Cari amici, questo vostro Piccio Di Sonno, coi suoi articoli sconclusionati, a volte introspettivi, a volte volutamente e altre involontariamente esilaranti, fatico a immaginare che ti tipo di persona possa esservi finora sembrata. Probabilmente vi costerà non poca fatica immaginare che anch’io, come tutti voi, svolgo un lavoro, e che questo lavoro comporta (come per tutti, del resto) un minimo di serietà ed affidabilità. Da questo punto di vista, però, c’è stato un periodo particolarmente “caldo” della mia vita lavorativa, per la precisione dal 2005 alla fine del 2009, in cui, facendo parte di un team di ingegneri del Centro Ricerche FIAT, con sede operativa ad Orbassano, e di Ferrari GES, chiaramente operanti per la maggior parte del tempo a Maranello queste qualità di affidabilità sono state messe maggiormente alla prova.

Tutto nacque nella prima parte del 2005, quando Marc Genè, nuovo collaudatore Ferrari, appena arrivato a Maranello dalla Williams, aveva espresso il desiderio di guidare il nostro simulatore di guida che noi avevamo progettato e usavamo solitamente per fare test di vario tipo a supporto della progettazione e test di vetture del gruppo FGA. Vetture come la Punto, la Qubo, la 147, ecc. Ovviamente le dinamiche in gioco e le esigenze di cui tenere conto erano ben diverse da quelle a cui noi eravamo soliti badare. Quando Marc venne a trovarci, gli facemmo guidare una versione del nostro simulatore “tirata per il collo” affinchè somigliasse ad una vettura sportiveggiante. Noi per primi avevamo grossi dubbi sulla reale possibilità di utilizzare il nostro simulatore, pensato per tutt’altri scopi, in ambito F1. Per nostra fortuna Genè dimostrò d’essere molto lungimirante. Persino più di noi, che in quell’occasione badammo più a nascondere i nostri punti deboli, che a mostrare quelli che erano i nostri punti forti. Lui, che aveva bene in mente il simulatore Williams, trovò che il nostro simulatore, con le sue peculiarità, poteva, con poche modifiche, essere grandemente d’aiuto al team Ferrari GES. Grazie alle sue valutazioni positive sulle potenzialità del nostro sistema, per i successivi 5 anni ho avuto modo di vivere un’esperienza entusiasmante, facendo parte di un Team misto, come accennato prima, che svolgeva test di vario tipo, tutto nella massima segretezza. Certo, si sapeva dell’esistenza di un simulatore di guida Ferrari, ma chi ne fossero i membri, che tipo di attività si svolgessero, per quali scopi e con quali risultati ed indicazioni, era top secret. Vi farò forse sorridere, ma ancora oggi, a distanza di più di 10 anni da quando abbiamo smesso di occuparcene, provo un grosso disagio nel parlare delle attività che abbiamo svolto in quel periodo, perché il rispetto del segreto era talmente inculcato in ognuno di noi, che nessuno, mai, nemmeno coi famigliari si sarebbe mai sognato, a quei tempi, di dire nulla, nemmeno la cosa più insignificante.

Dopo la visita di Marc Genè (il pilota più intelligente, colto, intraprendente che conosca, e ne conosco un bel po’) viste le sue valutazioni incoraggianti, cominciammo a lavorare sul nostro simulatore per renderlo sempre più rispondente alle esigenze della Formula1. Per darvi un’idea di quello che dovemmo fare, faccio un breve cenno sul mondo della simulazione di guida. La maggior parte dei simulatori di guida sono composti da una parte della vettura vera, montata a bordo di una piattaforma a 6 Gradi di Liberta (GdL), che è quindi in grado di muoversi lungo i tre assi (x, y, z), e di ruotare intorno a questi assi generando una rotazione di imbardata (heading), di beccheggio (pitch) e di rollio (roll). Sempre a bordo di questa piattaforma, di solito c’è uno schermo che riproduce lo scenario esterno. Il nostro sistema invece aveva delle caratteristiche che lo rendevano, e lo rendono tutt’oggi unico nel suo genere: la maggior parte degli interni del veicolo, ad eccezione del volante del sedile e della pedaliera, di solito è visualizzato su schermi che circondano la postazione di guida, montata su una piattaforma, sempre a 6 GdL. Il nostro sistema si basa tantissimo sulle tecniche della realtà virtuale, visto che tutto, non solo lo scenario esterno, viene virtualizzato e rappresentato sugli schermi. Per far sì che ciò che è virtuale venga rappresentato sugli schermi con la prospettiva corretta, il guidatore, nel nostro caso il pilota, indossa sulla testa un sensore che, come un GPS in miniatura, è in grado di fornire con estrema precisione la posizione della testa, e di conseguenza, conoscendo anche la posizione della piattaforma mobile, ci permette, attraverso degli algoritmi di visual compensation di calcolare in tempo reale la prospettiva con cui riprodurre sugli schermi, istante per istante, i vari frame. Quello che dovemmo fare fu di rendere il sistema enormemente più “responsivo”, riducendo al minimo il ritardo tra ciò che il pilota faceva, e la risposta che il veicolo dava (in gergo, il transport delay).

