Mi ricordo tutto di quel giorno. Ero da solo nella mia macchina, con lo sguardo rivolto verso il mare e con la radio accesa; non era un periodo facile per me, avevo sul petto una cicatrice piena di delusioni, mi sembrava di essere uscito da un vortice turbolento di sensazioni, eppure nella visione dell'immensa distesa marittima riuscivo a riflettere su ciò che mi passava per la mente. Il sole stava tramontando e il giorno si apprestava alla sua conclusione; ragionavo tra me e me, focalizzando l'attenzione verso i personaggi che la storia aveva catalogato nel diario degli sconfitti, eppure vedevo in loro un ruolo da incorniciare nella società. Guardando il mare pensavo ai marinai, che non appena assumono la consapevolezza dello scorrere del tempo piangono dalla solitudine per i loro cari, o meglio, cercano di trovare il giusto sostentamento per portare avanti quel flusso ostile ma affascinante che è la vita; un po' come i semplici pescatori, che osservano la natura nella loro interezza e che dalla riva del mare auspicano ad avere la meglio sugli altri colleghi, per immettere nelle proprie vene un minimo di gloria. 

Poi, improvvisamente, nel silenzio che pervade anche l'ultimo istante di una giornata soleggiata, la radio cantò: "mentre guardo il mare il mio pensiero va, alla latitudine di un'altra età". Parole recitate da Eros Ramazzotti, celebre artista internazionale che nei suoi capolavori musicali ha regalato più di mille emozioni; si intitolava "Bambino nel tempo" quel brano che era in onda, e mi bastò pochissimo per tornare indietro negli anni, come il tuffatore olimpionico che trova nell'acqua l'unico mezzo per depurarsi dalle difficoltà estreme della vita. Ritornai con la mente all'età di 7/8 anni, quando non avevo ancora capito niente del mondo che mi circondava, eppure riuscivo a trovare la felicità nelle piccole cose. Ho sempre avuto un carattere particolare, non ho mai amato i superbi e neanche coloro i quali facevano di tutto per farsi notare; la mia timidezza si riscontrava soprattutto durante il periodo scolastico, quando la severità eccessiva della mia maestra di italiano mirava a tenermi sull'attenti, costringendomi molto spesso ad andare a scuola con una certa dose di tensione. 

"Domani interrogo, e guai a chi non ha studiato!" Diceva sempre così, dal lunedì al venerdì, e lo faceva forse per sentirsi potente, ma anche e soprattutto per abituarci a quel senso del dovere che ci obbligava a programmare la nostra settimana. Ripensavo a quegli attimi di inquietudine con il ricordo indirizzato agli allora miei compagni di classe, che amavano giocare a carte, ma non disprezzavano neanche il calcio; diversi erano tifosi del Milan, qualcuno della Juventus e l'unico interista ero proprio io. Come ho già detto però, ho sempre avuto un carattere particolare, e questo lo riscontravo anche nel football, perchè proprio in quegli anni iniziai ad amare la Premier League. Forse è stato proprio il destino che ha voluto questo, ed è grazie a Sky che ogni sabato pomeriggio potevo ammirare le grandi gesta del campionato inglese. Avevo la mia visione del mondo, diversa da quella di ora, però negli stadi britannici respiravo un'aria più pura, improntata sul sacrificio ma soprattutto sulla voglia di stupire, come le numerose favole alle quali credevo. Mi colpivano soprattutto gli atteggiamenti simpatici dei tifosi presenti allo stadio, coloro che venivano inquadrati con gli hamburger giganti oppure le famiglie che nel freddo invernale si rilassavano con una tazza di tè caldo durante il corso dei novanta minuti. 

