventino Giordanetti. Si scatenò, tra i due club, una battaglia senza esclusione di colpi: Busini offrì una cifra notevole (venticinque milioni), la Juventus rilanciò alzando il tiro di cinque milioni. Il Milan, irretito per l’indebita intrusione, in realtà perfettamente legale, dato che non esisteva ancora un impegno scritto, abbandonò l’asta, lasciando campo libero ai rivali".
Che tempi...

Ritorniamo a noi. Nordahl arrivò alla Stazione Centrale accolto da una folla impazzita, che lo voleva subito in campo: trascorsero solo quattro giorni prima che il "pompiere" fosse costretto a debuttare, nonostante un evidente sovrappeso. Contro la Pro Patria segnò subito un gol, ma l’impegno non era certo probante. Il 6 febbraio, primo derby. Le due milanesi giocavano per il secondo posto, lo scudetto era già preda del Grande Torino. Sul finire del primo tempo, punteggio 2-2, il "Vichingo" raccolse un pallone vagante al limite dell’area, e, facendosi strada con una spallata, puntò diritto verso la porta, lasciando partire un missile che Franzosi non si sognò nemmeno di andare a respingere. Passarono sette minuti nella ripresa, ed ecco un’altra incontenibile progressione conclusa con una micidiale bordata. Poco importa che poi l’Inter raggiunse il pari.
Mariolino Corso, ovvero la foglia morta, una preziosità stilistica dall’effetto mortifero. Dal cassetto personale dei ricordi legati alla stracittadina milanese: "Ogni derby ha un fascino unico. Ne ho giocati tanti, ma di due conservo dentro qualcosa in più. Innanzitutto il secondo del 1970-71, anno in cui vinsi il mio ultimo scudetto. Eravamo già in vantaggio grazie ad un gol di Mazzola, quando mi si presentò l’occasione di battere una punizione dal limite. Vidi che Cudicini aveva sistemato la barriera in modo non ideale (per lui, ovviamente). Non mi feci pregare, indirizzai nell’unico corridoio giusto e lo lasciai di pietra. La strada verso il titolo era aperta: sorpassammo il Milan e non ci facemmo più riprendere".

Il secondo episodio riporta la memoria ancora più indietro, ai favolosi anni Sessanta. La rivalità infiammava l’atmosfera, e ogni derby era una battaglia. "Non ricordo bene che anno fosse, ma battere i rossoneri era decisivo per le sorti del nostro campionato. Un giocatore del Milan, quel giorno, ce l’aveva con Suarez, non gli dava pace. A un certo punto, dopo un duro scontro a centrocampo, gli indirizzò un… complimento che coinvolgeva anche sua madre. Niente di drammatico, se non che Luis l’aveva persa da pochi giorni. Lo spagnolo reagì furiosamente, e io ne presi le difese. Morale, tutti e due negli spogliatoi. Ma questo era lo spirito di corpo che ci animava e ci faceva essere un blocco unico. Ne eravamo tutti orgogliosi".
Il 27 marzo 1960, giorno in cui va in scena il derby n° 132, Altafini è in Italia da un anno e mezzo. Lo chiamavano ancora "Mazola", nomignolo appioppatogli quando era ancora un promettente giovanotto nel Palmeiras. José era già affermato da noi: nel campionato precedente aveva segnato 28 reti, preceduto solo da Angelillo a quota 33. 
Quel derby non era un match-scudetto in quanto le milanesi si trovavano alle spalle della Juve in attesa di tempi migliori. Dopo tre minuti, "Mazola", orfano del guardiano Cardarelli, approfittò al meglio della libertà concessagli, ripetendosi al quarto d’ora con una folgorante azione solitaria da metà campo. Dopo il 3-0 firmato Carletto Galli, riprese il monologo dell’oriundo: lo spunto più spettacolare non fu premiato come di dovere, ma nel giro di pochi minuti José si riscattò con altre due reti in stile personale. Otto gol in tutto quel giorno, (il Milan vinse 5-3), ma i quattro davvero importanti furono i suoi. A partita finita, fuori dello stadio, il terribile mattatore trovò ad attenderlo una folla entusiasta. Una voce si levò più alta sulle altre: "Sei più potente di Kruscev". 

