L’addio di Roberto Mancini alla nazionale e la successione di Luciano Spalletti.
Sarà il profilo giusto? Chi può dirlo? La storia dei ct è costellata di profili che sembrava giusti e hanno clamorosamente fallito e di allenatori a cui non si dava una lira e hanno clamorosamente trionfato.
Il primo allenatore della nazionale italiana è stato … un arbitro.  

UMBERTO MEAZZA  
La nazionale italiana nacque il 13 gennaio del 1910, su iniziativa del presidente della Federazione Italia Giuoco Calcio (dall'anno prima nuovo nome della FIF), Luigi Bosisio, e di Arturo Baraldi, Segretario FIGC. A tal fine, in mancanza di allenatori veri e propri ed essendo gli arbitri i più esperti, tra gli addetti ai lavori, sul tasso tecnico dei diversi giocatori che militavano in Prima Categoria (l'odierna Serie A), la FIGC incaricò una Commissione Tecnica di scegliere i giocatori che avrebbero giocato in Nazionale per le prime partite (da qui il termine, ancora oggi in uso, di commissario tecnico).

A darne notizia, fu Foot-Ball, la rivista ufficiale della FIGC, il 13 gennaio del 1910: «Quest'anno anche l'Italia avrà la sua squadra nazionale composta da soli giuocatori italiani. La FIGC ha a questo d'uopo incaricata la Commissione Tecnica Arbitrale di mettere assieme una squadra che degnamente sappia rappresentare i colori d'Italia, colla speranza che la vittoria arrida agli undici valorosi atleti».

Della commissione facevano parte allenatori dei club, dirigenti, preparatori atletici, arbitri e, talvolta, persino giornalisti sportivi. Allora, tra l’altro, non era insolito che in una stessa persona si condensassero più discipline e ruoli: calciatori che erano anche arbitri o giornalisti che facevano gli allenatori. Non stupitevi, era un calcio pionieristico, che imparava da se stesso e così si evolveva. Compito della Commissione era quello di allestire il campo da gioco, convocare i giocatori e preparare il vestiario; mentre preparare atleticamente e allenare la squadra poteva competere a tutti i membri della Commissione oppure essere nominato un singolo componente, o interno o esterno alla stessa.

Tornando alla nascita della nazionale, la prima Commissione era formata da Umberto Meazza, Alberto Crivelli, Agostino Recalcati, Giuseppe Gama e Giannino Camperio. Tra di loro venne designato, per la prima partita e per altre 14 volte, Umberto Meazza come allenatore. Nato a Casteggio, il 1º gennaio del 1880, Meazza è stato calciatore e arbitro (sic!), prima di diventare, appunto, un allenatore. Commerciante di vino, è stato calciatore nei primi anni del novecento nel Mediolanum e nella US Milanese. Ed è stato un arbitro importante. Importantissimo per la storia dell’Inter, dal momento che il 24 aprile 1910 arbitrò lo spareggio scudetto Pro Vercelli - Inter (partita ricca di controversie, in cui il presidente vercellese decise di schierare la formazione giovanile), incontro che si concluse 10-3 per gli interisti, consegnando ai nerazzuri il primo scudetto della loro storia. Importantissimo anche per la storia del movimento arbitrale italiano. Fu infatti il fondatore, e primo presidente, dell'Associazione Italiana Arbitri, costituita a Milano il 27 agosto del 1911, in una riunione tenutasi nell'abituale ritrovo dei dirigenti calcistici dell'epoca, il ristorante Orologio, situato nei portici dietro il Duomo di Milano, non a caso, a lui è intitolata la sezione arbitri di Milano, insieme a Giulio Campanati.

Divenuto dirigente della FIGC, ha fatto parte della Commissione Tecnica della nazionale di calcio italiana per 32 partite, in vari periodi, a iniziare proprio dalla prima partita della nazionale, nel 1910 contro la Francia (dove assunse, per l’appunto, il ruolo di allenatore). L’incontro si tenne all'Arena Civica di Milano (nel 2002 intitolata a Gianni Brera).

Questa la squadra, scelta dalla commissione*: De Simoni Calì (C) Varisco Capello Fossati Trerè Debernardi Rizzi Cevenini Lana Boiocchi *(furono esclusi i calciatori della Pro Vercelli, squalificati dalla FIGC fino al 31 dicembre 1910). La maglia indossata era di colore bianco, con pantaloncini bianchi oppure neri e calzettoni a piacere (un anno dopo verrà invece adottata la maglia azzurra, colore dello stendardo di Casa Savoia, ma a tutt'oggi il bianco è rimasto come colore della seconda maglia). Gli spettatori furono circa 4000. L’arbitro, l’inglese Harry Goodley. La partita finì 6-2 per l’Italia, grazie ai gol di Pietro Lana (tripletta), Virgilio Fossati, Enrico Debernardi e Giuseppe Rizzi.

Meazza fu senz'altro l'elemento più rappresentativo delle varie commissioni tecniche, succedutesi alla guida della nazionale, tanto che rientra fra i 10 commissari tecnici che più volte si sono seduti sulla panchina azzurra, ricoprendo, appunto, in diverse gare (compresa la prima) il ruolo di allenatore dei giocatori. Rimarrà nelle varie commissioni tecniche fino al 1924.

L’ultima partita da allenatore dei giocatori fu un Svizzera-Italia (0-1), giocata il 17 maggio del 1914.

Morì a Milano il 21 gennaio 1926 all'età di 46 anni.  

 

VITTORIO POZZO (atto I)
Due anni dopo quell’esordio, fece la sua prima apparizione sulla panchina della nazionale Vittorio Pozzo. Vittorio Giuseppe Luigi Enrico Pozzo, nato a Torino il 2 marzo del 1886 e già calciatore del Grasshoppers e del Torino, venne nominato per la prima volta commissario tecnico della Nazionale di calcio in occasione delle Olimpiadi di Stoccolma, nel giugno del 1912: era l'esordio assoluto per una selezione italiana in una competizione ufficiale. Curiosità: accettò l’incarico con l'unica e singolare condizione di non essere retribuito.

Il 29 giugno del 1912, al Tranebergs Idrottsplats, la squadra venne eliminata al primo turno, perdendo 3-2 con la Finlandia dopo i tempi supplementari (il centrocampista dell’Inter, Franco Bontadini, al 10', segnò la prima rete ufficiale della storia azzurra).

Pozzo si dimise e tornò al suo lavoro alla Pirelli, scrivendo la parola FINE al primo atto di una storia che sarà strepitosa.

La nazionale ritornò nelle mani della cosiddetta Commissione tecnica.  

 

WILLIAM GARBUTT  
L’inglese guidò gli Azzurri in sei gare. Proprio a Garbutt risalirebbe l'abitudine di chiamare “mister” gli allenatori. Nato a ad Hazel Grove il 9 gennaio del 1883, William Thomas Garbutt è stato l'allenatore: del Genoa per 15 anni, dal 1912 al 1927 (a eccezione della pausa bellica), vincendo tre scudetti; della Roma, con cui vinse una Coppa Coni; del Napoli; e dell'Athletic Bilbao, con cui vinse un campionato spagnolo.
È stato un innovatore, ha rivoluzionato i metodi di allenamento, la preparazione fisica e la tattica.
Per l’appunto, è stato anche allenatore dell'Italia per sei partite, tra il 1913 e il 1914.
Dopo le Olimpiadi svedesi, la Commissione tecnica lo nominò allenatore per la partita del 1° maggio 1913, quando l'Italia batté il Belgio 1-0, con ben 9 vercellesi in campo (Innocenti, Valle, Ara - autore del gol - Milano I - il capitano - Leone, Milano II, Berardo, Rampini I e Corna).

Le altre 5 partite furono: Austria- Italia 2-0 (13.06.1913); Italia-Austria 0-0 (11.01.1914); Italia-Francia 2-0 (29.03.1914); Italia-Svizzera 1-1 (05.04.1914); Svizzera-Italia 0-1 (17.05,1914). Garbutt morì il 24 Febbraio del 1964.  

