La seconda scelta non ha lo stesso valore sentimentale della prima. Sarà scontato, banale, ma è un dato di fatto. Ci ritroviamo, molto più spesso, ad avere a che fare con quelle che sono seconde, perché le prime hanno il sapore di essere irraggiungibili. A volte per noi, raramente per tutti. Ambiamo a quella cosa, a quel progetto, lo bramiamo, ci sbattiamo la testa, ma alla fine tocca accontentarci con quello che ne è il contorno, di quelle che sono le alternative. E quante, di queste alternative, coabitano il mondo del calcio? Giocatori in cima alla lista dei desideri che rimangono tali a causa di ostacoli economici. Oppure, nonostante le possibilità di instaurare una trattativa di valore monetario, questa non va avanti perché non tocca i sentimenti del diretto interessato. Giocatori, ma anche allenatori. E tra i tanti che girovagano nel panorama internazionale, l’emblema della seconda scelta non può che ricadere sulla figura di Maurizio Sarri.

Era già la sua ultima sigaretta

Come un sogno che dura più del dovuto, l’allenatore momentaneamente disoccupato, è durato un anno. Uno scudetto, ma comunque addio. Un matrimonio mai nato, ma privo di vita già al momento della firma. Nella conferenza stampa, Andrea Agnelli, presidente della Juventus, non ha presieduto, ma accanto a lui solo Paratici. Questo perché solo quest’ultimo l’ha voluto fortemente, mentre il figlio di Gianni, si è limitato ad un’insolita alzata di spalle. Maurizio Sarri è stato la versione concreta della seconda scelta e se vogliamo essere ancora più realisti, anche della terza, se non quarta, quinta e così via. In quella lista, l’allenatore in questione, non era nemmeno sul podio. Al primo posto c’era Pep Guardiola, da sempre la smania di Agnelli, che pensava di far forza sul blocco del mercato del City. Invece, come scrivevo poc’anzi, il sentimento era a senso unico: un sentimento d’amore, quello provato dalla Juve per Pep, ma solo di ringraziamento, quello provato da Pep per la Juve. E così che si virò su Zidane, ma già era subentrato nuovamente al Real Madrid. Agnelli giocò la carta “vieni da noi e creiamo un progetto vincente”, dimenticandosi però, che guidare il Real Madrid, fosse già un progetto vincente. E quindi si entrò nel panico, perché i nomi stavano per terminare. Si pensò a Klopp, ma il tedesco era troppo innamorato del “you’ll never walk alone”; poi si guardò in casa Lazio, ma Inzaghi aveva ancora un contratto da terminare; infine Gasperini, ma il tecnico sembrava – e sembra tutt’ora - pronto a rimanerci a vita. Gli allenatori finivano e bisognava decidere. Si guardò meglio e si trovò un Maurizio Sarri ai titoli di coda con il Chelsea. Paratici era entusiasta, Agnelli depresso. Alla fine arrivò lui, ma era già consapevole che stava per fumare la sua ultima sigaretta.

