Qualche giorno fa, tramite il proprio sito ufficiale, la UEFA ha reso nota la lista dei 50 giocatori in lizza per una nomination nell’ormai ricorrente Team of the Year, il premio annuale che, attraverso un sondaggio online, ufficializza la miglior formazione della stagione composta da giocatori di tutta Europa che si sono particolarmente distinti sia nelle competizioni nazionali che in quelle europee. Un premio istituito nel 2001 che, da allora, sta avendo un notevolissimo impatto nel mondo del calcio, dal momento che rappresenta un’importante rampa di lancio per giovani emergenti in attesa del grande salto, oltre che un premio che potrebbe impreziosire la bacheca di un prestigioso campione d’altri tempi. Nonostante si tratti di un riconoscimento personale, il Team of the Year costituisce l’identikit di ogni singola squadra, di ogni singolo campionato, dando vita ad una sorta di tracciamento dal quale si può risalire allo status di un determinato club, o, più in generale, di una determinata competizione nazionale. La presenza di un numero elevato di giocatori provenienti dallo stesso campionato influenza notevolmente il peso di quest’ultimo nel panorama calcistico europeo e, di conseguenza, in quello internazionale. Che si tratti di Juve, Milan o Inter, Barça, Real Madrid o Atletico, Liverpool, Tottenham o Chelsea poco importa… conta esserci! E un campionato, in relazione al proprio blasone, alle proprie spese e a tutto ciò che ruota attorno al denaro, conta (o forse dovrei dire spera) sulle squadre partecipanti per incrementare sempre di più il proprio prestigio e il proprio profitto sperando di arrivare sulla vetta dei campionati europei che, malgrado non comporti riconoscimenti, è il più grande desiderio di ogni presidente di Lega. Il punto è che la Serie A, la nostra amata Serie A, sta assistendo ad un incredibile declino in campo europeo considerato che le nomine per giocatori provenienti dal campionato italiano nel Team of the Year si stanno facendo sempre più rarefatte e lo scorrere delle lancette non ha fatto altro che aumentare la voragine che continua a separare il calcio italiano da quello inglese, tanto per citarne uno, o da quello tedesco che, seppur presenti grossi dislivelli tecnici tra le squadre partecipanti alla Bundesliga, può vantare la presenza di giocatori dal calibro di Lewandowski, Neuer, Haaland, Sancho, Sabitzer e via dicendo. Il campo si restringerebbe ancora di più se andassimo a considerare la rappresentanza italiana al Team of the Year… solo due giocatori (Immobile e Barella)! Che significa tutto ciò? Si tratta di semplice retorica eloquente con il solo scopo di gettare benzina sul fuoco oppure il calcio italiano s’è cristallizzato permanentemente?

Inadeguatezza e sistemi antiquati
L’Italia è un Paese in cui si vive per il calcio e si crede nel calcio non solo per intrattenimento, come del resto si pensa possa essere per un comunissimo sport, bensì anche per la mole di passione e arte che genera contemporaneamente. Il calcio è un concetto estrinseco dal resto dello sport, perché è arte, fede e bellezza allo stato puro che lo rendono, indubbiamente, uno degli sport più amati ed apprezzati.
L’Europa, fin dagli albori, è sempre stata il centro di massa attorno al quale gravitava tutto il mondo del calcio, attratto da ciò che questo sport rappresentava e continua tuttora a rappresentare sia dal punto di vista sportivo che dal punto di vista socio-emotivo dal quale il calcio ha tirato fuori il meglio di sé. Grandi corazzate hanno sempre affermato il proprio dominio in tutto il mondo, l’Italia si è sempre presentata vezzosa, forte, una potenza sconfinante in grado di surclassare gli avversari soggiogando coi propri ritmi, coi propri stili, coi propri capolavori. La storia del calcio, in Italia, è sempre stata ricca di momenti felici, fiorenti, alternatisi con periodi di buio più totale, questi ultimi molto meno frequenti dei primi, anche se negli ultimi anni, qualcosa è andato storto. Lo storico Triplete vinto dall’Inter nella mirabolante stagione 2009-10 segnò la fine di un’epoca per il calcio italiano, un capolinea che è stato fatale per tutti noi, il passaggio dal periodo di massimo splendore all’istantaneo collasso che ha reso il nostro Paese una miniera vuota. Il tricolore veniva sempre più nascosto dalle svolazzanti bandiere spagnole, inglese o tedesche che, pian piano, hanno imposto il proprio dominio nel calcio che conta relegando la bellezza del calcio italiano alla sola e misera Serie A. Cosa c’è che non va? Dov’è il problema? Apparentemente, nulla di strano se non altro per il fatto che un nuovo decennio era appena cominciato. In realtà però, la luce della ragione era troppo fioca per apparire di fronte a noi, contenti, gioiosi per il trionfo del calcio italiano, inconsapevoli del fatto che il cambiamento fosse alle porte. Passarono pochi anni e il calcio mutò. Guardiola introdusse il tiki-taka che regnò sconfinatamente sia in Spagna che in Europa monopolizzando le partite con interminabili fasi di possesso palla costringendo l’avversario a rimanere sempre sulle difensive, invece gli inglesi e i tedeschi improntarono il sistema di gioco sull’intensità e sulla fisicità, verticalizzando quanto prima le azioni, supportando la fase offensiva con ottimi terzini di spinta e compattando la retroguardia con un pacchetto difensivo di assoluta fisicità. Dinanzi a tale potenza, il calcio italiano sopperì come se fosse rimasto inebriato dallo stravolgimento calcistico che aveva interessato l’Europa, restando in posizione defilata rispetto ai Paesi emergenti. Eravamo diventati inadeguati, eccessivamente rodati. I nostri tatticismi che, qualche anno prima, avevano portato il Milan di Ancelotti a vincere due Champions League, due Supercoppe europee e un Mondiale per club e l’Inter di Mourinho a conquistare il Triplete, erano caduti in disuso, dissipati dal calcio moderno.