 

GIUSEPPE MILANO
In questi primissimi tempi vanno comunque menzionati i vari: Giannino Camperio, Alberto Crivelli, Giuseppe Gama, Luigi Livio, Edoardo Pasteur, Giuseppe Servetto, Vittorio Pedroni, Vincenzo Resegotti, Romildo Terzolo, Franco Varisco, Augusto Galletti, Edgardo Minoli, Gino Agostini, Guido Beccani, Augusto Rangone, Giuseppe Milano ... Sono il Gota degli albori del nostro calcio, tutti membri delle varie Commissioni tecniche e molti di loro succedutisi nel ruolo specifico di allenatore dei giocatori. 
Sono gli anni '10\'20, anni molto importanti, anni di Giochi Olimpici.  Nel 1920 furono i Giochi olimpici di Aversa, sulla panchina azzura sedette Giuseppe Milano. Dopo aver superato il turno di qualificazione, battendo, a Gand, per 2-1 l'Egitto, gli italiani accedettero per la prima volta al tabellone principale, ma furono subito eliminati nei quarti di finale dalla Francia (3-1 allo stadio Olimpico di Aversa).

Nato a Revere il 26 settembre del 1887, Milano fu bandiera della Pro Vercelli, sia da calciatore (di ruolo era centrocampista), sia da allenatore, veste in cui vinse ben 5 scudetti.

Morì a Vercelli il 13 maggio del 1971, a 84 anni.

VITTORIO POZZO (atto II) Nel 1924 furono i Giochi olimpici di Parigi, la squadra venne affidata nuovamente a Pozzo.

Nel turno di qualificazione l'Italia affrontò la Spagna, vincendo per 1-0, grazie ad una autorete degli iberici; negli ottavi di finale, allo stadio Pershing di Parigi, l'Italia superò per 2-0 il Lussemburgo; poi venne eliminata ai quarti, per mano della Svizzera, che ebbe la meglio sugli Azzurri, grazie al 2-1 inflitto allo stadio Bergeyre di Parigi.

Anche in seguito a questa sconfitta, Pozzo si dimise e tornò a dedicarsi al suo lavoro e alla moglie, che poco tempo dopo perderà per una malattia.

Dopo la scomparsa della moglie, Pozzo si trasferì a Milano, dove al suo lavoro in Pirelli affiancò quello di giornalista per La Stampa di Torino, che continuò quasi sino alla morte.  

AUGUSTO RANGONE  
Allenatore della nazionale dal 1925 al 1928, Rangone, prese parte alla Coppa Internazionale svoltasi tra il 1927 e il 1930: suo il pareggio per 2-2 contro la Cecosclovacchia (doppietta di Libonatti); sua la sconfitta contro l'Austria per 1-0; sua la vittoria contro gli elvetici per 3-2 (doppietta di Libonatti, Magnozzi) e sua la vittoria contro l'Ungheria per 4-3 (doppietta di Conti, Rossetti, Libonatti). Nel 1928, poi, ci furono i Giochi olimpici di Amsterdam. La squadra, seguita per la prima volta alla radio da tutto il Paese, si aggiudicò la medaglia di bronzo. Il cammino dell'Italia fu straordinario. Dapprima eliminò la Francia, battendola per  4-3 (Rosetti, Levratto, Banchero, Baloncieri). Poi eliminò la Spagna, battendola per 7-1 (Magnozzi, Schiavio, Baloncieri, Bernardini, Rivolta e doppietta di Levratto), nella seconda partita tra le due compagini, dopo che la prima era finita in parità. In semifinale fu sconfitta per 3-2 dall'Uruguay (Baloncieri, Levratto), terminando così la manifestazione sul gradino più basso del podio, grazie alla netta vittoria, per 11-3, contro l'Egitto. In quella finale per il 3/4 posto, giocata ad Amsterdam, all’Olympisch Stadion, il 9 giugno del 1928, epico fu il gesto di Fulvio Bernardini, il quale al minuto ‘85 calciò volontariamente fuori un calcio di rigore, per non infliggere ulteriore umiliazione agli avversari. Per la cronaca, il tabellino delle marcature fu: tripletta di Schiavio, doppietta di Baloncieri, tripletta di Banchero e tripletta di Magnozzi. Questa rimane la vittoria più larga della storia della nostra nazionale. E sulla panchina sedeva Augusto Rangone. Nato ad Alessandria l’11 dicembre del 1885, Rangone fu, nel 1912, tra i fondatori della società calcistica dell'Alessandria, per la quale ricoprì i ruoli di tesoriere, di direttore tecnico, di allenatore (nella stagione 1925-26, coadiuvato da Árpád Weisz) e di dirigente. Allenò anche Lazio, Pro Patria e Torino. Fu, inoltre, giornalista e diresse ad Alessandria, nei primi anni ‘30, il bisettimanale di storia e cultura locale L'informatore.

Nel 1949 la FIGC gli conferì il riconoscimento di "pioniere del calcio italiano", annoverandolo, insomma, tra i padri fondatori del calcio del nostro Paese.

Morì ad Acqui Terme il 4 dicembre del 1970.

CARLO CARCANO  
Poi, terminate le Olimpiadi in Olanda, il ruolo di allenatore fu affidato a Carlo Carcano, che rimase alla guida della Nazionale tra l'ottobre del 1928 e l'aprile del 1929. Nato a Varese il 26 febbraio del 1891, allenò per parecchi anni, fino al 1953 (Sanremese); allenò, tra le altre, l’Inter, il Genoa e l’Alessandria.

Fu il fautore, assieme a Vittorio Pozzo, dello schema tattico del Metodo o “WW” (il 2-3-2-3); ed è anche ricordato come uno dei principali teorici della cosiddetta “scuola alessandrina”.

Ma fu soprattutto alla guida della Juventus che si contraddistinse, facendo la storia del nostro calcio: tra il ‘30 e il ‘34 fu, infatti, il protagonista del celebre Quinquennio d'oro juventino, stabilendo l'allora record di 4 titoli consecutivi nel campionato italiano per un allenatore (superato da Massimiliano Allegri ottantacinque anni dopo). Dal club torinese fu poi allontanato nel dicembre del 1934, onde soffocare sul nascere uno strano scandalo omosessuale, in cui venne in qualche modo coinvolto.

Giusto il tempo di affiancare Pozzo nel mondiale del ‘34 e di fare l’allenatore in seconda al Genoa (vice di Vittorio Faroppa e Renzo De Vecchi ) e poi scomparve dal calcio per circa un decennio. L'esperienza nella panchina della Nazionale terminò dopo solamente sei gare (3 amichevoli e 3 match di Coppa internazionale), ma gli è riconosciuta l'introduzione dei primi schemi arretrati, con l'esordio del gioco di copertura e dei blocchi difensivi, mantenuti negli anni a venire dal suo successore, Vittorio Pozzo.

Le sue tre gare di Coppa internazionale furono: Svizzera - Italia 2-3 (doppietta di Rossetti, Baloncieri); Italia - Cecoslovacchia 4-2 (tripletta di Rossetti, Libonatti); Austria - Italia 3-0. Morì nel 1965, a 74 anni, a Sanremo.  

 

VITTORIO POZZO (atto III)

 Di lui il grande Giorgio Bocca scrisse: «Un tipo di alpino e salesiano arrivato chissà come alla guida degli azzurri senza essere né un allenatore di professione né un burocrate dello sport ma semplicemente un piemontese risorgimentale ciecamente convinto delle virtù piemontesi. Uno di quelli per cui la parola sacra è “ël travai”» Il 1 dicembre del 1929 Pozzo prese nuovamente possesso della panchina della Nazionale, ancora come commissario unico, e ci rimase fino al 5 Agosto del 1949, dopo ben 87 gare di fila; in tutto, fu commissario tecnico della nazionale per 6.927 giorni (primato mondiale ancora imbattuto), collezionando 97 panchine (65 vittorie, 17 pareggi e 15 sconfitte).

