Il nome di Erving Botaka-Yoboma non vi dice un granché, vero? Sarò franco, nemmeno al sottoscritto. Almeno fino all'altro giorno, quando il nome di questo sconosciuto cominciò a campeggiare su tutti i più importanti giornali e siti italiani.  Sembra un giocatore come tanti, uno di quelli la cui esistenza calcistica ha proceduto in linea retta, senza scossoni o episodi degni di nota. Parrebbe così, tenendo poi conto del fatto che il ragazzo abbia solamente 19 anni (è nato nel 1998). In realtà, questo giovane di origini guineane - ma nato in Russia - è suo malgrado finito nell'occhio del ciclone a causa di polemiche che dovrebbero stare rigorosamente fuori dal mondo del calcio. 

Yoboma avrebbe dovuto vestire la maglia di uno dei numerosissimi club di Mosca - la Torpedo - ma all'ultimo istante il suo contratto già in essere è stato annullato. La motivazione? Perché ha il colore della pelle diverso dal resto dei russi e "noi, ultras della Torpedo Mosca, i negri in squadra non ce li vogliamo" - recita così il comunicato della frangia più spietata ed influente dei tifosi moscoviti - "Abbiamo il colore nero solo nei colori sociali, ma i giocatori sono esclusivamente bianchi." Cosa aggiungere? Non so voi, cari lettori, ma io sono rimasto pietrificato di fronte a parole così impregnate di odio e livore. Questa gente dovrebbe vergognarsi.

Il club russo, dal canto suo, ha prontamente inviato un comunicato ufficiale in cui spiegava i reali motivi dell'esclusione del calciatore russo-guineano: Yoboma, secondo gli accordi, sarebbe dovuto arrivare a parametro zero, ma il club precedente ne ha invece preteso il pagamento. Qualunque sia il motivo reale della bocciatura del ragazzo, le erbacce del razzismo nel calcio russo sono ormai difficili, direi quasi impossibili, da estirpare: chi di voi non ricorda il lancio di banane rivolto al grande terzino brasiliano Roberto Carlos, quando questi militava nell'Anzhi Makhachkvala? 

La piaga del razzismo permane non solo in Russia, ma anche in molti altri paesi. Pure noi italiani non siamo esenti da colpe. Gli episodi infatti si sprecano: i cori discriminatori verso l'ivoriano Zoro in un lontano Messina-Inter del 2005; gli ululati razzisti ricevuti da Blaise Matuidi nel match Cagliari-Juventus della scorsa annata (encomiabile fu il comportamento solidale del resto dello stadio nei confronti del francese); il celebre episodio dell'uscita dal campo di un infuriato ed esterrefatto Sulley Muntari in un Pescara-Milan in aperta polemica contro quei dieci scappati di casa che lo insultavano. Quest'ultimo evento, in particolare, destò enorme sensazione nel calcio italiano: il giudice sportivo, infatti, prese la clamorosa decisione di squalificare il ghanese per la sua scelta di lasciare il terreno di gioco, senza intaccare la fedina penale di quei trogloditi.

Indimenticabile fu un altro episodio di razzismo che, grazie alla brillante reazione del malcapitato, divenne il crocevia per cambiare veramente una mentalità ormai medievale, sensibilizzando l'opinione pubblica. Mi riferisco a ciò che accadde al 31' della ripresa di Villarreal-Barcellona, con i padroni di casa in vantaggio 2-1: Dani Alves si appresta a battere un calcio d'angolo quando dagli spalti del Madrigal vola una banana diretta verso di lui. Il brasiliano, vittima del "lancio" razzista, non fa una piega. Anzi, si piega, raccoglie la banana, la sbuccia e ne mangia un pezzo. Fu la migliore risposta possibile ai razzisti: in breve tempo il gesto di mangiare una banana divenne virale, come risposta di piena e umana solidarietà verso chi è colpito dal razzismo. Ecco come un semplice gesto possa diventare realmente rivoluzionario in un batter d'occhio, o almeno, fare giurisprudenza.

Vergogna e sconcerto sono le dirette conseguenze di ciò che avvenne a Roma lo scorso anno: adesivi con l’immagine di Anna Frank con la maglia della Roma e scritte antisemite di ogni tipo appiccicati nella Curva Sud dello stadio Olimpico da un gruppo di ultrà paradossalmente già squalificati per razzismo. Fu il lascito sconcertante dei tifosi biancocelesti a quelli romanisti (abituali frequentatori di questo settore dell’impianto), che scatenò reazioni durissime nella vita reale e sui social.  Uno degli episodi più recenti riguarda Mario Balotelli, il personaggio controverso per antonomasia del nostro paese: nel corso dell’amichevole Italia-Arabia Saudita, alcuni spettatori italiani esposero un vergognoso striscione in cui era stata scritta una frase razzista rivolta all'ex Inter e Milan. Il bresciano, tornato nuovamente in Nazionale dopo quattro anni e nominato vice-capitano da Roberto Mancini, riportò subito la foto dello striscione - che recitava "Il mio capitano è di sangue italiano" - in una storia dal suo profilo Instagram, dove scrisse: "Siamo nel 2018 ragazzi, basta! Svegliatevi! Per favore!". 

Che altro dire, la mia opinione l'avrete già capita e credo che tutti voi siate d'accordo con me: il razzismo è una vera e propria piaga sociale, che dev'essere combattuta ed eliminata per sempre. Esso è la conseguenza principale del disagio sociale in cui viviamo, soprattutto in un'Italia ferita da una crisi economica interminabile. Il razzismo è la tendenza a difendere quella che si ritiene la purezza della propria razza da ogni possibile contatto o contaminazione. Soprattutto, il razzismo è un reato punibile in Italia, come sancito dall'articolo 3 della nostra Costituzione. Il convincimento che la razza, il colore, la discendenza, la religione, l'origine nazionale o etnica siano fattori determinanti per nutrire avversione nei confronti di individui o gruppi, è un pregiudizio, una forma irrazionale di intolleranza, ma è anche e soprattutto un crimine punibile dalla legge italiana.

Meditate gente, meditate.