Forse di tutte le storie che ho raccontato, questa batte ogni limite, sicuramente quella dell'età, e già perchè oggi vi racconto la storia di Donato 'Delfino' Scandogli, oggi ultra centenario ma con una memoria di ferro, e ve ne accorgerete nelle cose che racconta. Quindi vi porterò a leggere quel che mi ha raccontato in questa 'intervista' di soprese varie.

Mi chiamo Donado Scandogli, sono nato a Nettuno il 19/01/1920 da padre e madre contadini. Quando ero bambino amavo correre, già sembrerebbe una cosa normale, ma io mi facevo dieci chilometri al giorno, questo è il fatto, andavo da casa, che era più spostata verso la campagna, verso la città a fare la spesa, eh sì, anche perchè essendo figlio unico i miei genitori dopo tutta la mattinata a raccogliere, poi bisogna vedere la stagione; patate, frutta varia, tornavano a casa che dovevano riposare, erano tosti, questo bisogna dirlo, ma non avevano quella forza di tornare a casa e affrontare una camminata simile per fare compere. Così fin dall'età di sei anni, mi facevo queste lunghe e interminabili corse-camminate fino a Nettuno. Ricordo che arrivavo in questi negozietti, allora non era come ora, e facevo segnare, cosa significa? Che prendevo le cose senza pagare, perchè per il saldo poi passava mio padre nel fine settimana. All'epoca era di moda questa cosa, c'era il rispetto reciproco, quindi si faceva credito soltanto con chi ci si poteva fidare. Mio padre spesso portava loro, per ringraziarli, prodotti dalla campagna. Non sono andato a scuola, purtroppo non potevo, dovevo fare le veci dei miei genitori. Papà Umberto, era forte, anzi fortissimo, era un cristone di 2 metri con una forza abominevole, tirava le mucche che s'impuntavano e che non ne volevano sapere di tirare l'aratro. Mia madre Concetta invece era una forza della natura sotto il profilo canterino, pensare che il suo canto lirico si sentiva da molto lontano, era sempre allegra anche quando era stanca, aveva sempre in volto quel sorriso affettuoso. Il padrone del terreno, il sor Faustino, era coetaneo di mio padre, ed aveva un figlio Calogero, dato dalla sua infanzia siciliana, che giocava al calcio con l'Anzio Calcio, che distava da noi di pochi chilometri, e così quando non doveva andare ad allenarsi ci trovavamo nel pomeriggio a giocare insieme, era anche molto istruito e mi insegno a leggere e scrivere, e così che poi di conseguenza imparai mia madre a leggere e scrivere. Come detto giocavamo insieme, io facevo il portiere, proteggevo una porta fatta di legno, e lui mi tirava da ogni angolo della loro immensa tenuta. Più il tempo passava e più carpivo come e dove potesse tirarmi, e cominciavo ad intuire e parare i suoi tiri, e più gli paravo e più mi tirava forte, ma anche quelle più forti erano divenute in poco tempo facili da parare. Così un giorno mentre stavamo giocando si presentò nella tenuta un distinto signore, il signor Quinto, che nell'attesa di parlare con Faustino seguiva il nostro giocare, la palla rotolò proprio verso di lui che disse "Sei pronto? ti faccio gol da qua". Ero gracile, ma allo stesso tempo forte nelle gambe, così mi piazzai, gambe arcuate e sguardo fisso sul pallone, tiro e la palla entrò all'incrocio dei pali, rimanendo fermo a guardarla, una palla a giro che non potrò mai dimenticare quanto perfetta fosse stata. Così continuammo a giocare, mentre il padre di Calogero era arrivato a parlare con quel signore. Questo continuò ad essere il mio passatempo per un anno. Nel 1927, Calogero, che aveva un anno più di me, mi venne a chiamare a casa - anche se casa non la si poteva chiamare, era una vecchia mangiatoia per animali, che mio padre aveva accroccato alla benemeglio, quindi era confortevole al quanto umida, ma ci si poteva vivere per quel che ci potevamo permettere - e mi disse che il signor Quinto mi aveva proposto alla squadra dell'Anzio Calcio per fare un provino come portiere. Mio padre allora mi disse "Che aspetti ad andare?", così con Calogero ci facemmo una corsa verso la sua casa, ero più veloce tanto che mi disse "Non riesco a starti dietro, rallenta un pochetto", e così feci tra le mille risate. Faustino quindi ci carico sul suo carro trainato da un asino di nome Brullo e ci dirigemmo verso Nettuno, dove poi ci aspettava Quinto che ci avrebbe portato ad Anzio. Il viaggio non lo potrò dimenticare, scomodissimo, ogni buca era un colpo doloroso per la schiena, arrivammo a Nettuno una mezz'oretta dopo e poi ripartimmo a bordo di una Alfa Romeo 20-30, così si chiamava, rosso fuoco, era di un signore parecchio benestante amico di Quinto che ci portò fino ad Anzio. Il viaggio durò meno di venti minuti, eravamo a meno di cinque chilometri, e quella macchiana era una vera e propria potenza, bellissima, tanto che dissi al proprietario "Un giorno me la comprerò anche io", tra le risa di Quinto che mi disse "Quindi sarai ricco? Lo spero per te, perchè ne avrai bisogno di soldi".