A lui si deve la prima vittoria della nostra Nazionale in una competizione ufficiale: la Coppa internazionale, disputatasi tra il 18 settembre del 1927 e l’11 maggio del 1930. Fu la prima edizione della competizione calcistica dell'Europa centrale (antesignana del nostro campionato europeo). La formula prevedeva un girone all'italiana (2 punti per la vittoria, 1 per il pareggio), con gare di andata e ritorno fra le cinque squadre partecipanti (Italia, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria e Svizzera). In palio per il vincitore vi era una coppa in cristallo di Boemia, donata dal primo ministro cecoslovacco Antonín Švehla, per cui la manifestazione fu nota anche come Coppa Antonín Švehla. Migliori marcatori (con 6 reti) furono gli azzurri Gino Rossetti e Julio Libonatti, il primo oriundo (Italo-argentino) della storia della nostra nazionale. Con 11 punti, L’Italia si aggiudicò il torneo. L’ultima decisiva partita si giocò tra Ungheria e Italia, l'11 maggio del ‘30 a Budapest, ed è noto l'episodio secondo cui Pozzo, da sei mesi nuovo commissario tecnico della Nazionale, portò i suoi giocatori a visitare i teatri di battaglia della prima guerra mondiale, prima di giocare; in pratica si trattava di battere nuovamente, in un colpo solo, le due nazioni eredi dell'Impero austro-ungarico, antico avversario nel passato conflitto, in cui Pozzo e molti dei suoi atleti avevano combattuto come soldati. La partita terminò con la netta vittoria italiana, che s’impose per 5-0 (tripletta di Peppino Meazza, Magnozzi, Costantino). Questo l'11 mandato in campo da Pozzo:

Combi Monzeglio Caligaris Colombari Ferraris Pitto Costantino Baloncieri (C) Meazza Magnozzi Orsi  

Tra il 1931 e il 1932, la seconda edizione della Coppa Internazionale, tra le stesse 5 squadre. Fu vinta dall'Austria di quel Matthias Sindelar che passò alla storia per le sue straordinarie doti tecniche e per la sua straordinaria opposizione al regime nazista. L’Italia arrivò seconda con 9 punti, a due lunghezze dagli austriaci (3 vittorie, 3 pareggi e due sconfitte).Ma è, quella, l’Italia che dominerà tutto il decennio, con Pozzo in panca e Meazza in campo.

Giusto il tempo di iniziare la terza edizione (‘33/‘35) della Coppa internazionale, e Pozzo conquistò il suo primo mondiale, la Coppa del mondo Jules Rimet 1934. Si disputò nel nostro Paese, tra il 27 maggio e il 10 giugno. Otto le città coinvolte: Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma (in cui si svolse la finale), Torino e Trieste. Sedici le squadre partecipanti, ma tra queste non risultò l’Uruguay, in segno di rivalsa nei confronti del vecchio continente, avendo diverse squadre europee disertato l'edizione del 1930 (da loro organizzata), per questioni legate al trasporto e alle spese. Dopo aver battuto gli Stati Uniti agli ottavi, la Spagna (priva del grande Zamora) ai quarti, e l’Austria “Wunderteam" delle meraviglie in semifinale, l’Italia trovò in finale la Cecoslovacchia. L'ultimo atto del mondiale ebbe luogo a Roma, il 10 giugno.  La formazione titolare fu: Combi Allemandi Monzeglio Monti Bertolini Ferraris Guaita Ferrari Orsi Meazza (C) Schiavio Vinsero gli azzurri al termine di una partita tiratissima: dopo avere incassato il vantaggio dei boemi con Puč, l’Italia trovò il pari grazie a un tiro al volo dell'oriundo Raimundo “Mumo” Orsi; quindi, nei supplementari, Angelo Schiavio realizzò il definitivo 2-1, svenendo per l'emozione dopo il gol. Per la squadra ci fu un premio di 20 000 lire a testa. Gianni Brera scrisse per La Repubblica: «Alla finale mondiale volle assistere anche Benitone da Predappio, che per dare l'esempio si era fatto acquistare il biglietto presso un comune botteghino. Il ducione seguiva eccitato l'andamento del gioco, ma, come ha lasciato scritto Jules Rimet, che gli sedeva accanto, non doveva capirci molto più di nulla» Dopo, nel ‘35, fu la volta della Coppa internazionale. Il ct continuava a fare uso sistematico dei "ritiri" (fu il primo a introdurre questa prassi). Il malumore dei calciatori per l’isolamento era smorzato da un fantastico spirito di squadra, che il “tenente” Pozzo sapeva generare. Uno spirito di squadra che consentì alla sua leggendaria Italia di aggiudicarsi la Coppa internazionale ‘33/‘35. Anche grazie all’apporto degli oriundi, rispetto ai quali lui ricevette molte critiche (per l’impiego), cui rispondeva così: “Se possono morire per l'Italia, possono, anche giocare per l'Italia”. E grazie pure ai suoi due portafortuna. Uno era una scheggia della Coppa Internazionale precedentemente vinta: accadde, infatti, che il trofeo cadde per terra e, essendo interamente di cristallo di Boemia, si ruppe in numerosi pezzi senza poter essere riparato. Il secondo portafortuna era un biglietto per l'Inghilterra, dono di un familiare che Pozzo non utilizzò mai. Ma sopratutto grazie al suo Metodo: due difensori arretrati e un giocatore centrale posto dinnanzi alla difesa, in mezzo ai due mediani (il cosiddetto centromediano metodista); l'arretramento verso la mediana dei due “attaccanti interni"(detti anche mezze ali) dava poi origine a una formazione del tipo 2-3-2-3 o “WW" (poiché ripeteva sul campo la forma di queste lettere); in questo modo si creava di fatto una superiorità numerica a centrocampo, la difesa risultava più protetta e i contrattacchi risultavano più rapidi ed efficaci. Pozzo però non era un integralista alla Meisl, anzi, partiva sempre dal materiale umano che aveva a disposizione (e a quei tempi era di altissimo livello); prova ne è che nel tempo crebbe nel suo gioco l'importanza delle mezze ali interne, semplicemente perché aveva a disposizione due fortissimi interpreti di quel ruolo, Giuseppe Meazza e Giovanni Ferrari, che non a caso furono gli unici due titolari fissi di entrambe le selezioni campioni del mondo. Quell’edizione della coppa, iniziata il 2 Aprile del ‘33, fu vinta dall’Italia, la quale totalizzò 11 punti. L’ultima partita, e data finale del torneo, si disputò a Milano il 24 Novembre del 1935 e fu un Italia-Ungheria 2-2 (Colaussi, Ferrari). Nel ‘36 l’oro olimpico! Il torneo di calcio si svolse dal 3 al 15 agosto a Berlino. La finale si disputò allo stadio Olimpico della capitale del Reich. L’Italia batté la fortissima Austria, ai tempi supplementari, per 2 reti a 1, con doppietta del vero mattatore di quella edizione, Annibale Frossi, il quale segnò in tutte e quattro le gare disputate (in tutto 7 gol); era stato scoperto da Pozzo mentre militava in serie B, prima col Padova, poi con L’Aquila. La formazione (di tutti esordienti, secondo le regole olimpioniche) di quella finale fu: Venturi Foni Rava Baldo
 Piccini
 Locatelli
 Frossi
 Marchini
 Bertoni
 Biagi Gabriotti


Nel 1938 il bis mondiale, in Francia. L'Italia iniziò il suo percorso dagli ottavi di finale, eliminando la Norvegia nei supplementari: 2-1 (Ferraris e Piola). Ai quarti eliminò i padroni di casa transalpini: 3-1 (Colaussi e doppietta di Piola). In  semifinale battè il  Brasile: 2-1 (Colaussi, Meazza); la gara con i sudamericani rimase inoltre celebre per il curioso episodio di cui Meazza fu protagonista, quando marcò il raddoppio su calcio di rigore, mentre era impegnato a sorreggere con una mano i calzoncini cadenti. In finale, allo Stade de Colombes, gli azzurri regolarono per 4-2 l'Ungheria, con doppiette di Piola e Colaussi. La formazione titolare fu:

Olivieri Foni Rava
 Serantoni Andreolo
 Locatelli
 Pasinati
 Meazza
 Piola
 Ferrari
 Colaussi Grazie a quei risultati, Pozzo fino al 2022 ha detenuto il record d’imbattibilità per un allenatore ai Mondiali (8 vittorie e 1 pareggio); oggi è secondo solo a Louis van Gaal. È inoltre l'allenatore più anziano ad aver vinto la competizione. Poi, una lunga serie di amichevoli.  A proposito, il 12 novembre del 1939 la sconfitta in amichevole con la Svizzera pose termine a un'imbattibilità aperta il 24 novembre del 1935 (Italia-Ungheria 2-2): i 30 risultati utili consecutivi di Pozzo saranno superati solo recentemente, prima da Marcello Lippi e poi da Roberto Mancini.

