Fiorentina-Inter, 8 gennaio 1961: "Dopo un calcio d’angolo tutti i giocatori uscirono dall’area viola andando verso il centrocampo; il fischio dell’arbitro non poteva che significare un calcio di punizione per la difesa. A sorpresa, Concetto Lo Bello, assegnò un calcio di rigore, realizzato da Lindskog. Pochi minuti dopo, in un momento di pausa del gioco, Petris dà una tiratina di maglia ironica ad Angelillo dicendo a Lo Bello: "Ma se era rigore quello, allora è rigore anche questo!". Lo Bello risponde: "Esatto, è rigore" e regala il secondo penalty all'Inter, neanche due minuti dopo il primo, scatenando la ovvia furia del Comunale di Firenze. Lindskog tirò fuori, Petris fu espulso".
La partita finisce 1-1 e l'arbitro siciliano deve lasciare lo stadio scortato dalla polizia. 
Resta indimenticabile anche la contestazione al grido di "Duce, Duce!", durante un Fiorentina-Cagliari del 12 ottobre 1969.

Lo Bello ha sempre sofferto di protagonismo e una partita di cartello è palcoscenico troppo invitante. Così, al 21′, concede agli isolani il rigore per una spinta non trascendentale subìta dal terzino Zignoli in proiezione offensiva. Il mitico Gigi Riva non si esime dal realizzare. Il pubblico rumoreggia. La ripresa inizia con qualche altra recriminazione dei viola e con un siparietto di pugni e calci, che costa le espulsioni di Amarildo e Martiradonna, una per parte. Nel finale Lo Bello fischia una punizione a due in area per una chiusura sul viola Esposito da parte di Riva e Nené e poi annulla un gol a "cavallo pazzo" Chiarugi per un fuorigioco di posizione di Mariani che nessuno (a parte la terna arbitrale) ha visto. Lo 0-1 non si schioda e il pubblico, che nel frattempo è passato agli insulti, scende giù a inveire contro avversari e arbitro.
Il figlio Rosario ha ricordato questi episodi, pochi giorni orsono, durante la presentazione, presso il Centro tecnico di Coverciano, del libro "Concetto Lo Bello - Storie e ritratti di vita tratti dall’archivio di famiglia".
La battuta più carina in questo nuovo calcio, il più delle volte troppo attaccato alla tecnologia, è senza dubbio "Eravamo quattro amici al Var", riprendendo la canzone di Gino Paoli. Altre è impossibile riportarle: la redazione, giustamente, sarebbe costretta a censurare.
Adesso, purtroppo, sono sempre in aggiornamento, per eccesso, legioni di imbecilli che hanno coi social diritto di parola quanto un premio Nobel, quando prima, al massimo, parlavano al bar dopo un bicchiere di vino ed erano messi subito a tacere. La goliardia, da fiorentino, è non solo ben accetta ma addirittura sacrosanta; la maleducazione di bulletti da tastiera assolutamente da censurare. E siccome di cretini ce ne sono sempre in abbondanza, si dice che "la loro mamma è sempre incinta". Questo, non va in alcun modo a danneggiare la madre dei figli dal comportamento molto discutibile, semmai alla generazione che c'è in giro.

