Il titolo, ironicamente, potrebbe apparire come uno di quei trattati filosofici di Platone, o di Aristotele, o persino di Eraclito, un presocratico. Ma non voglio prendere spunto da nessuna di queste opere, per due motivi sostanzialmente.

  1. Non le ho lette

  2. Non c’entrano assolutamente nulla con il mondo del calcio

Quindi il titolo è una mera citazione, un qualcosa che questo pretenderebbe di essere, ma che, purtroppo o per fortuna, non sarà. Ma concludendo questa lunga (o breve?) premessa, iniziamo a discutere su cosa sia il talento, prendendo ad esempio due di quelli erano considerati i migliori talenti del mondo nel 2014. Sto parlando, come vi suggerisce il titolo, del trequartista norvegese Martin Odegaard e del trequartista marocchino Hachim Mastour. Due origini completamente diverse, due percorsi molti simili. Due destini diametralmente opposti.

Hachim nasce un caldo giorni di giugno a Reggio Emilia, una città che calcisticamente parlando non ha una grande storia. Ma ciò, ovviamente, non interessa al talento di Mastour, che non fa fatica a mettersi in mostra fra i suoi coetanei: nel 2008 viene notato dalla Reggina, che lo porta nell’altra Reggio, sulla punta più meridionale dello Stivale. Qui Hachim incanta a suon di giocate meravigliose: un tacco qua, un doppio passo là, una tripletta contro questi. Insomma, il talento del ragazzo marocchino è sul punto di sbocciare, e i maggiori club italiani lo capiscono: Inter e Milan, sempre attente ai giovani prospetti, mandano i loro migliori scout ad ammirare questo ragazzino semisconosciuto, ma tremendamente bravo con il pallone. Le milanesi ne rimangono estasiate, quasi commosse nel vederne le movenze così eleganti, soavemente magiche.

Alla fine di un’accesa lotta di mercato, sono i rossoneri a spuntarla, che sborsano ben 500 mila euro per il ragazzino: una cifra che all’epoca è completamente fuori dagli standard, oltre ad essere amorale per un sedicenne che non dovrebbe giocare per vincere, ma per divertirsi. Ma il mezzo milione di euro speso per assicurarsi le sue prestazioni lo convincono, di fatto, ad entrare nel mondo del professionismo: una “selva selvaggia e aspra e forte”, la chiamerebbe Dante. E analizzando meglio anche solo i primi versi delle Divina Commedia, si intuisce come il mondo del calcio di oggi, immerso nei soldi, nel marketing e nel politicamente corretto, sembri veramente una “selva oscura”.

Una selva in cui Mastour si perde all’istante: viene aggregato alla prima squadra ma non gioca, firmando nel frattempo importanti contratti di sponsorship con alcune delle aziende più importanti del mondo. Diventato ormai leggendario il suo spot con Red Bull, in cui sfida in una gara di freestyle Neymar: ma leggendario perché? Perché quello spot è la più chiara rappresentazione di ciò che nel calcio NON serve, ovvero il talento venduto al mero marketing. La skill affine a sé, completamente estranea a ciò che il mondo del calcio significa.

Già all’epoca si poteva intuire che purtroppo Mastour si era catapultato troppo presto in una realtà troppo grande e “violenta”, una realtà capace di fagocitare anche il talento più puro. Perché di talento, il ragazzo ne aveva. Eccome se ne aveva. E ce l’ha tutt’oggi, ma è come se si fosse fermato a 6 anni fa.

Il ragazzino prodigio rimane un ragazzino prodigio anche oggi, nella Reggina, dopo aver errato senza meta e senza successo per Spagna, Olanda e Grecia. Il Milan ormai non ci credeva più, e nel luglio del 2018 ha deciso di svincolarlo. La sua carriera, fino ad oggi, è stata come il primo volo di un uccellino, che pur volando con maggiore grazia rispetto ai suoi fratelli, è caduto al suolo, sbattendo violentemente fino a perdere i sensi. Adesso sta aspettando la sua mamma, che non può tardare ad arrivare.

 

Dall’altra parte della selva che ha inghiottito Mastour (o in un nido, se preferite), si trova in questo momento Odegaard, nonostante nel 2016 il loro destino sembrasse il medesimo: due talenti in rampa di lancio, di grande prospettiva, che tuttavia fra i grandi non riuscivano a rendere, a mostrare il loro innato talento. Per il norvegese arrivò quindi il momento di “farsi le ossa” in un club di minore importanza, dove poter crescere lontano dai riflettori tossici: questa squadra, paragonabile ad una sorta di “purgatorio”, fu l’Heerenven. Un percorso molto simile a quello di Hachim, ma se da una parte il ragazzo nato a Reggio Emilia si deprimette ulteriormente, il norvegese decise di mettersi in discussione, cominciando a lavorare su stesso per crescere e dimostrare finalmente di essere ciò che tutti si aspettavano diventasse.

La sua prima esperienza olandese non fu deludente, tutt’altro: 38 presenze in un anno e mezzo di prestito, condite da tre goal, non sono assolutamente poche per un diciannovenne. Mancava ancora qualcosa, però. Quel qualcosa che avrebbe definitivamente convinto il Real Madrid a riportarlo a casa. Quel qualcosa che è esploso con il fragore di una supernova due stagioni fa, al Vitesse, sempre in Olanda: qui Martin ha dimostrato a tutti le sue enormi potenzialità. 8 goal e 11 assist in 31 presenze di campionato sono numeri grandiosi, resi ancora più incredibili dal fatto che Martin non era mai stato particolarmente incisivo a livello realizzativo. Un brusco cambio di rotta, che convinse il Real Madrid a portarlo a casa, dove però non sembrava essere ancora arrivato il momento di giocare.
Mancava ancora qualcosa in quel ragazzino biondo, elegante come un cigno e devastante come un vulcano, che nel frattempo si era anche formato fisicamente: non era più magro e fragile, ma appariva più tonico, quasi scolpito dalla durezza del calcio. Insomma, tutto il contrario di Mastour.
E oggi Martin gioca alla Real Sociedad, con cui pochi giorni fa ha buttato fuori dalla Copa del Rey proprio il Real Madrid.