Quindi, la seconda guerra mondiale e le Olimpiadi del ‘48, a Londra, dove l’Italia si fermò ai quarti, sconfitta per 5-3 dalla Norvegia (doppietta di Caprile, Pernigo).

Da qui, le dimissioni: il 5 agosto del 1948. 

Poi la strage di Superga. Il Torino costituiva ovviamente l’ossatura della sua nazionale di quegli anni. A lui toccò il riconoscimento dei corpi dilaniati dei calciatori del Grande Torino, suoi amici e allievi, periti quel maledetto 4 maggio del 1949. Il racconto giornalistico di quei momenti è straziante:

«L’ex ct della nazionale è venuto a vedere i suoi ragazzi. I campioni che ha allenato con la maglia Azzurra e di cui ora scrive dalle pagine de La Stampa. Su quel volo, anzi, avrebbe dovuto esserci proprio come inviato del quotidiano torinese, ma la società granata gli ha preferito Luigi Cavallero. Pozzo se ne stà lì, in silenzio, lo sguardo assente. E a risvegliarlo sono le preghiere di un carabiniere. Lo supplica di aiutarli. Per loro distinguere quei corpi è impossibile, occorrono gli occhi di chi li ha conosciuti in vita e la tempra di chi può farlo ora. L’allenatore non si sottrae e li schiera ai piedi della basilica, uno a uno. Sviene un paio di volte, cede alla commozione indicandoli tutti, tranne Martelli e Maroso. Le loro membra martoriate sono individuate per eliminazione. E un peso enorme invade il cuore del vecchio maestro». Il maestro morì a Torino il 21 dicembre del 1968. Le sue spoglie riposano nel cimitero di Ponderano, paese di origine della sua famiglia.

 

BARDELLI/NOVO/COPERNICO È questa la Commissione Tecnica Federale che tra il 1949 e il 1950 guidò la Nazionale. Dei tre, comunque, colui che materialmente sedeva in panchina era Ferruccio Novo. La prima uscita del dopo-Superga (col lutto al braccio, che sarà portato per un intero anno) fu una gara di Coppa internazionale (la quinta edizione - ‘48/‘53), giocata contro l'Austria, il 22 maggio del 1949. Risultato: 3-1 per gli azzurri (Cappello, Amadei, Boniperti). Sugli spalti gremiti del Franchi di Firenze, anche il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi. È la nazionale di Cappello “l’ancheggiante”, di Boniperti, di Amadei, di Carapellese e di Tognon. Sembrava un’Italia che funzionasse, ma non fu così. La sciagura di Superga, in cui l'intera squadra torinese perì, aveva impoverito notevolmente gli azzurri sotto il profilo tecnico. E poi c’era un’eredità pesantissima da portarsi alle spalle: quella di Vittorio Pozzo. Così si arrivò al fallimentare mondiale del 1950. Nel timore di nuovi incidenti aerei, la squadra si recò in Brasile per via marittima, ma durante la traversata non poté svolgere un'adeguata preparazione. Sconfitta di misura dalla Svezia nel primo incontro (2-3, gol di Carapellese e Muccinelli), l’Italia non superò la fase a gironi, malgrado la successiva vittoria sul Paraguay, sconftitto 2-0 (Carapellese, Pandolfini). Nato a Livorno il 4 aprile del 1912, Aldo Bardelli è stato un giornalista e dirigente sportivo italiano; oltre che componente della Commissione tecnica della Nazionale italiana. Fu lui a proporre l'idea che gli Azzurri raggiungessero il Brasile in nave invece che in aereo. Da dirigente sportivo, fece le fortune del Livorno, che nel campionato di calcio di Serie A 1942-1943 si piazzò al secondo posto: il miglior risultato della squadra amaranto raggiunto nel XX secolo. Da giornalista, lavorò anche per la Gazzetta dello Sport. È scomparso nel 1971 all'età di 59 anni, a seguito di un attacco cardiaco. Nato a Torino, il 22 marzo del 1897, Ferruccio Novo, dirigente sportivo e allenatore, è ricordato anche come Presidente del Torino (nelle cui giovanili militò) dal 1939 al 1953. A lui si deve si deve la costruzione del Grande Torino. Fece inoltre parte della Commissione tecnica che subentrò a Pozzo. Si spense a Laigueglia, sulla riviera ligure, dove si era ritirato, l'8 aprile 1974. Nato a Malalbergo, l’ 11 dicembre del 1904, Roberto Copernico è stato un dirigente sportivo e allenatore di calcio italiano. Si avvicinò all'ambiente calcistico grazie al negozio di abbigliamento di sua proprietà, frequentato da importanti giocatori degli anni quaranta. Divenuto consigliere del presidente del Torino, Ferruccio Novo (fautore del passaggio dal Metodo al Sistema), all'indomani della tragedia di Superga, fu chiamato, con Oberdan Ussello allenatore, sulla panchina dei granata, per portare a termine il campionato, con lo scudetto già assegnato d'ufficio al Torino.

Fu, appunto, uno dei tre della Commissione Tecnica Federale del ‘49/‘50.

Morì a Torino,  il 15 settembre del 1988. Ma accanto ai tre, va menzionato anche Vincenzo Biancone, storico dirigente della Roma, che collaborò con la Federazione proprio nel biennio ‘49/‘50. Dopo il fallimento del mondiale brasiliano, la Commissione lasciò l’incarico. BERETTA/BUSINI/COMBI Nel 1951, per soli sei mesi e sole 5 partire, fu la volta di un altro trio: Piercarlo Beretta, Antonio Busini e Gianpiero Combi Un’altra Commissione tecnica. Nato a Gardone Val Trompia nel 1908, Piercarlo Beretta, (per tutti, Carlino), fu un imprenditore (erede dell’omonimo colosso delle armi) e dirigente sportivo (il suo percorso calcistico è legato al Brescia). Morì il 5 marzo del 1984. Nato a Padova il 5 luglio del 1904, Antonio Busini fu un centrocampista, tra le altre, di Fiorentina, Bologna (con cui vinse lo scudetto nel ‘29) e Padova; oltre che della Nazionale, ma per una sola partita. Dopo, fu dirigente sportivo e allenatore, del Milan e della Roma (in qualità di vice). Morì a Riccione il 20 agosto del 1975. Nato a Torino il 20 novembre del 1902, Gianpiero Combi fu il portiere campione del mondo e capitano della Nazionale italiana nel 1934 (vinse anche 2 Coppe internazionali); con 351 presenze (e 5 scudetti), appartiene alla nobile tradizione dei portieri della Juventus ed è considerato uno dei più grandi portieri della storia. Dopo il ritiro, si dedicò alla nazionale, appunto, anche da commissario tecnico. Morì prematuramente nel 1956, all'età di cinquantatré anni, a causa di un infarto. Le 5 partite di questa Commissione si risolsero in 2 vittorie (contro Portogallo e Francia) e 3 pareggi con (Jugoslavia, Svezia,e Svizzera). Poi, fino al ‘53, e per altre 8 partite, il commissario tecnico fu il solo Beretta, coadiuvato da Meazza. Otto partire in cui registrò due fallimenti: l'eliminazione alle Olimpiadi di Helsinki e il penultimo posto in Coppa Internazionale.

Ciò indusse la Federazione a voltare decisamente pagina.  