Altro elemento fondamentale, la perfetta rispondenza tra ciò che veniva calcolato dal modello matematico che simulava la dinamica del veicolo, e il comportamento vero della vettura. Il modello matematico, inutile dirlo era di una complessità tale da permettere di testare qualsiasi modifica fatta al setup della vettura e valutarne in maniera assolutamente realistica gli effetti. Il tutto utilizzando lo stessissimo software usato durante i test veri su pista, con le stesse telemetrie di cui gli ingegneri dispongono ai box. Di fatto eravamo diventati un team “fantasma” che svolgeva, al pari del team ufficiale, i vari test che magari, per limitazioni su tempo e chilometraggio imposte dalla FIA non potevano essere svolti su pista. Io in tutto questo ero il responsabile dello sviluppo degli algoritmi di movimentazione della piattaforma mobile, su cui era montata la postazione di guida. Non lo dico perché ero io ad occuparmene, ma lo sviluppo di strategie per dare al pilota dinamicamente quante più informazioni possibile su ciò che stava succedendo alla vettura, in particolare il bloccaggio del posteriore in staccata, o lo slip, cioè lo scorrimento del posteriore in uscita di curva, aveva assunto un ruolo ed un’importanza cruciali. Per Ferrari avevo, poco alla volta, sviluppato un algoritmo con un approccio completamente diverso dal solito, che ci permetteva di apportare modifiche al comportamento della piattaforma istante per istante, lungo il tracciato, approfittando del fatto di conoscere in anticipo ciò che il pilota avrebbe fatto (ad es. alla fine del rettilineo di partenza era prevedibile che il pilota avrebbe fatto una staccata, per cui, in quel punto del tracciato sapevo che la piattaforma poteva essere gestita in un modo diverso per via della staccata, e così per tutti gli altri punti del tracciato. Ovviamente, le lunghezze e gli elementi presenti in pista dovevano corrispondere esattamente a quelli della pista vera!

Vi risparmio le discussioni, anche molto accese, che spessissimo si verificavano. Posso solo dire, senza timore di essere smentito, che le dinamiche da box sono adatte a gente con parecchio pelo sullo stomaco, e che spesso le questioni non si dirimono solo disquisendo tecnicamente, ma avendo la forza di portare avanti le proprie idee in contesti dove la voce non sempre riesce a rimanere confinata a toni di normale discussione. Una cosa che però era condivisa da tutti i Ferraristi del team: la grandissima considerazione che tutti loro avevano nelle indicazioni di sviluppo vettura che era in grado di dare loro Schumacher. Schumi era visto dai ragazzi che avevano lavorato con lui come un semi-Dio. Quando si diffuse la voce che sarebbe venuto ad Orbassano in CRF, stavolta non per dare indicazioni sulla vettura ma sul simulatore, l’entusiasmo dei ferraristi esplose irrefrenabile. “Vedrete, sarà in grado in un quarto d’ora di darci tutte le indicazioni che ci servono”. “Ci fa il setup in 10 minuti”. E via così da parte di tutti, meccanici, ma anche ingegneri, personaggetti di solito molto poco inclini ai facili entusiasmi. Come data fu scelto I’8 dicembre 2006; giornata di festa, scelta non a caso: l’obiettivo era evitare che in CRF si innescassero dinamiche imbarazzanti, tipo cacce all’autografo e al selfie, con tanti saluti alla segretezza, che invece si stava faticosamente cercando di garantire.