Anzio era sul mare come Nettuno, stessa spiaggia stesso mare, però aveva più abitanti, ed era più caotica, certo rapportata ad oggi i può dire che quello era solo un piccolo brusio, scendemmo dall'auto controllati a vista dal proprietario che aveva paura anche di un piccolo briciolo di terra. Entrai così per la prima volta in un centro sportivo, dove campeggiava uno stendardo con scritto 'AS Anzio 1924'. Ricordo che quel giorno ci trovammo al cospetto del presidente, una persona comune, che aveva fondato questa squadra nel 1924 e che con le sue forze finanziarie teneva in piedi la struttura, del resto chi vi giocava non era stipendiato come oggi, ma ripagato sotto cibo, visto che il signor Pallimeno era proprietario di più terreni in Anzio e poco fuori e quindi possedeva ogni ben di Dio da mangiare. Aveva due squadre, quella dei bambini dai 5 ai 12 anni e quella degli adulti per lo più una squadra del dopo lavoro. Così da ragazzino sfacciato mi presentai "Donato Scandogli, portiere al suo cospetto signore!", questi mi rispose "Riposo ragazzo, riposo, non siamo mica in Guerra, quella è finita da un bel pezzo".
Non avevo nulla per giocare, tanto che il signor Pallimeno dopo alcuni minuti mi portò un paio di pantaloncini bianchi, che mi stavano alemeno due volte, una maglietta blu, un berretto, perchè per lui il portiere portava il berretto, di colore nero, e un paio di scarpini, che dire usati è poco, sembravano più sul viale del tramonto che appena acquisiti, e mi disse: "Sei pronto a divenire il nuovo Combi?", non sapevo nemmeno chi fosse quello che poi sarà stato il portiere più forte degli anni 20-30, ma feci un sorriso e risposi "Più forte signore, più forte!" e mi piazzai in porta.
La squadra non era segnata in nessun campionato, non aveva ancora i permessi, quindi ci si trasferiva ad Anzio soltanto per allenarci-divertirsi e provare a crescere sotto l'occhio arguto di Vincenzo, Vincenzino per tutti, che allenava sia i grandi che i piccoli. Ricordo che da quel tuffarmi a destra e manca, che pensavo fosse solo quel che dovesse fare un portiere, a degli allenamenti estenuanti, se pensiamo che dai sei anni ai dieci mi allenavo poco meno del portiere dei grandi. La sera ero stremato, ma pensavo che i miei genitori ogni giorno si spezzavano la schiena per farmi magiare, e quindi lo facevo anche per loro e non mi lamentavo mai, anche se i dolori erano lancinanti. Nel 1930 a 10 anni comincia ad allenarmi con il portiere della squadra maggiore, che mi faceva notare dove sbagliavo, e così con i suoi insegnamenti affinai la posizione e soprattutto il respingere il pallone, e capire quando un avversario stava per calciare il pallone facendomi capire dove sarebbe arrivato in base alla coordinazione.