La stagione 2007/08 fu davvero particolare, ma ciò che colpì quel ragazzino fu la presenza di alcuni calciatori dotati di una qualità eccelsa. Mentre la musica mi faceva compagnia pensai per qualche istante al magico Stamford Bridge, dove tra le fila del Chelsea si trovava un certo Petr Cech. Lo chiamavo l'uomo soldato, a causa di quel brutto colpo che subì alla testa e che lo costrinse a disputare ogni partita con il caschetto; fu proprio mio padre che mi spiegò l'accaduto, anche perchè vedere un portiere con quello strano strumento in testa, essendo un bambino, mi faceva un po' strano. Nella squadra allenata da Josè Mourinho, che presto sarebbe diventato il mio eroe, figurava anche Ashley Cole, citato più volte da Massimo Marianella per le sue percussioni in aerea di rigore, ma soprattutto per la sua bravura nell'effettuare i cross; un po' come la qualità di Frank Lampard, che quando giocavo al famoso Subbuteo mi veniva sempre in mente nel momento in cui la palla rotolava in mezzo al campo. Una stagione positiva per i Blues, che riuscivano ad ottenere la seconda posizione dopo una lotta continua con Arsenal e Liverpool; e proprio tra i Reds, allenati da Rafa Benitez, si trovavano calciatori che mi entrarono subito nel cuore. Impossibile non rammentare l'illustre capitano Steven Gerrard, al quale pensavo durante le lezioni di inglese, oppure lo splendido Fernando Torres, l'uomo dalle "gote rosse", che usciva dal campo sempre distrutto per aver onorato la maglia che indossava. Lo stesso per Pepe Reina, autore di grandissime parate, ma soprattutto portatore di quella corrente che oggi affligge i portieri, il gioco con i piedi.  

"Questo posto mi sembrava magico, nel ricordo di quando ero piccolo, come allora cerco una risposta che non c'è, e non so che differenza fa, rimanere fermo ad aspettare oppure andare via di qua". Continuava così il pezzo di Eros Ramazzotti, e proprio in quel momento interruppi i miei ricordi, perchè c'era una scintilla che mi stuzzicava l'emotività, o meglio, la fanciullezza. Era forse la teoria delle emozioni, paragonabile ad una sorta di iceberg, in cui la parte sommersa è l'istinto mentre la parte che sta fuori la razionalità, che interviene anche grazie all'emotività. Il blasone che ho sempre avuto nel cuore mi ha portato ad amare in tutto e per tutto il Manchester United. Riflettei su come accadde tutto ciò: era un sabato pomeriggio e, appena uscito da scuola, mi rilassai sul divano accendendo la televisione. Fu proprio in quella circostanza che ammirai le grandi imprese della squadra allenata da Ferguson; mi ricordo che iniziai ad attribuire soprannomi a tutti. E così, a proteggere la porta dei Red Devils c'era il "paratutto", quel Van Der Sar che non lasciava scampo a nessuno, vista la sua altezza e la sua bravura. Rimasi sorpreso dalla compattezza del duo Ferdinand-Vidic, che bloccava gli avversari grazie alla fisicità e all'esperienza; un po' come il "rossino indemoniato", il mitico Scholes che correva sulla fascia per aumentare la superiorità numerica in fase offensiva. Tra le stelle di quella squadra brillava però Wayne Rooney, il capitano di ventura che guidava il suo club verso i tre punti; lo chiamavo il "mostro di Loch Ness", un po' per le magie che effettuava palla al piede, un po' perchè nel mio libro di inglese c'era un'immagine del mostro che in tono simpatico mi ricordava proprio il numero 10 della squadra di Ferguson.
Inutile stare a dire che al magico Teatro dei Sogni, che mi commuove ancora oggi quando lo guardo, calpestava il prato il giovane Cristiano Ronaldo, che forse si preparava per la sua splendida carriera, e che allo stesso tempo si meritò il soprannome di "furbetto", perchè con i suoi giochetti mandava in tilt la retroguardia avversaria. 

Nel frattempo il brano di Eros Ramazzotti si apprestava a finire, e forse era bene che questi ricordi tornassero in un cassetto della mia mente, per poi essere rispolverati in altre circostanze. Certo che di tempo ne è passato, e quante cose sono cambiate; squadre come il Portsmouth oppure il Bolton adesso navigano in acque turbolente, eppure in passato erano sempre presenti in Premier League. Discorso inverso per il Manchester City e il Tottenham, che dalle parti basse della classifica hanno avuto la forza di assumere una posizione di assoluto rilievo.
Tutto molto bello, magico ed emozionante soprattutto per chi, come me, veniva da un momento difficile; quello che ho appreso è che forse arrendersi non è sempre un errore, a volte è doveroso, ma l'importante è ritornare sulla scena della battaglia con una cicatrice in più sul petto, ma anche con la volontà della vittoria, perchè il passato aiuta a recuperare certezze e serenità.
Forse io non sarò come gli altri miei coetanei, disprezzo le discoteche e le classiche bravate per la strada, ma di una cosa sono sicuro, la Premier League è casa mia, mi ha aiutato tanto in passato e virtualmente mi aiuta ancora oggi, anche se molte cose sono cambiate.
La storia però non può essere mutata, come il bambino nel tempo che non si arrende mai, ma cerca la felicità...