Con la Var si guarda troppo!
Adesso si stanno a vedere più i particolari che non l'azione reale di gioco. Il calzino dell'attaccante, se dentro o fuori area, per fischiare il rigore è assolutamente sintomatico. È uno degli esempi più eclatanti da quando le telecamere hanno fatto "capolino" sui terreni di gioco. Per non parlare del portiere: sul tiro dagli undici metri dell'avversario, le riprese dalla sala controllo devono sbirciare, tipo Grande Fratello, se, per caso, non si sia mosso in anticipo. Una sorta di Un, due, tre, stella! Il gioco tradizionalmente fatto dai bambini della mia generazione (adesso c'è l'iPad anche in tenera età...). Per inciso, tutti i giocatori si pongono dietro una linea, mentre il capo-gioco si pone di spalle appoggiato a un albero o a un muro. Quest'ultimo scandisce a voce alta e chiara "Un, due, tre ... stella" e quindi si volta verso i giocatori. Chi si muove... ribatte il rigore!
Ai miei tempi (ridaje) si aspettava Carlo Sassi sentenziare, dopo le 23, alla Domenica Sportiva, se il "presunto" accaduto nel pomeriggio (tutte le partite venivano giocate alla stessa ora. Lo spezzatino era solo, per quelli come me, un manicaretto della mamma che lo serviva con le patate novelle), "fosse". Ricordo mio padre che, alzando la voce, mi diceva: "Spengi la tele domani hai scuola". E io, mogio mogio, solo il giorno successivo, dai quotidiani, avrei avuto la "sentenza".
Gli arbitri erano davvero tali. 
Mai si sarebbero sognati, come accaduto recentemente con Bonucci, farsi... "massaggiare la tempia" dalla testa di un calciatore. Solo il pensiero sarebbe già stato da cartellino rosso!
Ma chi erano i più famosi? Faccio presente, come per le elezioni nei paesi dell'Est, che li ho infamati tutti. La mia percentuale è rigorosamente bulgara.
Quando dal Comunale, adesso Artemio Franchi, dopo le formazioni di rito, lo speaker annunciava: "arbitra l'incontro il signor... da..." il mio personale decibel era ai massimi livelli. "Lo sai dove sta la tu' moglie adessoooooo?". E pensare che ancora non era entrato in campo; il benvenuto era a prescindere! Una cosa però non ho mai capito: a malapena ci interessava chi avrebbe arbitrato, che cacchio ci importava da dove venisse è uno dei misteri del rettangolo verde...
Ecco, di seguito, i miei tre migliori. I più rispettabili e rispettati. Una sorta di podio dove ognuno può assegnare la medaglia a chi preferisce. Il mio è solo un ordine legato al ricordo.
L'ultimo citato, l'arbitro "pelato" per eccellenza, è, non solo un degno riconoscimento, ma anche il cambiamento, l'evoluzione che hanno avuto le "giacchette nere" nel corso degli anni.

ALBERTO MICHELOTTI
Nasce musicista, studia oboe al conservatorio, ma poco prima dei tredici anni deve smettere per la morte del padre: diventa apprendista in un’officina meccanica (con gli anni ne realizzerà una tutta sua). Pratica numerosi sport, è innamorato della lotta greco-romana, poi gioca a calcio, giunge in quarta serie, ma ventottenne è costretto a smettere dopo un violento scontro con un avversario che gli rompe la clavicola. Spinto dall’amico e grande arbitro veneto Ferruccio Bellè (Premio Mauro 1948-49, 172 gare dirette in serie A) e da un dirigente arbitrale bolognese, Franceschi, brucia le tappe mostrando subito un certo stile. Un attaccante del Fornovo offende sua madre, lui prima di espellerlo lo manda ko con un gancio al mento. Vorrebbe dimettersi, ma Bellè lo convince a restare e a trentasei anni esordisce in B, a trentotto in A (il 14 aprile 1968, Napoli-Varese 5-0) e fa strada con una progressione prodigiosa. In 145 gare di A (dirige fino al 1981, conclude a Napoli, dove aveva iniziato, con un’ovazione) e 86 gare internazionali (passaporto dal 1973) conquista e divide, senza mezze misure. È l’esempio dell’arbitro che si fa vedere e sentire, che non le manda a dire a nessuno, fiero di essere un pupillo di Lo Bello (che lo vuole guardalinee con il figlio Rosario nell’ultima partita della carriera: la finale di Coppa Uefa del 29 maggio 1974 vinta dal Feyenoord sul Tottenham) e un grande sponsor di giovani come Luigi Agnolin. A lui (sarà Premio Mauro 1973-74) sono legati due episodi entrati nella storia del calcio. Il 12 marzo 1972 concede al Cagliari nel finale il rigore della vittoria per 2-1 sul Milan per quella che ritiene una gomitata di Anquilletti a Riva. Rivera si scatena contro Michelotti e il designatore Campanati: "È il terzo scudetto che gli arbitri ci rubano. Finché dura Campanati continuerà così". Il capitano rossonero è squalificato per due mesi e mezzo. Il 7 dicembre dello stesso anno dirige Roma-Inter; il giorno dopo un giornale di Roma apre con il titolone "Michelotti assassino", mentre altra parte della stampa gli fa i complimenti: concede nel finale all’Inter il rigore della vittoria per 2-1 dopo uno scontro Morini-Mazzola, facendo scatenare l’Olimpico. Ha scritto anche un libro dove sintetizza "Il decalogo dell’arbitro perfetto che deve avere: disciplina, concretezza, chiarezza espositiva, lealtà, vitalità, presenza, empatia, autorevolezza, fermezza, intelligenza, slancio, maturità emotiva, motivazione". Faceva parte del Club dei 27; i fedelissimi verdiani del Teatro Regio di Parma. È morto il 18 gennaio di quest'anno.