Un Maurizio troppo generoso

La generosità è un prezzo troppo alto da pagare. Bisogna giungere ad un compromesso e bilanciare le cose. Non bisogna sprofondare nella saccenteria, ma nemmeno militare nel silenzio. Questo ha pagato l’ex tecnico della Juventus, un mancato compromesso. Il suo fare così cupo, introverso, relegato sempre con se stesso e che tutti i giorni discuteva con il suo omonimo nello specchio, l’ha portato ad essere un uomo non più ricordato da nessuno. Forse a Napoli, dove però il ricordo non è bello come l’arcobaleno dopo un temporale. Con Sarri, sarà sempre un temporale per la tifoseria partenopea. Il suo motto del 4-3-3 lo porterà ovunque, sia in Italia che nell’altro capo del mondo. Adatterebbe chiunque pur di omologare i suoi giocatori alla sua legge modulistica. Anche se i giocatori non ci sono. Pep è un viziato nel mercato, tant’è che si è speso quasi un miliardo da quando è alla guida. In terra nostrana, il buon Antonio Conte ha instaurato tante volte un teatrino pubblico sulla panchina corta e sul fatto che “senza giocatori non si vince”. Maurizio no. Maurizio lo dice solo a se stesso. Si confida con il suo essere chiuso, perché tanto sarebbe bastato andare alla Juventus, cosa si poteva desiderare di più? L’essere puntigliosi sul mercato, specie quello estivo, è una tecnica di sopravvivenza di ogni allenatore. Questi vengono scelti per le loro idee, per i loro progetti e confermati se portano i risultati. Per Sarri non c’è stata la pazienza giusta, non si è aspettato. Nessuno potrà mai sapere se la seconda stagione sarebbe stata quella giusta. Purtroppo, ha pagato con la sua generosità, ma che lo rende allo stesso tempo responsabile di tutto ciò. Eppure, Sarri ha vinto. Non come gli anni precedenti, ma con la peggior difesa degli ultimi nove anni. Ha vinto spartanamente. È arrivato in cima anche per colpa delle inseguitrici. Sarri ha comunque vinto. Il problema è che lo ha fatto in una squadra dove ogni anno, in Italia, il trofeo arriva, ma questa è un’altra storia.

Amore et odio con i ragazzi

Se Agnelli non era mai stato convinto del suo arrivo, non era il solo a pensarlo. Anche alcuni giocatori condividevano la sua idea. Non tutti, ma diversi componenti sì. Innanzitutto, approdava un tecnico totalmente opposto a quello precedente – Massimiliano Allegri – e ostinato ai concetti tattici. Per Maurizio Sarri non esiste cosa più importante della tattica, degli schemi, dei modi di gioco già programmati, tutto quello che l’ha reso un innovatore a Napoli. Divergenze che si riflettevano nei pensieri del passato, dato che Allegri non era per niente ancorato alla tattica, anzi, per lui il mondo del calcio è un mondo abitato da troppi teorici, quando la differenza la fanno i giocatori “altrimenti Messi non varrebbe 250 milioni, Ronaldo non varrebbe 400 milioni e Higuain non varrebbe 100 milioni”. Già questa era una frattura. Ragazzi abituati a giocare senza imposizioni, liberi, guidati dalle loro individualità e dal senso percettivo in campo, con Sarri, si sono trovati un mastino dei dettami di gioco, un fautore del senso della posizione in campo. Questo ha fatto storcere il naso a molti. Ancora narcotizzati e assuefatti dalla democrazia di Allegri, con l’approdo di Sarri, finisce l’effetto anestetico ed ecco che i calciatori cominciano a sentire i primi disturbi, i primi effetti collaterali.

Quella che si viene a creare è un’armata brancaleone, sciolta prima di annodarsi. Un mal di pancia che l’allenatore già aveva nel giorno del primo allenamento e, conseguentemente, con le partite avvenire. Si vinceva in campo ma si perdeva nello spogliatoio. Il tecnico viveva un rapporto da separato in casa e i giocatori non l’hanno mai accolto come avrebbero dovuto. Forse perché non hanno mai creduto in lui, forse perché il tecnico cercava di comunicare con gli schemi e non con le parole o forse perché la sua troppa generosità portava dissidi anche nei rapporti umani. Nell’ombra, in disparte, sempre a trovar rifugio nelle sue sigarette.

C’era De Ligt ad acclamarlo, sempre pronto a difenderlo a spada tratta, con parole dolcificate dalla fiducia del mister. Un inizio difficile, che sembrava aver trovato la svolta, quando, Chiellini, si ruppe il crociato. Da riserva – solo per farlo crescere e adattare al contesto italiano – a titolare, seguito in campo da Bonucci e coccolato fuori da Sarri.

A questo, insieme all’olandese, si aggiunge Paulo Dybala, sempre caro al tecnico. Un feeling sbocciato da un modo di giocare che andava a risaltare la tecnica dell’argentino. Le belle parole reciproche non sono mai state risparmiate, sia che fosse in pubblico – con le conferenze o le interviste – sia privatamente.

