Tutto è soggettivo.
Proprio per questo diventa impossibile giudicare l’operato altrui. A parte alcuni comportamenti basilari che sono obiettivamente errati e che la società considera tali sanzionandoli, diviene assurdo comprendere quali azioni siano corrette e quali non lo sono. Ogni individuo è cresciuto con un proprio io, insegnamenti diversi e si è creato così idee e concetti assolutamente personali. Nessuno è in grado di sostenere che tale struttura sia fallace. Semplicemente si può concordare o meno con essa ma, quando rimane all’interno della legalità, è ineccepibile. Una simile teoria apparirebbe scontata, in realtà diviene molto complesso porla in pratica. L’accettazione di un’espressione di vita diversa è qualcosa di complicato e non tutti riescono a portarla a compimento se non verbalmente. Occorre affermare, poi, che non esiste la perfezione. L’essere umano è limitato e proprio per questo non sarà possibile trovare la persona irreprensibilmente corretta. Quando gli scribi e i farisei volevano lapidare un’adultera, Gesù affermò: “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Indipendentemente dal credo religioso, questo passo del Vangelo risulta veritiero e attuale. Riassume perfettamente il concetto che si cerca di manifestare.

Questa prefazione vuole essere utile allo scopo di sostenere che è sempre difficile stilare delle graduatorie. Sovente si chiede: “Chi è il tuo calciatore preferito?” La risposta non sarà mai unanime. Affermare quale sia personalmente il migliore è qualcosa di praticamente impossibile. Esistono molteplici variabili da calcolare e, siccome nessuno raggiunge la perfezione, diviene un’autentica impresa selezionare tra tanti fantastici atleti. L’opera è ancora più assurda se è circoscritta all’interno della Juventus. Da questa compagine sono passati troppi campioni per stabilire chi di loro rappresenti il top. Uno, però, mi è rimasto particolarmente nel cuore per più di un dettaglio. Mi riferisco a Carlos Tevez.

Mi scuseranno i vari sostenitori di Del Piero che resterà per sempre l’emblema bianconero nell’universo, ma vorrei spiegare i motivi della mia decisione. Prima di tutto, il mio rapporto con la figura dell’Apache è davvero particolare. Agli inizi della sua carriera ero poco più di un bambino e, quando vinse l’Olimpiade nel 2004, non nutrivo grande simpatia per questo argentino che, con un’idea assolutamente errata della realtà, mi appariva un coetaneo scontroso e leggermente sbruffone. Per intenderci, uno di quei bulletti che al campetto deridono chi è meno abile di loro nel destreggiarsi con un pallone tra i piedi. Poi la carriera di Tevez è proseguita e, nel 2008, il sudamericano conquistò la Champions League con il Manchester United prima di trasferirsi al City. In quel periodo, i miei sentimenti primitivi nei confronti dell’Apache si mutarono in piena apatia. Inizialmente non lo reputavo un grande giocatore, ma con il trascorrere del tempo modificai la mia opinione.

Un tardo pomeriggio di giugno del 2013, in attesa di uscire, avevo acceso il televisore su Sky Sport 24 e ricordo che diedero la notizia del blitz con il quale Marotta riuscì a portare Carlitos in bianconero. La mia percezione nei confronti del sudamericano era ormai completamente diversa rispetto a 10 anni prima. Ero al settimo cielo. Sapevo che la Juventus aveva centrato il colpo del secolo e non mi allontanavo troppo dalla realtà. L’Apache sbarcò sotto la Mole e non ebbe alcun timore nell’ereditare immediatamente la maglia numero 10 precedentemente appartenuta a un certo Alex Del Piero. Come non si può non essere ammagliati da una simile personalità. Sotto l’auge di Conte, la coppia formata da lui e Llorente devastò la serie A. Quella versione della Vecchia Signora era assolutamente fenomenale in tutti i reparti e riuscì a raggiungere quota 102 punti in campionato. Fu un record straordinario che faceva da contraltare a una campagna europea piuttosto deludente. Il vero capolavoro dell’Apache, però, avvenne nel 2014-2015. In quella stagione Tevez sfogò tutta la rabbia per l’esclusione, operata da Sabella, dalla selezione argentina che giunse seconda al Mondiale brasiliano dell’estate precedente. E se Carlitos fosse stato presente al “Maracanà” nella finale contro la Germania? Sarebbe andata diversamente per i biancocelesti? Non lo sapremo mai… La prima Juventus di Allegri fu la sorpresa migliore di tutte. Ricorderò quell’annata come la più esaltante di sempre e poco importa se si concluse nel peggiore dei modi con i sabaudi che rientrarono da Berlino con un pugno di mosche in mano. Il triplete non arrivò. “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. E’ vero, ma il calcio è emozione e quel gruppo di uomini regalò sensazione che i tifosi della Vecchia Signora non avevano quasi mai provato. Fu una cavalcata tanto inaspettata quanto trionfale. Nei supporter bianconeri si leggeva una soddisfazione incredibile che era direttamente proporzionale al trascorrere del tempo. Gli “scettici contiani”, e io tra questi, modificavano lentamente la loro opinione. Ricordo che l’addio del pugliese e la scelta di affidare la panchina al toscano mi turbò parecchio, ma già le prime dichiarazioni di Allegri mi convinsero che Max rappresentasse la scelta più efficace. Il livornese non si nascondeva e affermava di voler condurre quella squadra tra le prime 8 d’Europa. Obiettivo raggiunto. Tevez fu assoluto protagonista di quella magnifica annata che fece tremare i “gufi” esplosi poi in un immenso sospiro di sollievo soltanto quando Neymar trafisse Buffon segnando il 3-1 che spedì in orbita il Barcellona di Luis Enrique. L’Apache ritrovò il gol in Champions che gli mancava dai tempi dello United e da quel momento non si fermò più. Un’astinenza così prolungata rappresentò un assurdo per un bomber del suo livello. Infatti, in quella stagione rispose alla grande con una serie immane di reti decisive contro Malmoe, Borussia Dortmund e Real Madrid. Nell’estate del 2015 decise di lasciare la Vecchia Signora per trasferirsi al Boca Junior, il suo grande amore. Carlos restò a Torino soltanto 2 stagioni vincendo altrettanti Scudetti, una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana, ma è come se fosse stato juventino da sempre. Quei 730 giorni rappresentarono qualcosa di assolutamente speciale e unico per intensità e sentimento.