 

SILVIO PIOLA
Gli ultimi fallimenti indussero la FIGC a istituire una nuova Commissione tecnica. Ne fecero parte: Lajos Czeizler, tecnico ungherese che nel ‘49 aveva portato al Milan i tre leggendari svedesi, Nordahl, Gren e Niels Liedholm; l'ex campione del mondo Angelo Schiavio; e soprattutto l'ex campione del mondo Silvio Piola. Venne quindi creata una formazione giovanile (chiamata Primavera), riservata ad atleti d'età inferiore ai 22 anni, con una divisa da gioco verde, che nelle intenzioni avrebbe rappresentato un serbatoio da cui attingere per la consorella maggiore.

Nato a  Robbio il 29 settembre del 1913, Silvio Gioacchino Italo Piola, prima di allenare, fu un grandissimo attaccante, di Lazio, Torino, Juventus, Pro Vercelli, Novara e della nazionale (campione del mondo a Francia ‘38). Venne chiamato a far parte della Commissione tecnica della Nazionale italiana nel 1953, quando era ancora in attività come calciatore. Fu scelto come l’allenatore (rectius, come collaboratore di campo) del nuovo corso, ma rimase nella panchina azzurra per sole sette gare, esattamente fino al 23 giugno del 1954. Eliminato l'Egitto (1-2 all'andata e 5-1 al ritorno), la selezione venne ammessa ai Mondiali svizzeri del '54, ma uscì subito, al primo turno, perdendo due volte contro la Svizzera: persa, infatti, la partita inaugurale con gli elvetici (2-1, gol di Boniperti) e vinta per 4-1 quella contro il Belgio (Pandolfini, Galli, Frignani, Lorenzi), essendo l'Inghilterra irraggingibile, si andò allo spareggio per il secondo posto e lì gli italiani presero 4 gol dagli elvetici e furono rispediti a casa (inuitile il gol della bandiera del nostro Nesti).

L'esperienza del Mondiale fu per Piola condizionata dai cattivi rapporti tra Czeizler, vero decisore della Commissione.

Silvio Piola fu il primo allenatore ad essere ripreso in diretta tv. La partita di qualificazione con l’Egitto, giocata a San Siro, è infatti passata alla storia: è il 24 gennaio del 1954, è una domenica affatto qualunque, perché la televisione trasmette la sua prima partita di calcio in diretta; ancora però non c’era un accordo, nero su bianco, con la Federcalcio, così la Tv mandò in onda una diretta parziale, vale a dire solo per alcune fasi dell’incontro, e lo fece con ben tre telecronisti che si alternano nel racconto, cioè Carlo Bacarelli, Vittorio Veltroni e il grande Nicolò Carosio. Finita, non senza polemiche, l’esperienza “mondiale” e dopo alcune esperienze poco fortunate (a Cagliari soprattutto), Piola fece per oltre un decennio parte della FIGC, come osservatore e istruttore dei corsi per allenatori. Morì il 4 ottobre del 1996.


ALFREDO FONI  

Al fallimento del mondiale del ‘54 seguì l’epoca degli oriundi: calciatori d'origine straniera (perlopiù sudamericana), naturalizzati per difendere la maglia azzurra; del gruppo fecero parte Schiaffino, Ghiggia, Montuori, Da Costa e Angelillo. Per panchina fu scelto l’esperto Foni, fiancheggiato, negli anni, da sue diverse Commissioni tecniche. Ma le cose non migliorarono affatto, perché gli Azzurri mancarono l'appuntamento coi Mondiali del 1958, in Svezia.

Fatale fu l’Irlanda del nord. La gara si tenne a Belfast il 15 gennaio 1958 e all’Italia (già vittoriosa col Portogallo per 3-0) sarebbe bastato un pareggio, ma la sconfitta per 2-1 precluse agli azzurri il raggiungimento della fase finale. L’incontro si disputò al Windsor Park. Foni, raffinato tattico e precursore del difensivismo, per una volta cambiò le carte in tavola e decise di mandare in campo una squadra iperoffensiva: tre punte (Ghiggia, Pivatelli, Da Costa), una mezzapunta (Montuori) e un regista (Schiaffino), che non amava correre dietro agli avversari. La scelta si rivelò improvvida, anche perché sarebbe bastato un pareggio. L'Italia andò sotto 2-0 nel primo tempo (gol di McIlroy e Cush) e a poco servì la rete di Da Costa nella ripresa. È il famigerato disastro di Belfast. Vale a dire, sconfitta e niente Mondiale: la prima volta per la nostra nazionale, che pure non aevava partecipato ai mondiali del '30, ma solo perchè non aveva accettato l'invito della Fifa per l'edizione in Uruguay. Tra l’altro, la sfida contro i britannici ebbe un precedente curioso: nel dicembre del 1957 la partita, valevole per la qualificazione, venne trasformata in amichevole, a causa del mancato arrivo a Belfast dell'arbitro Zsolt, il cui volo fu impedito dalla nebbia; una gara caratterizzata da violenti scontri in campo e sulle tribune (alla fine la folla scavalcò le barriere e aggredì i nostri giocatori, che riuscirono a guadagnare gli spogliatoi solo grazie all’intervento della polizia) e che, per la cronaca, finì 2-2. Nato a Udine il 20 gennaio del 1911, Alfredo Foni fu calciatore (terzino sinistro) di Lazio, Udinese, Juve, Padova, Chiasso e della nazionale (oro a Berlino ‘36 e campione del mondo ‘38). Appese le scarpe al chiodo, allenò diverse squadre di club: tra queste, la Roma (con cui vinse la Coppa delle fiere nel ‘61), l'Inter (con cui vinse 2 scudetti), la Sampdoria e il Bologna. Allenò pure la Nazionale svizzera (dal ‘64 al ‘67).

Rimase alla guida degli Azzurri per 4 anni, dal ‘54 al ‘58 (in tutto, 19 gare). La sua esperienza sulla panchina azzurra finì, tra le polemiche (specie per l’impiego degli oriundi), nell'agosto del 1958, col commissariamento dell’intera federazione, al cui vertice dirigenziale fu posto Bruno Zauli. Foni morì il 28 gennaio del 1985.

 

GIUSEPPE VIANI (atto I)  

Allenatore per un giorno. Nel novero degli allenatori della nazionale va incluso anche Viani il quale, nel suo primo atto da allenatore della nazionale, allenatore lo è stato per un giorno, o meglio, per una partita. La partita è quella del 9 novembre del 1958, un’amichevole in terra di Francia. Il Corriere dello sport definì quella come “la nostra improvvisata ma tenacissima squadra”. La partita, giocata a Colombes, finì 2-2, con la doppietta Italiana di un giovanissimo attaccante del Padova: Bruno Nicolé.

Nato a Nervesa della Battaglia (Treviso) il 13 settembre del 1909, Giuseppe Ferruccio Viani, detto Gipo, prima d’intraprendere la carriera da allenatore, è stato un ottimo centrocampista (nella stagione 1929-30 vinse lo scudetto con l’Ambrosiana Inter). Poi, l’allenatore. Con 639 presenze è quinto assoluto nella classifica di presenze degli allenatori in Serie A (Roma, Bologna, Milan e pure Palermo, tra le altre). Era soprannominato"Lo sceriffo", tanto per i suoi metodi risoluti, quanto per una notevole somiglianza con John Wayne. Quella chiamata in Nazionale fu estemporanea e, appunto improvvisata, in quanto Viani in quel momento era già direttore tecnico del Milan (insieme all'allenatore Luigi Bonizzon).