La preparazione da parte di tutti fu maniacale, ogni dettaglio venne preso in considerazione per essere certi che tutto andasse alla perfezione. Schumi, puntuale come un tedesco, assieme a sua moglie Corinna e ad una sua amica, si presentarono, da chissà quale località di partenza, dopo (immaginai) un breve e confortevole viaggio col jet privato, accolti a Caselle dal CEO del Centro Ricerche, per l’occasione (e, a quanto fosse dato a noi di sapere, per la prima volta nella sua vita) in lupetto grigio chiaro, giacca di pelle nera, e fare da amicone in un improbabile tentativo di dare all’incontro un carattere informale, quando era evidente a chiunque la tensione palpabile che regnava sovrana. Dal canto suo, anche Schumi, va detto, coi suoi jeans stone washed e cintura e stivaletti pitonati, l’avrei collocato più propriamente in un contesto tipo rave party, piuttosto che ad una sessione di test presso un Centro Ricerche. A parte questi “vezzi” modaioli che contrastavano palesemente con l’abbigliamento di noialtri del team (né più e né meno quello che avremmo usato per andare a fare la spesa al supermercato, alla consueta ricerca di prodotti in offerta), senza ulteriori indugi, riducendo al minimo i convenevoli con una veloce stretta di mano e una presentazione in due parole da parte di ognuno di noi, andammo subito al sodo. Ma prima di proseguire nel racconto della giornata, voglio spendere due parole per dirvi del nostro (di noi del CRF) personale motivo di “concitazione” (leggi: scagazzamento nei pantaloni), quando, a 5, e sottolineo, cinque minuti dall’arrivo di Schumi la piattaforma aveva smesso, come per una maledizione, di funzionare (lo chiamano effetto demo, io lo chiamo molto più prosaicamente effetto infarto mancato).

Risolto il problema lato nostro (e garantito, così per ancora qualche tempo il mio status di persona non disoccupata), Schumi, con una rapidità sorprendente, senza quasi che ce ne accorgessimo, in un angolino appartato del laboratorio si era già cambiato, infilandosi la tuta. Un istante dopo, con un balzo, era salito a bordo della piattaforma, infilandosi nella sua postazione, dentro la quale io stesso mi ero premurato di montare il sedile, in fibra di carbonio, preparato, come per ogni pilota, seguendo i rilievi fatti a suo tempo del suo fondo schiena. Parte la simulazione, non ricordo bene se della pista Jerez de la Frontera o di Barcellona. Partenza incerta, ma ci sta: le sensazioni a bordo del simulatore sono molto diverse da quelle percepite nella realtà: questo è ovvio. E’ necessario che il pilota, con una buona dose di pazienza, impari il linguaggio della piattaforma dinamica per trarre vantaggio dalle informazioni che comunque, anche se in modo diverso, essa è in grado di fornire. Arriva la prima staccata, bloccaggio dell’anteriore, drittone da paura! Le decine di sorrisi di quelli che immaginavano di ricevere indicazioni al volo per risolvere tutto in un quarto d’ora, si spengono. I nostri, dopo lo spavento iniziale della piattaforma che non funzionava più, erano già spenti da tempo.

A proposito della staccata alla fine del rettilineo più lungo, va detto, e penso risulterà interessante agli appassionati, che in quei pochi secondi, l’andamento nel tempo della pressione esercitata dal pilota sull’impianto frenante deve essere (e in questo Schumi era il migliore) a forma di dente di sega: praticamente verticale ad inizio staccata, per poi decrescere, a mo’ di rampa, man mano che la velocità della vettura si riduce e il carico aerodinamico, che la tiene incollata all’asfalto, decresce. Se la staccata viene fatta, in gergo, a forma di panettone, il pilota, mancando della dovuta decisione all’inizio della frenata, è costretto a prolungarla dopo, oltre il normale, con conseguente, probabile bloccaggio dell’anteriore, dovuto, quest’ultimo, ad un livello di pressione dei freni troppo alto, a cui non corrisponde più una velocità e conseguente carico aerodinamico tali da evitare il bloccaggio; e come si sa, quando le gomme si bloccano, oltre a danneggiarsi, non riescono a fornire alla vettura la stessa forza frenante che invece garantiscono evitando il bloccaggio. (Fisica1: attrito di primo distacco, attrito radente , attrito volvente, ecc.). Tornando a Schumi, partono i conciliaboli: forse è partito troppo deciso, adesso glielo spieghiamo e sicuramente andrà meglio. Riparte la simulazione, stesso rettilineo iniziale, stesse incertezze, stessa staccata, stesso viaggio fuori pista,. Manco a dirlo: stessa scena di sgomento. Come direbbe Calatino: "priciisa!". Cominciamo a vederla grigia. Gli viene consigliato di percorrere ad andatura “autostradale” la pista, per prendere confidenza con la piattaforma e i suoi movimenti, imparando poco alla volta a riconoscerne le informazioni su ciò che succede alla vettura simulata. Parte più piano, cerca di seguire il tracciato andando ben lento, ma la piattaforma ovviamente è governata da algoritmi ottimizzati per un andamento della vettura ben più veloce. L’ubriacatura di sensazioni contrastanti è micidiale. Schumi ferma tutto, scende, ha caldo; e noi, che di simulatori ce ne intendiamo, sappiamo riconoscere molto bene i sintomi della simulation sickness: pallore, sudore freddo, nausea…