Durante queste festività, ho letteralmente divorato la serie Netflix che descrive l’infanzia di Tevez e ho avuto più di una conferma rispetto a quello che già sapevo della sua fanciullezza. La percezione del ragazzino sbruffone che mi forniva quando era poco più di un adolescente era assolutamente fallace. Non è mia intenzione cadere nel solito cliché del calciatore, cresciuto nel barrio, che con perseveranza ha conseguito il suo sogno senza mollare diventando un campione ineccepibile sotto ogni punto di vista. Non sopporto questa retorica. Come dicevo prima, nessuno è perfetto e anche Carlitos ha i suoi limiti e le sue lacune. Detto questo, la vita del sudamericano è un toccante romanzo. Non può che colpire l’intimità di chi la conosce. Crebbe con la zia materna, Adriana Martinez, e il marito Segundo Tevez dal quale acquisì poi il cognom, perché la madre non riusciva a farsene carico. Ancora in fasce, una fatidica distrazione di chi era con lui gli costò una pesante ustione della quale porta ancora i segni sul corpo. Un recipiente colmo di acqua bollente gli cadde addosso e per condurlo in ospedale decisero di avvolgerlo in una coperta di nylon peggiorando notevolmente la situazione. Il neonato dovette restare per più giorni in terapia intensiva in bilico tra la vita e la morte. La famiglia abitava a Buenos Aires nella Torre 1 del quartiere Ejercito del los Andes. Quella zona era talmente pericolosa da essere chiamata Fuerte Apache. Il nome deriva dal noto film Fort Apache, The Bronx. Penso non vi sia necessità di ulteriore analisi. Il degrado era a livelli eccezionali così come la malavita che frequentava il barrio. Tevez racconta che mentre giocava a pallone sovente si trovava in mezzo a una sparatoria. La fanciullezza non gli consentiva di rendersi conto del pericolo che stesse correndo e spesso i bambini scherzavano sul timore creato nel loro animo di fuggire da una simile condizione di vita. Il suo migliore amico, probabilmente più abile di lui nel pallone, fu letteralmente inghiottito dal “Forte”. Carlitos, invece, tra sofferenze immani riuscì a emergere e grazie al calcio forse preservò la sua esistenza.

Ribadisco che non voglio cadere nei soliti discorsi retorici, ma una simile infanzia non può che facilitare la grandezza del giocatore e dell’uomo. Se una persona riesce a uscire indenne da quella situazione, non può non capire cosa significhi la vita e percepire il valore che ha. La realtà può provocare dolori diversi e inimmaginabili in ogni angolo del mondo. Questi consentono di comprendere il vero senso dell’esistenza e non è possibile sostenere che Carlos non li abbia vissuti. Trattando esclusivamente di calcio, concordo pienamente con Allegri quando l’ex tecnico della Juventus afferma che i bambini devono essere lasciati liberi di esprimere il loro ego e di divertirsi. Non sono solito criticare, ma vorrei manifestare il disappunto per l’operato di parecchie scuole calcio delle nostre latitudini. Credo che la cultura di queste zone stia creando sempre più automi e meno giocatori in grado di destreggiarsi nelle difficoltà. Si concede un valore troppo elevato alla conoscenza teorica. Per carità, è importante. Detto questo, ogni eccesso risulta inefficace. Vedo infanti più piccoli del pallone che crescono in allevamento e che si allenano con miriadi di esercizi studiati a tavolino per migliorare le loro capacità tecnico-tattiche. Non voglio giudicare il lavoro di chi sicuramente ha più competenze del sottoscritto, ma gradirei porre alla luce un diverso punto di vista. Magari quella strana prova in mezzo ai birilli potrà migliorare il controllo della sfera o l’abilità nella sua gestione. Che noia, però. Si lamenta il fatto che molti giovani si allontanano dal calcio. E’ naturale. Quello che sperimentano non è il gioco del pallone. E’ un logorante strazio pomeridiano che non serve nemmeno ad allentare le tensioni scolastiche. I ragazzi devono essere lasciati liberi di esprimersi. In tenera età non occorre che gli allenatori siano maestri di quello sport, ma educatori che tengono monitorata la situazione. Per citare nuovamente Allegri: “E’ molto semplice”. Due porte, una “boccia” e il gioco è fatto. Non esiste nulla di più allenante di una partita. Il match riassume tutto: aerobica, ripetute, fatica, controllo della sfera, fasi di gioco e magari anche un po’ di sano agonismo. Quest’ultimo è sovente dimenticato per la legittima paura del dolore fisico. Il calcio di alto livello, però, contempla anche una certa combattività e risulta molto più pericoloso sperimentarla in età avanzata senza esserne abituati già in precedenza. I più capaci avranno, poi, tutto il tempo per approfondire ogni aspetto tecnico-tattico di questo magnifico sport. Non solo Tevez, ma anche Messi e Cristiano Ronaldo sono cresciuti senza troppe gabbie ed è così che si diventa campioni…