Nel 1935 all'età di 15 anni, entrai in prima squadra, Calogero nel frattempo aveva smesso di giocare, il padre lo aveva messo a lavorare con lui, quindi ogni volta che dovevo scendere ad Anzio lo facevo a bordo di una bicicletta che proprio il signor Faustino mi aveva regalato. Quindi ciclismo e pallone, alla fine le mie gambe erano divenute d'acciaio, sentivo una forza immane dentro e lo slancio sembrava sempre più facile tanto che quando mi allenavo, spesso mi sentivo dire "Ma come hai fatto a parare questa?" rispondevo con un pugno chiuso. Nel frattempo la squadra si era iscritta al campionato di Prima Divisione Regionale, dove cominciai a fare da riserva a quello che mi dava le dritte per allenarmi meglio. Dopo una stagione sempre in panchina, nel 1936 fui chiamato a giocare la prima di campionato da titolare. Il giorno prima della gara il portiere titolare, che non poteva giocare perchè si doveva sposare, mi disse "Ricordati quello che ti ho insegnato e vedrai che sarà tutto più facile", ed aveva ragione. Ricordo che mi piazzai in porta come un carrarmato che protegge la sua città, nessuno doveva passare, e nessuno passò. Parai l'impossibile, guizzavo da una parte all'altra dell'area. Anticipavo l'attaccante che tentava di entrare in area, uscivo di testa sulle palle alte fuori area, mi tuffavo a faccia avanti per bloccare il pallone su i piedi dell'avversario, e uscivo negli angoli in prese sicure. Dopo quella gara una ragazza che assisteva a quella gara mi disse, lo ricordo perfettamente e poi vi spigo perchè "Tu sei un Delfino, sguizzi e carpisci prima di quel che sta per succedere", quella ragazza è oggi mia moglie, lo ricordo perchè spesso lo ricordiamo anche con i miei figli e nipoti. Quindi da quel giorno entravo in campo come Donato e mi trasformavo in Delfino. Spesso sentivo la gente che mi diceva "Ma che ci fai qui? Tu sei sprecato". Non ci facevo caso, io mi trovavo bene, era o pochi chilometri da casa e feci orecchie da mercante, continuando la mia strada, tanto sapevo che prima o poi avrei dovuto cominciare a lavorare e che avrei dovuto lasciare il calcio, che per me era un divertimento non proprio un futuro.

Così passarono le stagioni, quando all'età di 18 anni al termine di una gara casalinga, un signore distinto mi disse "Vorremmo offrirle la porta della nostra squadra, e le daremo un lauto compenso", su due piedi risposi: "Quale e dove si trova soprattutto la sua squadra?" Mi rispose: "La Viterbese, a Viterbo", risposi "Viterbo? E dove si trova?", mi disse "A 150 km da qui". Dopo qualche minuto di riflessione risposi: "Non credo di poter venire, io qui ho la mia famiglia che necessita del mio aiuto", allora mi disse: "Ne parli con la sua famiglia e poi mi faccia sapere, mi trova a questo recapito". Così tornai a casa e ne parlai con mio padre e mia madre, loro erano al quanto titubanti, non si fidavano, però volevano che io scegliessi il mio futuro, così gli dissi "Papà, mamma, io voglio provare, se dovesse andare male, torno e lavorerò con voi in campagna".
Così presi quei quattro stracci che avevo e mi presentai all'indirizzo appena due ore dopo. Partimmo con questo signore di nome Furio Alberto, che mi parlava della storia della società Viterbese, di quello si aspettavano per il futuro, sembrava un vero e proprio progetto, cosa che fino a quel momento non pensavo si facesse se non nei campionati maggiori. Dopo due ore di viaggio in auto, arrivammo a Viterbo, allo Stadio del Littorio chiamato però da Furio Alberto 'Palazzina', ancora oggi non so perchè era soprannominato così. Ma prima di entrare, questa specie di direttore della società mi portò, a spese sue, a comprare dei vestiti consoni, quindi di tutto punto, ci presentammo allo stadio, molto grande, se pensi che non ne avevo mai visto uno in vita mia, e poco dopo conobbi l'allenatore, che mi riportava tutto quel che l'osservatore, quel che io credevo un dirigente fino a pochi minuti prima, Furio Alberto gli aveva raccontato "Allora Delfino...", ed io "Mi chiamo Donato, Delfino è un soprannome", e riprese il discorso "...Ah, Donato, vabbè noi ti conosciamo e utilizzeremo il soprannome, quindi Donato almeno in campo è abbandonato. Come ti avrà ben spiegato Furio Alberto, noi siamo una squadra che punta sempre al meglio, e quando mi è arrivata la notizia che c'era un portiere che faceva applaudire gli spettatori per le sue parate, allora non ho fatto altro che spedire l'osservatore e farti convincere ad accettare".
