Caricati tutti i bagagli, speranze ed attese incluse, mi misi in macchina a percorrere quella che era, al momento, una semplice linea su di un foglio di carta. Non conoscevo la località a cui ero diretto, sapevo solo che si trovava su una sponda di un lago. Guidai per un paio d’ore abbondanti con l’entusiasmo di chi va in vacanza, giungendo ad una ripida stradina dai promettenti scorci.
Finalmente giunsi alla meta e là mi avventurai nei viottoli di un’antica borgata, tra aromi di muschio e voci sommesse. Appena entrato nel terrazzo annesso al mio piccolo appartamento, rimasi colpito da una visione dalla bellezza stupefacente e non potei far altro che sedermi al tavolino del terrazzo e da lì osservare il panorama più bello che avessi mai visto. Era mezzogiorno ed il lago, incredibilmente calmo, mostrava tutta la sua vastità, solcata qua e là da barche e traghetti e delimitata dai verdi monti della sponda opposta che si stagliavano contro un cielo turchino. Sorpreso da tanto spettacolo, avvertii il mio cuore battere per il desiderio di quello che poteva accadere, ma non osavo ancora sperare; in quell’ atmosfera mi lasciai cullare da un sogno, che forse là, in quella pace, poteva avverarsi.
Così vennero giorni di pensiero, quando alcuni frammenti di esistenza trovarono finalmente la loro esatta collocazione, la mente chiara verso un domani determinato. In quei momenti la mia fiducia prese a crescere lentamente, finché la speranza divenne certezza: proprio qui, con lei, avrei assistito a quella visione, con lei avrei parlato, sospirato, vissuto. Qui, da me, Jafah.
L’attesa si impossessò di ogni mio pensiero, di ogni momento, in cui già immaginavo lei magicamente inserita in quel luogo favoloso. Il tempo tornò a defluire lentamente, scandito dai rintocchi di una campana argentina, su sentieri immersi nel sole e nel verde, dai quali conversavo con lei, ignara. Quando finalmente giunse il giorno, tutto incominciò a scorrere veloce: il tempo, la strada, il cielo… fino a quell’ abbraccio non ancora scesa dal treno alla stazione, dove la strinsi forte in un barlume scarlatto, bella come il sole su di un mare di struggimento. Il suo fascino mi rapì completamente, tanto da non riuscire a ritrovare la via del ritorno. Divertendoci molto con mille peripezie e comici siparietti, finalmente giungemmo a destino. La magia di quel luogo subito ci travolse, lei insieme con me, per sempre.

Il tempo defluì lieto e gioioso, godendo entrambi della presenza dell’altro, il lago sullo sfondo; giunse veloce l’imbrunire, quando il crepuscolo trasformò la riva opposta in un dipinto dalle innumerevoli luci di case e lampioni. Pian piano si fece notte... e che notte!
Vivemmo in completa simbiosi per interi giorni a seguire, l’uno a intuire i pensieri dell’altro, scoprendo assieme incantevoli vedute del lago dalla grazia delicata. Giocammo a cercarci fra i fiori candidi e profumati di sontuose magnolie, osservando curiosi anitre e cigni, sorprendendoli nello spiccare dolcemente il volo dalle calme acque. Nascosti dalle fronde l’abbracciai dolcemente sentendo il calore del suo corpo diffondersi nel mio colmandomi di quella felicità che mai avevo avvertito in lunghi anni d’attesa: i nostri sguardi si sfiorarono, raggianti di essere uniti.
Una sera riuscimmo ad imbarcarci senza meta, solo per farci cullare dalle onde. In quei brevi istanti di traversata notturna si creò una forte intimità: con la luna alle spalle, ci divertimmo a riconoscere le luci di fronte a noi. Il suo corpo aderiva al mio, quando un alito di vento mosse i suoi capelli, scoprendo i suoi occhi ammiccanti brillare del nostro desiderio di vita, mai così guizzante, mai così libera. Un giorno vedemmo la pubblicità di una gita. Si trattava di andare in punta al lago e da lì salire sul treno che ci avrebbe condotto indietro attraversando molte valli in montagna.
Ci guadammo un attimo, e il giorno dopo, di buon’ ora eravamo in viaggio verso il trenino di montagna. Quando prendemmo posto sul treno eravamo vicini a un grande finestrino dal quale  potei scattare delle magnifiche fotografie del treno che si inerpicava tra ponti, gallerie e lontani panorami del lago. Il tratto in treno fu pieno di poesia e di sorprese, con paesini di montagna che offrivano ospitalità e buona cucina. Uno in particolare assomigliava al Paese delle Fate: quando il trenino si fermò alla stazione potemmo osservare che ogni casetta aveva due piani, un giardino con ogni varietà di fiori di montagna, compreso qualche bellissima stella alpina coltivate amorevolmente in vasi di terracotta. Sul balcone al primo piano di tutte le casette, un enorme distesa di gerani rossi appesi alla balaustra in legno e l’immancabile fumaiolo acceso con il cartello “Zimmer”, camere.
Erano tipiche baite svizzere in legno con le tendine ricamate alle finestre. Su di una spiccava anche la scritta “Bistro”, Trattoria. Alla vista di quel cartello. con uno sguardo d’intesa, decidemmo di scendere. C’era anche una chiesetta, addobbata per un matrimonio, bellissima, persino con dei magnifici vetri a cattedrale i quali, da una piccolissima scritta, scoprimmo essere italiani. Il matrimonio era terminato da circa un’ora e nella chiesetta non c’era più nessuno se non il profumo di mughetti e rose con cui era addobbato l’altare, in quel momento illuminato da un magnifico raggio di sole. Di lì a poco le campane suonarono dodici rintocchi, era mezzogiorno. Prolungammo la visita al paesino molto pittoresco, quando dal bistrò sentimmo suonare una campanella che evidentemente avvertiva eventuali avventori che il pranzo era pronto. Entrammo e l’Oste ci venne subito incontro e con grande nostra sorpresa ci diede il benvenuto in italiano, con un forte accento tedesco, esponendo il menu: antipastini di montagna (formaggi e salumi) con anitra arrosto con patate e per finire strudel appena sfornato.
Ci fece accomodare ad un tavolo per due e di lì a poco entrarono altre tre o quattro coppie, tutte sistemate in luoghi appartati del saloncino molto accogliente. Avvertimmo subito l’aroma della resina che bruciava ed infatti in un angolo scoppiettava un bel caminetto acceso che regolava bene la temperatura all’interno della baita. Una signora, molto discreta, ci servì il pranzo durante il quale, in una calda intimità, scoprimmo una moltitudine di antichi oggetti rurali appesi alle pareti, divertendoci a indovinarne l’uso. Io spesso guardavo gli occhi verdi di Jafah che notando il mio sguardo, abbassava il suo e immancabilmente arrossiva, ed io te prendevo la mano tra le mie. Mi sembrava un sogno essere lì, in quella magica atmosfera, con lei a cui potevo parlare con il cuore, desiderando di coprirla di baci.
Tutto il pranzo fu ottimo, in particolare lo strudel, ancora tiepido. Infine arrivò l’Oste con una splendida bottiglia di Schnaps (grappa) distillata da lui, secca, buonissima con un retrogusto prelibato. Gustammo la grappa, poi mi accorsi che stava per arrivare un trenino e, saldato il conto e ringraziato per l’ospitalità, ci affrettammo alla stazione. Risaliti sul trenino, ci godemmo ancora più di un’ora di quel paesaggio da favola di ponti e gallerie in mezzo alla foresta, per tornare sul battello che ci avrebbe riportato indietro. Il battello era tranquillo, ci accolse in un placido silenzio, permettendoci di dirci tutto quello che lo sferragliare del treno non ci aveva permesso.