LUIGI AGNOLIN
Guido Agnolin, nato nel 1912 e morto nel 1994, è stato un grande arbitro: 164 gare di serie A, Premio Mauro nel 1952-53, una buona carriera da internazionale. Ma la cosa più bella che ha fatto per il calcio è aver tirato su il figlio Luigi da arbitro ancor più bravo di lui, con il senso della vita e dell’ironia pari al rigore. È uno dei pochi italiani ad aver diretto in due mondiali: 1986 in Messico (giudicato il migliore del torneo) e 1990 in Italia. Resta il fischietto considerato "inflessibile" per eccellenza, con uno stile diverso da Lo Bello, ma con una severità e un’energia di comportamento molto simili. Alla fine dei mondiali del ’90, cui è designato a furor di popolo e di stampa, anche se il potente segretario della Fifa Blatter era contrario, si dimette con un anno di anticipo sull’anagrafe ed è nominato designatore della C. Doveva essere l’uomo della svolta profonda assieme a Casarin ma nell’agosto del 1992 il Presidente Federale Matarrese, non sopportando il suo carattere "troppo autonomista", non lo riconferma e lui pochi giorni dopo restituisce la tessera all’Aia, pur restando grande amico e consigliere di tanti, giovani e vecchi, del mondo arbitrale. Ha diretto nell’87 in finale di Coppa delle Coppe (Ajax-Lokomotiv Lipsia 1-0) e nell’88 quella di Coppa dei Campioni (Psv-Benfica 6-5 ai rigori). E stato responsabile delle pubbliche relazioni dell’Assocalciatori, ha lavorato come direttore generale alla Roma (1994), come amministratore delegato al Venezia (1999-2000) e al Verona (2000-2001). Uomo di sport anche nella vita (ha realizzato uno splendido centro sportivo con piscine a Bassano) esordisce in serie A il 18 marzo 1973 (Fiorentina-Cagliari 3-0). Il "marchio" alla sua carriera lo imprime al derby di Torino del 28 ottobre 1980 perso 2-1 dalla Juve. Quando i bianconeri sono in vantaggio, per 1-0, Bettega si lamenta e Agnolin gli dice: "Stia tranquillo, sennò vi faccio un cesto così…". Nessuno dice "bah" (e d’altronde lui ha sempre diretto preferendo gli avvertimenti, sia pur coloriti, ai cartellini rossi). Uscendo dal campo, sconfitti, Bettega, Furino, Tardelli e Gentile insultano la terna dei giudici di gara. Il direttore generale della Juventus, Giuliano, entra nel suo spogliatoio: "Sa, un mio giocatore dice che…". L’arbitro lo fa accomodare fuori e scrive per filo e per segno il comportamento dei calciatori. Giuliano riferisce a Bettega che va dai giornalisti e afferma: "Agnolin mi ha insultato". Finì con il giudice Barbé che diede nove turni di squalifica ai quattro juventini e con Agnolin che, con lealtà, ammise subito la frase incriminata. Deferito, squalificato per quattro mesi, non fece appello e a fine stagione gli conferirono il Premio Mauro. Da quel giorno nacque il mito. È morto il 29 settembre 2018.