Così, dopo avermi fatto girare il campo, tra parole e parole di tutta la storia e quel che volevano dalla squadra, vidi anche lo spogliatoio, era tutto a puntino, davvero uno stadio con i contro fiocchi. Dopo essere uscito dallo stadio, venni portato in una casa, che era di proprietà del proprietario della Viterbese, che ho visto un paio di volte di sfuggita, senza mai parlarci. Avevo una casa tutta mia, pensando che con la mia famiglia vivevamo in una mangiatoia non più grande di 30 metri quadri; una cucina, dove mi dilettavo a fare da mangiare, un camera da letto, un bagno, parecchio grande. Nei dintorni c'era una visuale pazzesca, natura, tranquillità, dove potevi sdraiarti in terra e chiudere gli occhi e rilassarti come in nessun altro posto del mondo. Non potevo contattare la mia famiglia, non avevamo un telefono in casa, ma chiamavo il mio amico Calogero, e gli dicevo il giorno che chiamavo e potevo parlare con mio padre o mia madre. Firmai il mio primo contratto da 30 Lire al mese e iniziai la mia prima stagione 1938-1939, da portiere titolare, giocavamo nelle categorie minori, in Prima Divisione, la squadra utilizzava il nome Gil Viterbo.
Capii fin da subito che non era per niente facile, la squadra non era all'altezza del campionato, e dentro c'erano le due squadre più forti del Lazio; La Roma e la Lazio, i giallorossi erano una squadra formidabile, la Lazio meno ma pur sempre forte. Nel frattempo dovevo prestare servizio militare, ma con la malattia di mio padre, che lo teneva più di là che di qua, e così dopo essere partito per Roma appena due settimane dopo fui congedato per poter fare le sue veci da sostituto capo famiglia. In campionato nell'intento di fare bene, scordai le posizioni in classifica, che avrebbero demoralizzato chiunque, e giocavo come se si stavamo giocando la promozione ogni anno, e riuscivo a chiudere il cervello da tutte le cose che si dicevano sulla nostra squadra soprattutto in trasferta. In campo ero osannato dai tifosi, il nostro stadio era sempre stracolmo di gente: e chi le aveva viste così tante persone tutte insieme? Le mie parate le accompagnavano con un applauso forte quanto era stata la parata, una volta feci un vero e autentico miracolo, arrivando con uno slancio con la mano di richiamo sotto l'incrocio dei pali su una punizione dal limite dell'area, quella è stata immortalata da un signore che poi me la regalò e la conservo con me.

Tre anni passarono come fosse nulla, tornavo a casa da i miei una volta al mese, e proprio nel giorno del mio compleanno il 19 Gennaio del 1941 alla porta di casa trovai quella ragazza che mi aveva marchiato a fuoco quel soprannome nella mente di tutti 'Delfino', era lì per comprare delle patate per la sua famiglia, e mio padre che mi accolse per primo mi disse "Ti piace è? Non te la far scappare". Così si presentò "Sono Asmara piacere", così con la scusante che il sacco era pesante, la invitai a pranzo e a festeggiare il mio compleanno, i miei 22 anni. Così da quel giorno che la riaccompagnai a casa, iniziò la nostra frequentazione, anche se io ero distante mi telefonava negli orari che gli avevo dato e ci sentivamo per quel poco che si poteva, anche perchè le bollette erano salate anche al tempo.

