Che la motivazione risiedesse nell’età avanzata che galoppava, nei conti da far tornare in un’azienda di famiglia fino a quel momento benevola coi suoi capricci , oppure in interessi elettorali che si andavano affievolendo, sta di fatto che dalla vendita di Kakà (circa), condita dalle smentite di rito, Berlusconi aveva deciso che il suo tempo al Milan era finito.

Come ha lui stesso dichiarato in un attacco di verità difficilmente discutibile, non rimetterci e molto, dalla gestione di un colosso sportivo come il Milan era pressoché impossibile. La mancanza di uno stadio, soprattutto di tutto l’indotto che uno stadio gestito all’avanguardia come il Bernabeu reca con se, di proventi da diritti televisivi all’altezza degli enormi budget d’oltremanica, l’incapacita’ o impossibilità di sfruttare il merchandising rossonero in modo efficace in tutto il mondo, non potevano, giustamente, essere più compensati dai denari che il cavaliere metteva di tasca propria ogni anno.

Fino a qua le argomentazioni, le motivazioni, se spiegate chiaramente alla tifoseria, sarebbero state accettate, perché non si può avere sempre la vetta del mondo coi denari altrui: posta la vicenda in questo modo, con molta trasparenza, evitando accuratamente le improbabili iperboli di gloria futura, chiaramente impossibile dati i presupposti, sarebbe stato il modo più signorile di congedarsi.
Magari mettendo da parte per un istante l’ego smisurato che avrebbe causato sofferenze al tifo per anni.

Tuttavia il mito dell’invincibilita’, l’incapacita’ di accettare ed ammettere i propri limiti economici e di gestione non più al passo coi tempi ha rovinato tutta la meraviglia costruita nei due decenni precedenti.
Solo chi non conosce il cavaliere anche in altri ambiti, quali quello politico, può stupirsi della scelta comunicativa e gestionale che ha scelto di  adottare.

Sbarazzatosi de fastidiosi signorno’ (che quasi sempre coincidevano con profili competenti, leggi Braida), circondatosi di esecutori accondiscendenti, la scelta fu quella di imbastire il più grande banchetto della storia coi fichi secchi, decidendo di fatto di scalfire per sempre la sua immagine presidenziale.

Non si saprà mai il vero motivo, se non appunto quella pienezza di sé, per la quale Kakà era intoccabile la sera stessa in cui veniva venduto al Real, oppure il fatto che Bacca sarebbe stato l’erede di Inzaghi e Sheva, o ancora per quale motivo a tifo e stampa venivano somministrati bocconi di una inconsistenza disarmante: ”siamo a livello del Barca”, mentre arrancavamo per non arrivare sesti in campionato.

La favola o storiaccia del Mila del secondo millennio è tutta qua: ad errori comunicativi e di fatto, se ne aggiungevano sempre di più in termini di campagne acquisti surreali con l’aggravante di indebolire anno dopo anno il fisico debilitato del Milan: questo avrebbe portato a far sì che il suo valore, già compromesso da dati oggettivi, svilisse in poco più di un quinquennio.

Fu fatta una scelta evanescente, di immagine, perfettamente aderente al personaggio che a torto o ragione, ha saputo in tutti gli ambiti vivere effimeri ma sostanziosi anni alla ribalta assoluta, per poi tornare dietro le quinte al 2% di gradimento. Il problema è che con se ha trascinato il Milan e buona parte del suo futuro.