 

GIOVANNI FERRARI (atto I) Dal dicembre del ‘58 al novembre del ‘59 la panchina italiana fu affidata a Ferrari. A lui il compito di disputare alcune delle partite della sesta e ultima edizione della Coppa internazionale- 1955-1960 (edizione in cui ci fu la prima partecipazione della Jugoslavia, portandosi per la prima volta il numero di squadre da 5 a 6). Nato ad Alessandria il 6 dicembre del 1907 e grande mezz’ala dell’ante guerra (campione del mondo ‘34 e ‘38 e 8 volte campione d’Italia con tre squadre diverse: Juve, inter e Bologna), da allenatore, nel 1950 entrò nei ranghi federali e divenne istruttore tecnico nei corsi per allenatori. Fu dapprima aiutante di campo per la Nazionale, poi, appunto, nel 1958, fu chiamato a sostituire Giuseppe Viani. Nella sua prima esperienza, coadiuvato da una Commissione tecnica di cui facevano parte i dirigenti Pino Mocchetti e Vincenzo Biancone, rimase sulla panchina italiana fino all’anno successivo, per 5 gare complessive: 3 gare di Coppa internazionale (due pareggi, contro Ungheria e Cecoslovacchia, e una sconfitta, contro la stessa Cecoslovacchia); e due amichevoli (contro Spagna e Inghilterra, pareggiate entrambe). GIUSEPPE VIANI (atto II)

Anche la sua seconda esperienza sulla panchina della Nazionale fu estemporanea e fulminea: durò 3 mesi, dal 6 Gennaio del 1960 al 13 marzo successivo. In questi tre mesi disputò appena due partite, una delle quali è l’ultimo incontro della Coppa internazionale ‘55/‘60, giocato al San Paolo di Napoli contro la Svizzera e vinto per 3 reti a 0 (autogol di Magërli e gol di Stacchini e Montuori). Ma l’Italia in cui Viani diede il meglio di sé fu quella olimpica. Apprezzava molto Nereo Rocco, perciò lo chiamò a collaborare per le Olimpiadi romane, dando vita alla squadra delle grandi speranze, che incantò quelle Olimpiadi e chiuse al quarto posto. L’Italia olimpica, in cui militava anche un certo Gianni Rivera, perse la semifinale contro la Jugoslavia (poi vincitrice del torneo), ma la perse solo ai sorteggi: la partita, infatti, finì 1-1 (per gli azzurri rete di Paride Tumburus al minuto 109), ma il regolamento allora prevedeva che, in caso di pareggio anche dopo i supplementari, si ricorresse alla monetina. È così, ci dovemmo accontentare della “finalina”, persa per 2-1 contro l’Ungheria (per l'Italia, gol di Tomeazzi). All’indomani di Roma, Viani rinunciò all’incarico di ct e tornò al Milan da direttore tecnico, dove l’anno dopo formò con Rocco (allenatore) un’accoppiata vin­cente: nuovo scudetto e la prima Coppa dei Campioni conquista­ta da un club italiano. Alcune fonti indicano Viani come il primo allenatore a introdurre il ruolo del libero; altri, tra cui il giornalista Gianni Brera, hanno attribuito invece questo merito a Ottavio Barbieri. Ciò che è certo è che Viani sfruttò al meglio l'invenzione del cosiddetto Vianema, che si configurò come una revisione del Sistema. La nascita del Vianema risale al periodo in cui Viani allenava la Salernitana, che peraltro portò in serie A per la prima volta nella sua storia; tuttavia, la reale paternità dell’invenzione fu oggetto di aspra contesa tra lo stesso Gipo e Antonio Valese, il capitano - allenatore in campo dei campani (pare abbia sperimentato lui la tattica, di sua iniziativa, durante un torneo estivo). Ad ogni modo, il Vianema prevedeva che il centravanti della squadra giocasse a ridosso del centrocampo, per spezzare il gioco avversario e fare da collante con la difesa, svincolando così il libero da compiti di marcatura: era il seme del Catenaccio. L'utilizzo del Vianema consentì alla Salernitana di non sfigurare in serie A (stagione ‘47/‘48), contro squadre ritenute molto più forti; e soltanto per un punto non ottenne una salvezza che mostrò di meritare (ci fu un pessimo arbitraggio nella sfida salvezza dei "granata del Sud" contro la Roma). Giuseppe Viani morì a Ferrara il 6 gennaio 1969.

 

GIOVANNI FERRARI (atto II) Dopo il breve ritorno di Viani, fu di nuovo la volta di Ferrari, che subentrò in solitaria: qualche amichevole e poi la qualificazione al campionato del mondo in Cile, che centrò senza particolari patemi.

Disputò, tra il '58 e il '59, anche 3 match valevoli per l'utima edizione della  Coppa Internazionale: pareggio interno con la Cecoslovacchia (1-1, gol di Galli), sconfitta esterna con gli stessi cecoslovacchi (2-1, gol di Lojacono) e pareggio interno con l'Ungheria (1-1, gol di Cervato).  

Sotto la sua guida, la massima rappresentativa italiana conobbe, tra l'autunno del 1960 e la primavera del 1962, una stagione complessivamente positiva, anche se il gioco offensivo da lui proposto, poiché congeniale ai vari oriundi, venne aspramente criticato dal giornalista Gianni Brera, in particolare dopo la sconfitta casalinga per 2-3, nell'amichevole giocata nel maggio '61 contro l'Inghulterra (Sivori, Brighenti).  

Per la fase finale, in Cile, gli furono affiancati Helenio Herrera, che però rinunciò poco tempo dopo, e il presidente della Spal, Paolo Mazza. Fu un mondiale travagliato.  A partire dall'esclusione dal novero dei convocati di Mario Corso, dopo un litigio con lo stesso Ferrari, la spedizione cilena fu tumultuosa sin dal principio, anche per i contrasti tra i due componenti della Commissione tecnica, divisi dalle diverse visioni di gioco (Mazza era un difensivista). Ferrari stesso, tempo dopo, ricordò l'esperienza declinando le responsabilità per l'esito negativo del mondiale: "Se l'Italia fu eliminata in Cile, non è colpa mia. Lo dissi allora e lo ripeto oggi. Io non contavo niente. Quando mi venne comunicata la decisione di affiancarmi Mazza, risposi che con me Mazza non avrebbe litigato. In parole povere avrei fatto decidere a lui".

L'Italia, considerata tra le favorite, uscì al primo turno, in un girone comunque di ferro (il girone 2), che comprendeva, oltre ai padroni di casa, la Germania ovest e la Svizzera. Principalmente la causa della eliminazione fu il caotico esito della partita contro il Cile. Partita ricordata come la Battaglia di Santiago. L’antefatto era un rapporto tra le due nazioni ai minimi storici e la contrarietà dell’opinione pubblica italiana a che il mondiale venisse giocato proprio lì. Era il 2 giugno del 1962, allo stadio nazionale del Cile. L’arbitro era tale Ken Aston, inglese. Aveva già diretto il Cile nella vittoriosa partita d'esordio e la circostanza che uno stesso arbitro diriga la squadra organizzatrice nelle prime due partite di un mondiale è rimasto un caso unico nella storia della coppa del mondo di calcio; a dire il vero, inizialmente era stato designato l'arbitro spagnolo Ortiz de Mendíbil, il quale era stato ricusato dalla Nazionale italiana perché di lingua spagnola, come i cileni. L’arbitraggio non si rivelò comunque all’altezza. L’Italia veniva dallo 0-0 ottenuto contro i tedeschi. La partita di conseguenza era molto importante, soprattutto per la nostra Nazionale, che doveva recuperare punti. Ciò indusse la Commissione tecnica italiana a chiedere all’allenatore di sostituire ben sei giocatori su undici, rispetto alla formazione schierata nella prima partita: il portiere Lorenzo Buffon, i difensori Giacomo Losi, Cesare Maldini e Luigi Radice, nonché gli attaccanti Gianni Rivera e Omar Sívori furono sostituiti da Carlo Mattrel, Mario David, Paride Tumburus, Francesco Janich, Bruno Mora e Humberto Maschio. La formazione schierata in campo fu:

Mattrel Robotti David Maschio Janich Salvadore Mora (C) Ferrini Altafini Tumburus Menichelli Fu una vera battaglia, scontri duri, mani addosso e proteste continue contro l’arbitro; espulsi due dei nostri (David e Ferrini). Una delle più violente nella storia del calcio. Finì 2-0 per il Cile. E azzurri a casa, nonostante la vittoria, poi, sulla Svizzera per 3-0 (doppietta di Mora, Bulgarelli).