Poi arrivò la Guerra nel 1942, poi chiamata la Seconda Guerra Modiale, e dovetti scappare, perchè proprio nei giorni degli allenamenti il campo la città di Viterbo venne bombardata e lo stadio ridotto ad un rudere. Tornai a Nettuno, e dissi alla mia ragazza che volevo sposarla, perchè non sapevo se l'avessi più rivista per questo in fretta e furia dopo due giorni organizzammo il nostro matrimonio, con il terrore, che arrivassero i bombardamenti che poco distanti si sentivano come fossero a due metri. Arrivammo all'altare e pronunciammo le fatidiche parole, poi via a casa, lei alla sua e io alla mia. Arrivarono i tedeschi e invasero anche Nettuno. In quel periodo vivevamo nel terrore, ogni giorno avevamo fuori dalla porta casa i militari tedeschi che ordinavano addirittura cosa volevano mangiare a mia madre e  le cose che mio padre che non si reggeva in piedi doveva portargli dal campo. Furono tempi duri, io aiutavo mio padre e la sera alle 8 eravamo rintanati in casa. Furono due anni davvero brutti, si aveva la sensazione di non essere mai in pace. La famiglia di mia moglie scappò ben prima del loro arrivo e si trasferirono in un luogo sconosciuto al di fuori del Lazio, che poi si rivelò Arcinazzo Romano, tutto così fino al 1944, quando grazie allo storico 'Sbarco di Anzio' gli alleati statunitensi che con una lunga battaglia e grandi perdite riuscirono a far battere in ritirata le truppe tedesche.
Il dopo guerra fu di ricostruzione, io e mia moglie con quei soldi che avevo messo da parte e nascosto sotto terra nel tempo di Guerra decidemmo di trasferirci a Viterbo, con mio padre che si era pian piano ristabilito da quella lunga malattia, ma non  prima di ricevere la notizia che mia moglie era rimasta incinta del nostro primo figlio Artemio.
Partimmo per Viterbo quindi l'anno seguente, 1947, mio padre con i suoi risparmi mi pagò il viaggio per andare a Viterbo e dei soldi per il bambino che aveva da poco compiuto un anno. E già mi ero talmente trovato bene che ci volli tornare e appena arrivato, contattai Furio Alberto, già prorpio il mio scopritore, che mi aiutò a trovare casa, e poi una volta stabilito mi riportò allo stadio, pian piano tornava a splendere anche grazie alla gente del posto che aiutò con le proprie mani a ricostruire quel che i bombardamenti avevano distrutto. Con grande stupore rincontrai alcuni compagni di squadra, anche loro avevano abbandonato Viterbo in quel tempo per poi farvi ritorno alla fine di tutto. Mi fu richiesto di tornare a giocare, ma declinai l'offerta, preferivo avere la certezza di un buon posto di lavoro, ma ogni domenica, seguivo la squadra in casa e fuori, mi aggregavo al gruppo qualsiasi sia stata la destinazione. La Viterbese nella stagione 1945-1946 era riuscita ad iscriversi alla Serie C, e in quella squadra ci giocava un certo Sandro Ciotti, sì, proprio il radiocronista di Minuto per Minuto, lo conobbi ed era un buonissimo mediano di grandi doti, davvero un giocatore molto bravo, non per questo entrò fin da giovanissimo nelle fila della Lazio.
Il campo mi mancava, però avevo deciso che quel poco di celebrità mi sarebbe bastata per sempre, ora c'era da accudire mia moglie e mio figlio e poco dopo un anno un altro figlio, che arrivò come un fulmine a ciel sereno. Trovai lavoro presso una falegnameria, dove ho avuto anche l'arduo compito di costruire le porte da calcio. I miei figli seguirono le mie orme loro hanno fatto una carriera discreta, ma sono arrivati fino in fondo, uno il portiere, l'altro il libero, quello che oggi è pressapoco il difensore centrale. A settanta anni andai in pensione, anche se potevo andarvi prima, ma quel lavoro mi piaceva talmente tanto che non volevo saperne di andarmene.

Oggi vivo da pensionato e... forse qualcuno mi dirà: a 101 anni avresti ancora il coraggio di lavorare? Ebbene sì, infatti ogni giorno curo il mio giardino, e non pensate sia di un metro quadrato ma di ben dieci metri quadri, che per un giovane non sono nulla, ma per me basta e avanza per passare la giornata. Le partite di oggi le ascolto come un tempo, dietro una radio seduto in poltrona, e quando sento un... grande parata! Mi torna in mente quella parata che feci sotto al sette.
Non mi resta che salutare tutti i lettori di Vivoperlei.calciomercato.com, è stato un onore poter raccontare la mia storia e farla conoscere a tante altre persone.
Un saluto

Ringrazio per tutta la passione che Donato ha messo nel raccontare le sue gesta in campo, accompagnate da molte fotografie del tempo, una la metterò proprio qui, quella della formidabile parata che entrò nella storia, seppur breve, del 'Delfino' di Nettuno.