Che sia il fato beffardo a giocare questi brutti scherzi a Zidane? Questo si saprà dalla prossima stagione, quando Martin approderà finalmente (Ramos permettendo) all’ombra del Santiago Bernabeu.


Dopo questa breve (come no) introduzione, possiamo cominciare a discutere, con la consueta calma che contraddistingue i grandi filosofi (come no parte II).

 

Il talento, per assurdo, è un qualcosa di abbastanza comune, in termini generici. Ognuno di noi ha un talento intrinseco, uno sport o un’attività in cui eccelle, o verso la quale, magari, si sente particolarmente portato. Ma in questo caso voglio parlare del talento nello sport, in particolare nel calcio. Prendiamo allora (il famoso oun della lingua greca) uno dei più grandi talenti della storia del calcio, Denìlson. Possibile che molti di voi non lo conoscano, ed io stesso ammetto di non averlo mai visto giocare in diretta, ma solo da filmati parziali o integrali. Ma questo è superfluo, perché anche solo guardare un video su Youtube vi aiuterà a capire chi era, o meglio cos’era il giocatore brasiliano: era l’emblema della tecnica sopraffina. Un gracile usignolo che danzava con grazia e velocità sul pallone, nascondendolo a proprio piacimento. A dirsi, sembrerebbe un fenomeno. Peccato che il punto più alto della sua carriera sia stato l’approdo al Betis, che coincise con una lenta discesa verso il mediocre abisso del nulla calcistico.

Mettendo le cose così, si dirà “è una storia che si ripete ciclicamente, i ragazzi si perdono, i brasiliani soffrono di saudade, gli slavi sono discontinui”. Purtroppo in questo caso non è così, per un semplice motivo: il prezzo pagato. 63 miliardi di lire, nel 1998, sono veramente un’enormità per essere dimenticati ed amalgamati al resto, si direbbe (purtroppo!) alla plebaglia di talenti sprecati.

Da ciò deduciamo che il rapporto fra talento e prezzo pagato non è direttamente proporzionale, ma nemmeno inversamente proporzionale. O meglio, per essere preciso, il rapporto fra RESA IN CAMPO e prezzo pagato non è direttamente proporzionale. Questo perché il talento non è un’entità fisica, un qualcosa che se messo dentro ad un corpo può essere espresso, bensì è un concetto molto più astratto di quanto si possa pensare. Ma quindi il talento risiede nella mente, se è astratto? Probabilmente sì. Prendiamo ad esempio l’idea di scrivania, quella su cui poggia il computer da quale scrivo. Ognuno di noi ha una propria idea di scrivania, che in linea di massima è simile a quella degli altri. Adesso, se immaginiamo una scrivania e vogliamo costruirla, non potremo costruirla se non avremo i pezzi. Al contrario, potremo costruirla se avremo i pezzi. Ma da qui partono ben quattro vie diverse:

  1. potremmo non costruirla per incapacità;

  2. potremmo costruirla male, sempre per incapacità nell’esprimere fisicamente la nostra idea di scrivania;

  3. Potremmo costruirla benino, esprimendo così la nostra idea senza eccellere, ma comunque secondo le comuni aspettative;

  4. Potremmo, infine, costruirla benissimo, a regola d’arte, meritandoci anche i complimenti dei presenti all’inaugurazione di questa scrivania (manco fosse chissà cosa).

In queste vie si presenta l’idea, e quindi il talento. Ma non sussiste l’idea del talento, bensì il talento è una delle idee.
Mi spiego meglio. Una persona non può costruire il talento, non può usarlo a proprio piacimento, ma è codificato nella propria mente. Come l’RNA dà le istruzioni ai ribosomi per costruire le proteine, così il talento dà al corpo la possibilità di esprimersi. Quindi il talento dà l’ordine di calcio, o di scrittura, o di disegno, e il corpo esegue a seconda delle proprie possibilità. Ma anche il talento stesso esegue a seconda delle sue possibilità, che non sono tutte uguali in tutti i campi.

Prendendo ad esempio Mastour ed Odegaard, possiamo vedere come il primo abbia i mezzi per esprimere il talento, ma li abbia espressi molto male fino ad ora (seconda via), mentre il secondo ha i mezzi e fino ad ora li ha espressi benino (terza via). Si può anche notare che il gap fra seconda e terza via è veramente grande, al contrario di quello che c’è fra seconda e prima e quarta e terza.

Da ciò si deduce che il talento risiede probabilmente nella mente ed è espresso per via corporea. Ma il talento non è un’idea, bensì il motore primo di questa. Un concetto difficile da spiegare a parole, ma chiarissimo da comprendere.


Federicoz

P.S Quasi sicuramente a questo pezzo ne seguirà un altro, in cui spiegherò ancor più dettagliamente le mie tesi. Per qualsiasi domanda o incomprensione (sono stato troppo pretenzioso, lo so), rivolgetemi qualsiasi domanda nei commenti.

Vi ringrazio per la lettura e vi aspetto nel prossimo pezzo.
Un abbraccio a tutti.