Cominciamo timidamente a far presente ai nostri dirigenti che forse sarebbe il caso di soprassedere, o quanto meno di sospendere in attesa che si riprenda. Leggo negli occhi di Schumi rabbia e frustrazione. La stessa di tanti automobilisti normali, che nel corso degli anni, impegnati nei test su simulatore, avevano dovuto sospendere la prova per i medesimi sintomi. Avrei voluto dirgli che non c’era nulla di sbagliato in lui, che la simulation sickness in un certo senso indica una maggior sensibilità del pilota o in generale dell’automobilista, che è abituato a ricevere dal suo sistema vestibolare delle sensazioni, che sul simulatore (per forza di cose) non vengono riprodotte allo stesso modo, con conseguente incoerenza tra ciò che ci si aspetta di percepire e ciò che invece si percepisce. Cosa, questa, che nei più sensibili porta a star male. Niente da fare, Schumi non demorde. Sentendo caldo, si toglie con un gesto di stizza la maglietta, e indossa la tuta direttamente, senza niente sotto. La strategia, ideata per ridurre la Sickness, è di annullare i movimenti della piattaforma. Ci guardiamo dubbiosi, ben consapevoli che questo avrebbe potuto portare anche ad un peggioramento della già critica situazione. Parte, va piano, la piattaforma stavolta è ferma, ma si fatica persino a stare in pista. Continua, non demorde, non si vuole fermare. Glielo propongono più volte ma lui va avanti, l’orgoglio del campione è più forte della nausea e di tutto il resto. Fa un po’ di giri stringendo i denti. Io letteralmente soffro, come e più di lui per questa assurda convinzione, sua e di tanti altri, di dover per forza essere Michael Schumacher sulle giostre, al calcinculo, esattamente come su una vettura di F1.

Forse, fosse stata organizzata come una prova fatta solo con poche persone, sarebbe andata diversamente, ma con decine e decine di persone partite ingenuamente da una esaltazione eccessiva che lo guardavano ora con un velo di delusione, probabilmente nemmeno io sarei voluto scendere, e con la forza dell’orgoglio, anch’io sarei andato avanti anche all’infinito. Non ricordo chi o cosa, alla fine lo portò a fermarsi. Era in un bagno di sudore. Mi dispiaceva da morire vederlo così a causa nostra, sapere che le nostre facce nei suoi ricordi, sarebbero state per sempre associate a tutto questo. Avrei voluto dirgli tante cose per consolarlo. Ma non ce ne fu bisogno: altrettanto velocemente come all’inizio, si cambiò, rimettendosi i suoi jeans e tutto il resto. Non ricordo chi di noi ebbe (non io) la sfacciataggine di chiedergli di farci una foto insieme. Ma forse, a pensarci bene, fu la cosa migliore che potessimo fare per farlo tornare alla sua normalità, fatta di gente che continuamente gli chiede autografi e foto. Senza battere ciglio, senza mostrare nessun fastidio, si fece fare con noi e con tutti, tutte le foto possibili ed immaginabili. E ancora oggi, quando rivedo quelle foto, non posso che essere fiero di aver fatto parte di quell’avventura, e di aver avuto l’onore di vedere da vicino la grandezza, non tanto dello Schumacher pilota (per quello basta rivedersi gli innumerevoli gran premi da lui vinti), quanto quella dello Schumacher uomo.

E un saluto nostalgico dal vostro Piccio Di Sonno