Ma tanti altri non hanno avuto lo stesso approccio, a cominciare da Douglas Costa, che, non appena il tecnico era stato esonerato, non ha sprecato tempo a leggere il messaggio sui social e mettere like al post. Un like che equivale ad un “si, sono d’accordo”. Un cuore pieno su Instagram, ma a metà, spezzato, se confrontato con quello del tecnico. Sarri ha sempre cercato di fare il meglio per un giocatore forte, dinamico, che con la sua velocità è capace di bruciare chiunque, ma fatto di cristallo, visti i numerosi infortuni a cui è andato incontro. A volte titolare, altre no, altre ancora da subentrante, il mister ha cercato di creargli la situazione migliore attraverso una gestione che provasse a lasciarlo fuori dai guai muscolari, ma che invece, lo hanno seguito ovunque.

Nemmeno con Rabiot si è mai sbloccato un rapporto solare. Di certo le prestazioni del francese hanno aiutato per la discesa, ma è pur vero che c’è stata sempre poca fiducia e stima per l’ex parigino. Un rapporto a più ombre che luci, che ha continuato ad oscurarsi anche con i tifosi. Poi, dopo il lockdown, sembrava avesse avuto uno spirito diverso, ma senza nessun miglioramento tra lui e il tecnico. Insomma, si era già delineato un quadro clinico irreversibile.

Mandzukic e Can, l’emblema del silenzio di Sarri

Se prima esprimevo il mio disappunto sulla chiusura a chioccia sul fronte mercato, qui, trova la sua versione concreta. Due figure evidenti, conosciute e rappresentative della Juventus, specie il croato. Proprio con lui, si era deciso di continuare su strade diverse, causa il tetto ingaggi che iniziava a pesare (basta solo leggere quanto gravi lo stipendio di Ronaldo sul bilancio) e bisognava snellire i costi. Ma qui, il buon Maurizio Sarri, non ha proferito parola. Sapeva che Mandzukic sarebbe stato messo alla porta e sapeva anche della necessità di avere qualcun altro lì davanti. Rimanendo in silenzio, facendosi bastare ciò che la società mettesse a disposizione, lo ha messo in difficoltà, ma una difficoltà che si è creato da solo. Schierare un giovane Olivieri in Champions è stato frutto di valorizzare i giovani o perché mancasse qualcuno che facesse al suo caso? Anche qui, ha preferito il silenzio, litigando solo con se stesso, parlando solo con se stesso.

Poi con Emre Can, fuori dalla lista UEFA per scelta tecnica. I rapporti si sono sfaldati drasticamente nel corso del tempo, diventando talmente acuti che hanno portato il tedesco al Borussia Dortmund; ma, secondo Sarri, al 4-3-3, l’ex centrocampista della Juventus non rientrava nei meccanismi. Anche qui, nessun cenno di richiesta. Solo accontentarsi, bastava quello che c’era nel piatto, anche se la fame si faceva sempre più ingestibile e insopportabile. L’unica richiesta che fece era quella di un terzino sinistro. L’unica. Ovviamente non accontentato, forse perché si erano abituati al suo essere taciturno o forse perché non era così convinto e “aggressivo” l’ex tecnico della Vecchia Signora. Non intendo una sfuriata pubblica alla Antonio Conte, ma di certo un po’ più di verve occorreva. Anche qui, una generosità che ha pagato a caro prezzo.

Con Ronaldo?

Rispetto, nulla di più. Nessun rancore, nessun sentimento. Solo rispetto reciproco per due professionisti che svolgono correttamente la loro professione. Solo in un’occasione CR7 si impermalosì, ovvero quando Sarri decise di non convocarlo nemmeno in panchina. Lui stava bene e non bisognava esserne influenzati dal peso della carta d’identità. Poi con il tempo l’allenatore lo capì, e divenne il fulcro della squadra, senza rispettare nessun tatticismo. Ronaldo era il cane sciolto della Juventus, colui che la tattica te la creava, non c’era bisogno di insegnargliela. Insomma, solo calma piatta continua tra i due.

