Il connubio tra pallone e cinema italiano è sempre stato arduo e complesso: non è assolutamente facile fare un film sul pallone, così come sulla vita di storici calciatori. Ci vuole passione, interesse, conoscenza ed esperienza e Sorrentino, queste cose, le conosce bene.
Il regista napoletano ha sempre diffuso nei suoi film un po’ di amore verso il calcio, piccole perle restituite sapientemente e intelligentemente sullo schermo grazie alla macchina da presa.
Si parte dal primo, “L’uomo in più”, sulla vicenda del capitano della Roma, Agostino Bartolomei, morto suicida verso la metà degli anni ’90, col protagonista Antonio Pisapia, un uomo retto e di grande bontà d’animo, costretto a combattere col mondo delle truffe dei compagni di squadra. Indimenticabile, qui, anche il Molosso, personaggio ispirato a Petisso Pesaola, allenatore del Napoli negli anni ’70.
Si passa al Cardinale Voiello, Silvio Orlando nella serie “The Young Pope”, l’ossatura di tutta la storia, nonché la cosa più vicina all’uomo comune, stereotipo del partenopeo, colui che riesce a farti credere in Dio e a tifare, più per simpatia che per altro, per il Napoli calcio. Colui che, davanti a un miracolo, chiede solo se ci sono speranze in Champions o in Campionato e che sulla cover del suo smartphone conserva l’immagine dell’argentino Higuain.
Anche ne “La Grande bellezza” il calcio viene evocato e richiamato mentre la macchina da presa inquadra dall’alto la città, i turisti, le persone immobili e anche una signora che, accanto al busto del generale Giuseppe Avezzana, legge sulla Gazzetta dello Sport l’ultima news di un Totti infortunato.
E ancora, in una delle pellicole più belle di Sorrentino, “Youth”, compare un Maradona irriconoscibile, grasso, affaticato, disfatto e sfatto dalla vita, in una casa di cura in Svizzera. Cult è la scena in cui il regista mostra in maniera grottesca, ma nello stesso tempo quasi dolce, un campione che, affannosamente, colpisce la pallina da tennis col suo magico piede sinistro. Rimane celebre anche la battuta “Anch'io sono mancino, sai?” - "Cristo, tutto il mondo sa che lei è mancino!”.

Il calcio per Sorrentino è emozione, magia e nostalgia, tenerezza e dolore. E' ritornare al posto in cui si è stati bene: l’infanzia.

Non a caso, nel suo ultimo film, “E’ stata la mano di Dio”, Sorrentino riassume il percorso poetico e doloroso della sua vita: un ragazzino cresciuto a Napoli col mito di Maradona, quel Pibe de Oro che, inconsapevolmente, gli salvò la vita. Era il 1987, Paolo aveva 16 anni e il Napoli vinceva il primo scudetto della storia. Come ogni fine settimana di bel tempo i suoi genitori raggiungevano la casa in montagna a Roccaraso, ma quel sabato Paolo non li seguì, perché il Napoli giocava a Empoli e lui aveva ottenuto il permesso di andarci con un amico. Nella notte una fuga di monossido di carbonio nella casa in montagna uccise i genitori mentre dormivano: è stata la mano di Dio” a salvarlo, la stessa con cui Maradona segnò il più malandrino dei gol all’Inghilterra, nel Mondiale del 1986. “Maradona non è arrivato, è apparso” -dice il regista - “Non è sceso da un aereo, lo vedemmo sbucare dal nero degli spogliatoi del San Paolo. Non ci sono immagini del suo arrivo a Napoli. E poi spuntava nei posti, girava la città, ma per non avere la gente intorno si muoveva con la Fiat Panda e la gente si chiedeva se fosse lui. Quando io e mio fratello lo vedemmo in strada il mondo che in quel momento passava si fermò davvero”.

Un filo azzurro ormai lega i due: “Diego aveva ragione. Diceva che il calcio è un gioco che si basa sulle finte,  fai finta di andare a sinistra e poi vai a destra. La stessa cosa vale per il cinema".