Attraversammo alcune isole, di cui una sbarcammo a visitarla: era un giardino votnico ricchissimo, popolato di animali esotici, come diverse coppie di pavoni di cui anche albini che, a comando del custode, facevano la ruota, alcuni fagiani  tanti uccelli variopinti come canarini, cocorite e pappagalli, Dopo la visita di un paio d’ore tornammo sul battello dove  ci fu servita la cena a bordo che gradimmo molto, ammaliati dal paesaggio delle montagne che ci fecero letteralmente perdere il senso del tempo. Durante la cena ascoltammo la splendida musica delle quattro stagioni di Vivaldi. Seduti a poppa osservavamo la scia del battello incurvarsi ad ogni approdo per poi proseguire lentamente, così da impiegarci l’intero pomeriggio ad arrivare a destinazione, dove si giunse  appena in tempo per ammirare un suggestivo tramonto rosso fuoco che colorò tutte le case e gli oggetti di oro antico, disegnando una splendida scia sull’ acqua. Giunti ad un molo e seduti su una panchina, osservammo lo spettacolo del crepuscolo fino all’imbrunire.
Decidemmo quindi di ritirare la autovettura e facemmo ritorno lungo un litorale ben illuminato e a tratti molto abitato. Avvertendo il frescolino della sera pensammo ad un drink alcolico. Di lì a poco comparve una locanda con veranda da cui si godeva lo spettacolo della costa opposta molto illuminata con alcune autovetture che di tanto in tanto illuminavano le strade della sponda di fronte a noi. Ricorderò sempre quella capiente veranda illuminata da tante lampade di carta variopinte che facevano poca luce, ma creavano una dolce atmosfera di intimità; eravamo gli ultimi, non ci fecero fretta servendoci delicatamente in un cantuccio appartato mentre predisponevano il locale per il giorno dopo.

Usciti dalla locanda ci trovammo sotto un cielo stellato incantevole e decidemmo di fare due passi, godendo dello spettacolo della Via Lattea sul lago, molto seducente e romantico. Camminavamo lentamente finchè Jafah avverti nuovamente freddo, dunque le posi il mio giubbotto sulle spalle e la abbracciai stretta per qualche minuto, poi entrammo in macchina e con un appassionato bacio riuscii a riscaldarla.

Giunti a casa, ci sedemmo sul terrazzo, sotto delle calde coperte trovate in un armadio,  per parlare delle nostre sensazioni di quella giornata, della vacanza. Fu un colloquio molto dolce quasi sussurrato, essendo ormai notte fonda, in cui condividemmo sensazioni e emozioni, finché l’orologio del campanile scoccò due rintocchi ed entrambi avvertimmo la stanchezza e la nostalgia di quei magnifici giorni che si sarebbero conclusi l’indomani.
Ma quelle vacanze ormai avevano acceso una fiammella che niente e nessuno avrebbe mai spento.

 

 

 

“Maroso”