Nei corridoi di casa Juve si vociferava che Ronaldo sarebbe andato via se fosse rimasto Sarri. Ma è stata una voce talmente flebile che si è persa nel suo viaggiare. Quello che è vero è che il portoghese aveva un feeling particolare con Allegri, perché il modo di giocare in campo era inesistente, privo di tatticismi; solo qualche posizionamento strategico. C’era una completa democrazia e non anarchia. Questo faceva sentire Ronaldo a suo agio. Con Sarri un po’ meno, troppo chiuso nella gabbia schematica dei teoremi sarriani, anche se poi troverà la sua “via di fuga” in campo anche con lui. Tra i due, come scrissi prima, c’è sempre stato rispetto e, di certo, non è stato Ronaldo a mandare via Sarri.

Il domani di Sarri ha giocato a carte scoperte

Un correre continuo, ma senza lasciare un bel ricordo di sé. Forse solo ad Empoli, dove riuscì a costruire un binomio perfetto e affascinante di un allenatore prepotente in campo, capace di essere aggressivo, di segnare e di conservare una bella immagine tra i tifosi. Con il Napoli è stato capace di totalizzare 91 punti e di creare un calcio favoloso, una delizia per gli occhi di chiunque. L’addio è stato strappalacrime, se ne andava un allenatore che avrebbe trovato posto nella hall of fame. I dissidi tra la tifoseria partenopea sono culminati dopo l’esperienza londinese. Già, perché dopo di questa, fu una scelta importante che mandò in frantumi il cuore di Napoli. Lì, dove giace la maestosità del Vesuvio. Un vulcano quiescente, silenzioso, pronto a scatenarsi non appena l’allenatore sarebbe ritornato in Italia. Poi in Inghilterra, capace di vincere l’Europa League, ma senza conservare quell’impronta che si sarebbe incastonata per sempre nella storia del club. Bei giocatori, bel gioco, ma anche qui, soltanto un vuoto nei ricordi dei beniamini. Per poi giungere alla Vecchia Signora, una firma che si contornava di due effetti distruttivi: quello dell’anima napoletana e quella bianconera, visto che sapeva più addio che di annuncio. Una sala conferenza spoglia del Presidente Agnelli; un mix dei tifosi che si adagiava nella delusione del mancato arrivo di Pep, ma che ancora si sosteneva alla speranza del bel gioco; la curiosità di Paratici nel vedere all’opera il nuovo allenatore; la preoccupazione dei giocatori, svincolati dalle teorie tattiche e fautori del divertimento in campo, della giocata singola. Per loro si stava preparando una sfida che non avrebbero accettato di buon gusto, mentre Sarri stava per acquistare un “pacchetto di sigarette” molto più nocivo di quanto pensasse.  

Maurizio Sarri non ha avuto il tempo di esprimersi, ma un po’ è stato anche per colpa sua. È andato in una società che non ha mai manifestato quel desiderio incontrastato di volerlo, ma che sin da subito ha rivelato la praticità di virare su altri. Lui è stato l’ultima spiaggia ed ha accettato lo stesso. L’aria inglese non gli piaceva più e, la sua impulsività, l’ha portato a Torino. Quella boccata d’ossigeno, quell’aria italiana che gli mancava da troppo tempo, ma che invece non ha fatto altro che soffocarlo. Un rapporto irrequieto con la maggior parte degli addetti ai lavori. Quello che ha seminato Sarri è un lavoro estenuante, che però verrà ricordato in maniera distorta, come se non avesse fatto nulla. A Napoli è bastata una scelta per mandare in frantumi il cuore dei tifosi e il suo operato nel corso del tempo; a Londra, la sua pigrizia di non contare fino a dieci, farà sprofondare le sue idee in un eterno oblio; infine, con la Juve, ha vinto il campionato, ma non basta e, anche lui, verrà rimembrato come uno che ha fatto il suo lavoro, pagando il prezzo di averlo fatto in una società abituata ad alzare trofei.

Nella mente di Sarri c’è solo tempesta, e il cielo, non ne vuole sapere di aprirsi.