La fragilità del calcio italiano
Basta giri di parole… la Serie A sta raccogliendo poco a causa di un progetto a lungo termine pressoché nullo, complice la consapevolezza dei propri mezzi che però, ha portato al crollo del calcio italiano rispetto all’avanguardia europea.
Scendendo più nel dettaglio ingigantiremmo la questione, in quanto l’Italia fallisce sotto molti punti di vista, motivo per il quale l’arduo compito di risalire dalle macerie si sta rivelando più complicato del previsto. I giovani, ad esempio, rappresentano il fulcro dei problemi nel nostro Paese, visto e considerato che i club di punta del nostro campionato preferiscono puntare su profili rodati, esperti, con un bagaglio calcistico alle spalle molto ampio e, per quanto questo possa rappresentare un vantaggio per conferire spessore alla squadra, i giovani non troverebbero più il giusto spazio per mettere in mostra le proprie potenzialità con conseguente calo delle prestazioni. La mentalità è completamente fuori luogo! Va cambiata! Questo paradossale meccanismo che regola il calcio racchiuso tra i confini italiani è controproducente sia per i talenti del panorama calcistico italiano che verrebbero troncati sul nascere che per le squadre di club che non avrebbero a disposizione quella componente frizzantina, dinamica che solo un gruppo affiatato di baby-calciatori può formare. I giovani sono il futuro! Il passare del tempo, a discapito delle aspettative, sta confermando ciò che di buono s’era visto sul Milan, un club che negli ultimi anni ha avuto non poche difficoltà nell’affermare il proprio dominio in Italia ed in Europa, ma che con un gruppo poco blasonato ma molto giovane sta mettendo a repentaglio le squadre che, almeno sulla carta, avrebbero dovuto allungare il passo sulle altre. Ibrahimovic rappresenta il cuore della squadra alimentata da giocatori ai quali, fino a non molto tempo fa, non era riconosciuta la giusta importanza nell’ambiente rossonero ma che, poco a poco, si stanno ritagliando il proprio spazio capovolgendo le aspettative. L’investimento sui giovani e le spese poco ingenti stanno dando ragione al Milan. Che sia di lezione all’Inter o alla Juve che, puntualmente, sperperano i propri budget tralasciando l’effettiva arma vincente! Quest’Italia, secondo me, sta assistendo ad una delle più umilianti disfatte in campo europeo che confermano l’operato intelligente di chi investe poco calibrando le spese, a discapito di chi, invece, non gestisce sapientemente il budget messo a disposizione dalle rispettive società. Per avvalorare la mia tesi non ho bisogno di spiegazioni paranormali, ma di una semplice dimostrazione, o forse dovrei dire, di una semplice formazione. Nel Team of the Year 2020, tra gli undici premiati, de Ligt è l’unico esponente della Serie A, mentre di italiani non c’è traccia.

È inutile girarci intorno… la Serie A ha bisogno di una rivoluzione! I problemi e le difficoltà legate alla competitività da parte delle compagini italiane nelle competizioni europee hanno via via incrementato il loro raggio d’azione, rendendo così, l’assenza dalle grandi sfide il pane quotidiano per il nostro calcio. “Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare.” L’eloquenza nascosta nelle parole di Winston Churchill non è solo retorica, bensì la chiave di volta per trovare l’occasione giusta per una svolta nella vita che, il più delle volte, si traduce in miglioramento. Bene, traslando questo discorso alla Serie A, si evince che, ponendo come denominatore comune la voglia di rivalsa nei confronti del resto d’Europa, il cambiamento deve ripartire dalle fondamenta, quelle che, prima o poi, conducono al traguardo.