PAOLO CASARIN
È l’arbitro passato alla storia come "il grande comunicatore", in campo con i calciatori e fuori. Va sotto inchiesta, ma sarà solo ammonito, perché è accusato, dopo il derby della Mole del dicembre 1986, dal portiere del Torino Lorieri di dare del tu a calciatori come Cabrini: ma il tu era il mezzo per instaurare un rapporto con tutti. Lo squalificano per un totale di tredici mesi per tre interviste non autorizzate (critiche verso Concetto Lo Bello e verso la politica dell’Aia), ma nel 1990, con il placet del governo, è scavalcato con un’amnistia il limite dello statuto della Federcalcio che impediva di assegnare qualsiasi carica di dirigente federale a chi avesse superato l’anno di squalifica. E allora arriva la nomina a designatore della serie A e B, con Luigi Agnolin a capo della Can di C. Sono i due uomini della svolta. Lui proviene dall’esperienza di manager nel comitato organizzatore locale di Italia ’90. Anche se la carriera in campo fu brillante, qui è meglio anticipare quel che fece come designatore della A e B. Sette anni di seguito, i primi quattro di altissima qualità, gli ultimi tre in calando, con una rivolta dei presidenti regionali che chiedono la sua testa (Matarrese prima disse sì, poi lo confermò), e, infine, nel 1997 con un’esclusione per mano delle stesse società che lo giudicano ormai superato. In quei sette anni è anche componente della commissione designatrice della Uefa e per i primi quattro pure della Fifa. È estromesso dal Presidente Havelange per motivi mai chiariti. Assieme al segretario della Fifa Blatter (che nel ’98 ne sarebbe diventato presidente) avvia la rivoluzione degli arbitri di vertice verso la preparazione sempre più professionistica. Introduce il principio di designare "tutti gli arbitri per tutte le squadre", in modo da raggiungere uno stato di equilibrio. Da giacchetta nera (esordio in serie A il 25 maggio 1977, Bologna-Torino 0-0, Premio Mauro nel 1976-77) vive due grandi paure. In un Lecce-Taranto di serie B, durante un’invasione, un fotografo gli spacca il labbro; in un Fiorentina-Genoa, come ho raccontato in un altro articolo, del novembre 1981 un’uscita senza dolo del portiere Martina porta Antognoni vicino alla morte. Gestì la drammatica situazione in maniera impeccabile. Ha fischiato ai mondiali di Spagna del 1982 e agli europei di Germania del 1988. Dal 1997 al 2000 è dirigente a contratto della Figc; al termine restituisce la tessera dell’Aia che, per articoli non autorizzati gliel’aveva tolta, salvo poi trasformare la radiazione in quattro mesi di sospensione.