All’eliminazione seguirono, come al solito, roventi polemiche, specie su allenatore e Commissione. Omar Sívori denunciò il pesante condizionamento della stampa, dichiarando di essere stato testimone di una conversazione in cui i due commissari si erano fatti influenzare, nella scelta dei titolari da schierare contro il Cile, da alcuni importanti cronisti, fautori del difensivismo (tra i quali pare vi fosse lo stesso Brera). Al ritorno Ferrari lasciò la guida nella Nazionale. Probabilmente, ebbe la colpa di non opporsi a troppe cose, come a persone sbagliate. Passivamente accettò in silenzio il peggio, limitandosi a parlare dopo, come ammise lui stesso, rammaricandosene, nella lettera di dimissioni inviata alla Federazione  

Morì a Milano il 2 dicembre del 1982.

 

EDMONDO FABBRI L’11 Nov del 1962, al Wiener Stadion di Vienna - fischio d’inizio ore 14 - ebbe inizio l’avventura di Fabbri sulla panchina dell’Italia (amichevole terminata col risultato di 1-2, grazie alla doppietta di Ezio Pascutti). Nato a Castel Bolognese il 16 novembre del 1921, Fabbri scrisse una delle pagine più nere della storia azzurra, eppure i suoi inizi lasciavano presagire altro. Nelle 26 gare che precedettero il mondiale, tra amichevoli e qualificazioni, soltanto 3 sconfitte e molte vittorie, anche di prestigio (come quelle contro Brasile e Argentina). 

Poi, il mondiale inglese. Fabbri decise di puntare sul blocco Bologna, trascurando invece i giocatori dell'Inter, vincitrice dello scudetto e semifinalista in Coppa dei Campioni. La vittoria col Cile per 2-0 (Barison, Mazzola), la sconfitta contro la Russia per 1-0 e infine la disfatta coreana. Una partita che rimarrà per sempre impressa nella memoria di tutti gli appassionati italiani, tanto da essere paradigma di ogni futura clamorosa sconfitta. La partita maledetta si giocò allo stadio Ayresome Park di Middlesbrough, il 19 luglio del 1966 - fischio d’inizio ore 19,30. Arbitro: il francese Schwinte Italia: Albertosi Landini Facchetti Guarneri Janich Fogli Perani Bulgarelli Mazzola Rivera Barison Che non fosse la giornata giusta si capì quando, a metà del primo tempo, s'infortunò il capitano Giacomo Bulgarelli; le sostituzioni, in quell'epoca, ancora non erano previste, quindi l'Italia restò in dieci. Al minuto ‘42 la rete di Pak Doo Ik, che rispedì a casa gli azzurri al primo turno.

Al rientro in patria, i tifosi bersagliarono di pomodori i componenti della spedizione. Fabbri restò sull'aereo per un'ora, per essere poi recuperato da un parente, che lo scortò fuori dallo scalo in auto. L’allenatore si dichiarò vittima di un presunto complotto ordito dallo staff medico. Nello specifico, sarebbe stato Artemio Franchi, il capo delegazione degli Azzurri, a ordinare a Fino Fini, medico della squadra, di assopire i giocatori ricorrendo a una sostanza dopante di colore rosa. Simili accuse, prive di fatti comprovanti, gli provocarono una squalifica da parte del Consiglio federale. E' pur vero, tuttavia, che Sandro Mazzola, diversi anni dopo, riaprirà la questione, dando sostanzialmente regione a Fabbri.

Fabbri allenò squadre di club per un altro ventennio (Torino, Bologna e Cagliari, tra le altre), fino alla stagione ‘80/‘81, in cui fece il direttore tecnico della Pistoiese.

Morì l’8 luglio del 1995, all’età di 73 anni.

 

 

FERRUCCIO VALCAREGGI  

A Fabbri subentrò Valcareggi, dapprima, per quattro partite, in coabitazione con Helenio Herrera, poi da solo, fino al 1974. In tutto, 58 panchine azzurre. Nato a Trieste il 12 febbraio del 1919, a lui si deve la costruzione di una grande Italia, che si laureò campione d’Europa ‘68 e vice campione del mondo ‘70. Ed è passato alla storia come l’allenatore che creò la prima vera grande staffetta, quel Mazzola/Rivera che fece discutere per decenni un intero Paese. È l’Italia dei due rivali "milanesi", di Domenghini, di Facchetti e di Riva. È una grande Italia. Che si qualifica agevolmente all’Europeo.

Il Torneo, nella sua fase finale (a 8 squadre) si disputò da mercoledì 5 a sabato 8 giugno del 1968; ma in realtà terminò due giorni più tardi, a causa della ripetizione della finale. Nei quarti (che non sono consoderati ancora fase finale del torneo) superò la Bulgaria, con un complessivo 4-3 tra andata e ritorno (nella partita di Napoli - 20\04\1968 - fa il suo esordio il ventiseienne Dino Zoff). La semifinale di Napoli contro l'Unione Sovietica terminò senza gol, con il passaggio alla finalissima deciso da una monetina. La finale con la Jugoslavia si dovette giocare due volte: la prima partita finì 1-1 (Domenghini); nella la seconda, 48 ore dopo, gli azzurri trionfarono per 2-0 (Riva, Anastasi), conquistando il primo titolo europeo della loro storia. Questa la formazione titolare della finale decisiva: Zoff Burgnich Facchetti (C) Guarneri Rosato Salvadore De Sisti Mazzola Anastasi Domenghini Riva Dopo il titolo continentale, ci furono le qualificazioni per il campionato mondiale del 1970. I campioni d’Europa vi accedettero superando agevolmente Germania Est e Galles. È il mondiale del Messico, il mondiale della staffetta Mazzola/Rivera, il mondiale della più famosa partita della storia del calcio, Italia - Germania ovest 4-3. In Messico, la squadra superò il primo turno con un solo gol all'attivo, quello firmato da Domenghini nel 1-0 contro la Svezia; quindi, i pareggi a reti inviolate con Uruguay e Israele. Nei quarti di finale la formazione sconfisse i padroni di casa del Messico, col netto risultato di 4-1 (autogol di Peña, doppietta di Riva, Rivera). Quindi la semifinale, la partita del secolo. Allo stadio Azteca di Città del Messico, il 17 giugno del 1970 s’incontrarono Italia e Germania. Finì 4-3 per gli azzurri (dopo i tempi supplementari), grazie ai gol di Boninsegna, Burgnich, Riva e Rivera. Inutile raccontare altro, conosciamo tutto nei minimi particolari, tanto è stato scritto, detto, narrato e rappresentato di quel leggendario match. Formazione dell’Italia: Albertosi Burgnich Facchetti (C) Bertini Rosato Cera Domenghini Mazzola* Boninsegna De Sisti Riva *sostituito da Rivera al ‘46 C’è allo stadio Azteca una targa commemorativa dell’incontro, denominato “Partido del siglo” Il probante impegno con i tedeschi riversò le proprie conseguenze sulla finale, in cui gli uomini di Valcareggi non riuscirono a contrastare atleticamente il fortissimo Brasile di Pelé: al vantaggio dei sudamericani rispose Boninsegna nel primo tempo, ma nella ripresa i verdeoro prevalsero per 4-1. In quella partita, oltre all'assegnazione del titolo di "campione del mondo", venne messa in palio definitivamente la coppa Jules Rimet: infatti, per il regolamento della FIFA, la prima squadra che si fosse aggiudicata per tre volte il torneo avrebbe ottenuto la coppa originale e dall'edizione successiva sarebbe cambiata. Valcareggi, vice campione del mondo, dovette affrontare le critiche per la staffetta e l’esiguo impiego di Rivera in finale (entrò a 6 minuti dal termine).

Così affrontò le qualificazioni all’Europeo Belgio ‘72, in cui perdemmo ai quarti, subendo un 2-1 proprio dai padroni di casa, dopo lo 0-0 dell’andata.

Poi, i mondiali del ‘74.