Per oltre dieci anni Milan-Inter fu anche, e soprattutto, Rivera contro Mazzola. Dall’esordio di Rivera si dovettero attendere quasi tre anni per vedere i due per la prima volta in campo contemporaneamente. La "prima" di Sandrino, non ancora Baffo, fu condita da un gol di ottima fattura. Da quel momento Milano e l’intera Italia calcistica si spaccarono: chi era per l’uno, doveva essere per forza contro l’altro; il calcio atletico contro il calcio pensato. La sfida personale faceva cassetta, i dualismi fanno sempre bene allo sport, sin dai tempi di Bartali e Coppi. La Nazionale, però, ne esce condizionata. Nasce una presunta incompatibilità tra i due in maglia azzurra, ben orchestrata da interessate campagne di stampa. L’apice fu raggiunto in Messico durante il Mondiale 1970; Valcareggi, preso tra due fuochi dai quali non poteva o non riuaciva a districarsi, inventò, sbagliando, la staffetta. Un tempo uno, un tempo l’altro, con buona pace di qualsivoglia giustificazione tecnico-tattica. La sfida segnò un’epoca e rimase ben impressa nella memoria della gente.

Questi i campionissimi che hanno reso grande il dualismo di Milan e Inter piuttosto che Inter e Milan.
Ma il tabellino del primo derby?
Il 18 ottobre 1908 sul Campo della Giovannina a Chiasso, nel Canton Ticino, in Svizzera.
MILAN - INTERNAZIONALE: 2-1
Reti: Lana, Payer, Forlano
MILAN: Radice, Glaser, Sala, Bianchi, Steltzer, Meschia, Lana, Madler, Forlano, Laich, Colombo. Allenatore: Gerolamo Radice.
INTERNAZIONALE: Campelli, Fonte, Zoller, Yenni, Fossati, Stebler, Capra, Peyer I., Peterly, Schuler, Aebi. Allenatore: Virgilio Fossati.
Arbitro: Bollinger (Svizzera)
Spettatori 2.000 circa per un incasso di 400 franchi svizzeri.
Note: Giocati due tempi da 25 minuti ciascuno.

Ho preso, nelle pagine ingiallite, due simboli, uno per parte, emblemi della loro anima milanese che, mi illudo, possano risplendere ancora sulle sponde dei Navigli.
Pierino Lana, 20 anni, milanese, lo chiamavano Fantaccino perché piccolino di statura. Da interno sinistro segnò 18 gol in 51 partite. Fonda l’Inter, poi se ne pente e torna al Milan. Segna il primo gol della nazionale italiana con la Francia all’Arena. Muore a Milano nel 1950 a soli 62 anni.
Virgilio Fossati, 19 anni, centrosostegno (come veniva chiamato il playmaker), capitano e allenatore, è il primo interista a vestire la maglia della Nazionale, dove giocò 12 partite segnando un gol. Grande e carismatico muore da eroe nel 1918, in trincea, a Grande Guerra quasi finita. Anche suo fratello Giuseppe, più giovane di quattro anni, fece tre anni nell’Inter.

Ecco l'essenza del calcio!
Tutti questi personaggi sono i degni rappresentanti di un calcio che non esiste più ma che necessariamente deve essere sempre impresso nelle menti non solo di ogni tifoso ma di ogni sportivo amante del calcio. Senza quel ricordo, la corteccia di ognuno risulta più leggera. Alla lunga si dissolve; ecco perché la vera ignoranza non è la mancanza di conoscenza ma piuttosto il rifiuto nell'acquisirla.
Se non vogliamo guardarci indietro con rabbia o in avanti per paura, cerchiamo sempre di farlo intorno per acquisire costantemente consapevolezza. 
In fondo, bisognerebbe sempre tenere a mente che il passato è la lezione e il presente è il dono. Il futuro, dopotutto, è la motivazione.
Di ognuno.