PIERLUIGI COLLINA
È il primo arbitro della storia mondiale a essere diventato veramente un personaggio, quasi quanto un grande campione. In campo ci sa fare, nella vita anche (è consulente finanziario) e non a caso quando era un emergente faceva il manager di pubbliche relazioni. Ma è anche un uomo che ha saputo trasformare in qualcosa di positivo una particolare malattia nervosa, l’alopecia, che poco prima dei trent’anni gli ha fatto perdere totalmente tutti i capelli e la peluria. Così, promosso da Agnolin, è arrivato alla Can nel ’91 già con il fregio di Kojak del fischietto. Casarin lo manda subito in B e il 15 dicembre in A per un Verona-Ascoli 1-0. Internazionale nel ’95, brucia le tappe e per Fifa e Uefa diventa una garanzia. Finale dell’Olimpiade di Atlanta ’96 (Nigeria-Argentina 3-2), arbitro dei mondiali di Francia 1998 e Giappone/Corea 2002 (dirige la finale tra Brasile e Germania), fischietto della finale di Champions League ’99 (Manchester batte Bayern con due gol nel recupero) e agli europei Olanda-Belgio del 2000. Qui diventa un idolo, i giornali inglesi gli dedicano le copertine scrivendo che è la rappresentazione umana del celebre quadro "L'Urlo" di Munch; la Repubblica Ceca lo contesta ritenendo regalato il rigore che manda avanti gli olandesi. In Italia è stato l’unico arbitro che abbia sospeso due gare per gli striscioni, riprendendole una volta tolti. Prima (febbraio ’96) solleva critiche perché la scritta "Casarin pagliaccio" durante Sampdoria-Torino non pare offensiva e comunque lo stop alla gara appare un segno di eccessivo zelo verso il designatore della sua categoria. Successivamente, nell'aprile del ’96, invece guadagna applausi perché chiama i dirigenti del Piacenza e dice: "Io non inizio la partita finché non viene levato lo striscione offensivo verso il milanista Baresi". È il primo arbitro della storia a commentare, autorizzato dai vertici, una decisione presa in campo: accade negli spogliatoi di San Siro il 10 marzo 1997 alla fine di Inter-Juve (0-0) quando dice di aver annullato un gol a Ganz un minuto e mezzo dopo perché il guardalinee aveva segnalato un fuorigioco. Dà spiegazioni anche in campo inginocchiandosi davanti alla panchina di Hodgson. Corona la sua stagione 1999-2000 con il Premio Mauro. Il 14 maggio del 2000 dirige la discussa partita Perugia-Juventus, decisiva per lo scudetto. La Juventus, che era due punti sopra la Lazio, era obbligata a vincere. Collina è costretto a sospendere l’incontro alla fine del primo tempo a causa di un violento nubifragio che si abbatte sullo stadio "Renato Curi". Dopo 71 minuti, placatosi il maltempo, fa riprendere ugualmente la partita che viene vinta per 1-0 dal Perugia, assegnando così alla Lazio lo scudetto.

Se mai è accaduto, mi piacerebbe che qualche dirigente di adesso avesse vissuto quei momenti. Quel genere di calcio. Ho come l'impressione che stiano dietro, insieme a qualche politicante messo ad hoc nella stanza dei bottoni, alla locuzione di Giovenale, famoso per le satire con cui denunciava le nefandezze del suo tempo. Il "Panem et circenses" indica dunque questo: l’agire di chi con poco si guadagna il favore delle masse. In altre parole, dato che il popolo aspira ormai solo a due cose (pane e giochi, ovvero, cibo e divertimento) chi gli promette qualcosa di concreto ne ottiene velocemente le simpatie, anche se quelle promesse non verranno mai mantenute. E la Var, panacea di ogni Male, sembra, oppure sembrava, la soluzione idilliaca a ogni sopruso. Presunto.
Se Giulio Andreotti diceva che "a pensar male si fa peccato" e Agatha Christie, di rimbalzo, rispondeva che "una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze fanno un indizio, tre coincidenze fanno una prova", bisognerebbe, a mio modesto avviso, solo nel calcio e specificatamente riportata agli arbitri, che la locuzione latina "medio stat virtus" fosse sempre alla base di ogni pensiero sportivo. 
Altrimenti, fuori i nomi! 
Non lanciate il sasso e ritraete la mano; non fate quelli che che pensano che ci sia sempre dietro una macchinazione.

"La calunnia è un venticello,
Un'auretta assai gentile
Che insensibile, sottile,
Leggermente, dolcemente
Incomincia a sussurrar.
Piano piano, terra terra,
Sottovoce, sibilando,
Va scorrendo, va ronzando;
Nelle orecchie della gente
S'introduce destramente
E le teste ed i cervelli
Fa stordire e fa gonfiar".

Del resto, solitamente, il sospetto ne è la sua anticamera.