In mezzo, nell’autunno del ‘73, due partite storiche, sebbene fossero delle amichevoli. Prima, un Italia - Svezia 2-0 (giocata a Milano), con reti di Anastasi e di Gigi Riva, che diventò così il miglior marcatore della storia azzurra Poi, la vittoria di Wembley, con la famosa rete di Fabio Capello. Nei mondiali di Germania ovest, gli azzurri non superarono la prima fase a gironi. Nella partita iniziale, contro Haiti (vinta per 3-1, gol di Anastasi, Rivera e autorete), Valcareggi entrò in rotta di collisione con il centravanti della Lazio, campione d'Italia, Giorgio Chinaglia, il quale lo contestò platealmente in mondovisione per averlo richiamato in panchina durante la partita; la situazione poi rientrò nello stesso mondiale e Chinaglia giocò la partita contro la Polonia, grazie all'intervento del capitano laziale, Pino Wilson, e del tecnico biancoceleste, Tommaso Maestrelli; i polacchi ci batterono per 2-1 (Capello). Prima, avevamo pareggiato 1-1 con l’Argentina, grazie a un'autorete. E azzurri a casa.

Si chiuse un’era. Lasciarono la nazionale il commissario tecnico Valcareggi e giocatori del calibro di Enrico Albertosi, Tarcisio Burgnich, Gianni Rivera, Sandro Mazzola e Gigi Riva. Il tecnico allenerà ancora, tra gli anni ‘70 e ‘80, in seria A (Roma e Fiorentina) e nella selezione giovanile Italiana  di serie B. Morì a Firenze il 2 novembre del 2005.  

 

FULVIO BERNARDINI Nel settembre del 1974 la Federazione conferì a Fulvio Bernardini il compito di portare avanti il ricambio generazionale, ricercato attraverso nuovi elementi quali Gentile, Scirea, Antognoni, Tardelli, Bettega e Graziani.

Nato a Roma il 28 dicembre del 1905, già allenatore dell’Under 21 dal ‘56 al ‘58, fu ct  in solitario della Nazionale maggiore per un solo anno e 6 gare. Di queste 6 gare, 3 furono amichevoli e 3 furono partite di qualificazione ad Euro ‘76 (la sconfitta contro l’Olanda per 3-1, il pareggio 0-0 contro la Polonia e la vittoria di misura con la Finlandia).

Dal 1975 “Il dottore” (era laureato in Scienze economiche) affiancò Enzo Bearzot, nel ruolo di direttore tecnico. Un duo che rimase fino al 1977.

I due non riuscirono a centrare la qualificazione a Euro ‘76: fatali i pareggi interni, a reti inviolate, contro Finlandia e Polonia.

Andò anche male il Torneo del Bicentenario del ‘76, disputato negli Stati Uniti, dove l’Italia rimediò due brutte sconfitte, da Inghilterra e Brasile.

Un po’ meglio, per fortuna, le prime partite di qualificazione ai mondiali del ‘78: il duo Bernardini/Bearzot vinsero 4-1 col Lussemburgo (Bettega, doppietta di Antognoni, Graziani), 2-0 con l’Inghilterra (Antognoni, Bettega) e 3-0 con la Finlandia (Benetti, Bettega, Gentile). Finì così l’esperienza del mister che professava il credo calcistico fondato sul "WM elastico (un 3-4-3 ante litteram). Fulvio Fuffo Bernardini morì a Roma il 13 gennaio del 1984.

 

ENZO BEARZOT  
E comincia l’era del Vecio. Comincia nell’ottobre del 1977 e finisce nel giugno del 1986; 88 gare in tutto, uno dei ct più longevi della storia. Non solo, ma se si considerano le partite in cui ha affiancato Bernardini, Bearzot detiene il record di panchine da commissario tecnico della Nazionale italiana, avendola guidata complessivamente per 104 volte.

Nato a Joannis il 26 settembre del 1927, il suo nome è inevitabilmente legato a Spagna ‘82. Ma prima ci sono i mondiali argentini del ‘78, a cui si qualifica, a discapito dell’Inghilterra per differenza reti; provvidenziale in tal senso è la goleada del 15-10-1977 contro la Finlandia, battuta a Milano per 6 reti a 1 (4 gol di Bettega,Graziani, Zaccarelli). Bearzot adotta per la sua Nazionale la zona mista, allora utilizzata con successo nella Juventus allenata da Giovanni Trapattoni, squadra che ha vinto cinque degli ultimi sette campionati e i cui giocatori costituiscono l'asse portante della Nazionale stessa.

E i risultati si cominciano a vedere, già nel mondiale del ‘78. In Argentina l’Italia vince a punteggio pieno il girone (con Francia, Ungheria e padroni di casa). Nella seconda fase a gironi, comprendente anche Germania Ovest e Austria, gli Azzurri si piazzano dietro ai Paesi Bassi e disputano quindi la finale per il terzo posto, persa contro il Brasile per 2-1 (Nelinho e Dirceu per il Brasile, Causio per l’Italia). La nostra compagine si piazza dunque al quarto posto. Partita senza clamori, venne indicata come la nazionale che ha saputo mostrare il gioco più bello durante il torneo. In evidenza, il giovane Paolo Rossi, che segna 4 reti.

Due anni più tardi, nel campionato d'Europa del 1980, giocato in Italia, i padroni di casa - che per questo non devono fare le qualificazioni - raggiungono la medesima posizione, seppure in una difficile situazione ambientale: il calcio italiano è reduce dallo scandalo del Totonero che, scoppiato poche settimane prima, priva la Nazionale del suo centravanti di riferimento, Paolo Rossi, squalificato per due anni. Nella prima fase sono due pareggi a reti inviolate (contro Spagna e Belgio) e la vittoria per una rete a zero (Tardelli) contro l'Inghilterra. Per l'Italia c'è solo la finale per il 3/4 posto, che perde contro la Cecoslovacchia ai calci di rigore (errore decisivo di Collovati), dopo che la partita finisce 1-1 (Graziani) ai tempi regolamentari.

Quindi, il Vecio (il soprannome è opera dello scrittore Giovanni Arpino) si prepara per i mondiali spagnoli, a cui si qualifica totalizzando 5 vittorie, 1 sconfitta e 2 pareggi.

La nazionale che partecipa a España 82 fu una delle più criticate e avversate della storia. Nessuno crede nei ragazzi di Bearzot. Nessuno più crede in Paolo Rossi, fresco di rientro dopo due anni di squalifica. Nessuno, tranne il suo allenatore, che lo preferisce al romanista, capocannoniere delle ultime due stagioni, Roberto Pruzzo. Tra l’altro, l’Italia viene da una serie di amichevoli deludenti e un Mundialito (improbabile torneo disputatosi in Uruguay nel 1981) altrettanto deludente. E anche l’avvio della competizione è tutt’altro che positivo, anzi contribuisce ad aumentare lo scetticismo generale. Tre pareggi: 0-0 con la Polonia, 1-1 col Perù (Conti) e 1-1 con il Camerun (Graziani); e Rossi a secco, di gol e prestazioni. La seconda fase, ancora a gironi, è quella della svolta, anzi del miracolo che prende forma: 2-1 all’Argentina (Cabrini, Tardelli) e - altra leggendaria partita - 3-2 al Brasile (tripletta di Rossi). Così, la semifinale diventa quasi una formalità: 2-0 alla Polonia (doppietta di Rossi). La finale di Madrid, contro  la Germania ovest, quella del “Non ci prendono più” del Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, segna la storia: 3-1 (gol di Pablito, dell’urlante Tardelli e di Spillo Altobelli).  E Nando Martellini grida: “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!”. E' l’11 luglio del 1982.

Il Vecio vola sul tetto del mondo, vola giocando a scopa col Presidente. Questa la formazione di Italia - Brasile 3-2 (vera finale di quel mondiale):  

Zoff (C) Cabrini Collavati Gentile Scirea Antognoni Oriali Tardelli Conti Graziani Rossi Nel biennio post-1982, un gruppo azzurro evidentemente giunto alla fine di un ciclo manca l'accesso alla fase finale del campionato d'Europa 1984, risultato di opache prove nel girone qualificatorio, contro modeste avversarie quali Cipro, Romania e Svezia, oltre che Cecoslovacchia.

Da campioni del mondo in carica, gli azzurri ottengono la qualificazione d'ufficio al c