C’è una zona nella magica scozia, un posto in cui storia e sport si fondono alla perfezione, in un caleidoscopio di colori, erba e ricordi immortali. Tra castelli e piccole dune di torba, ogni centimetro di terra respira ancora la stessa aria di lontane epoche. Il medioevo pare essere ancora attuale in quella zona dove, se si guarda bene, si possono ancora vedere fluttuare antichi blasoni di famiglie dimenticate, signorie perdute, corti disperse. Ma se si aguzza ancora meglio l’orecchio, se si cerca di silenziare per un istante l’incessante corso dei propri pensieri, si può udire ancora uno strano frusciare. Come un colpo di frusta, un bastone che percuote con dolcezza il vento, alla costante ricerca di un qualcosa, il colpo perfetto, il fendente di una spada anomala, non creata per ferire, ma per sognare.
E se si segue quel suono, se si lascia l’inutile logica ancora un po’ nel suo silenzio, si può superare la scivolosa collina del tempo e guardare oltre. Guardare verso l’orizzonte dove, poco prima di intravedere la linea del mare, ancora oggi sorge un campo meraviglioso.

Se hai fortuna e se la giornata è sufficientemente tersa, in quel campo puoi anche vedere lui. Là, in mezzo a quei lunghi e splendidi fairway, tra qualche pozza di sabbia e dei laghetti paludosi, puoi vedere un uomo in camicia e cravattino. Tra le mani tiene una mazza da golf, l’origine di quel suono che ha voluto seguire, anche se non ne sapevi il motivo. È solo un uomo, che in quel gesto ripetuto pare essere alla ricerca di qualcosa. Come se stesse cercando di essere un tutt’uno con il campo attorno a sé, la mazza tra le sue mani, il cielo sopra la sua testa. Persino con te, che lo stai osservando inerme, incapace di staccare lo sguardo da quel suo gesto continuo. E poi, quando finalmente lo trova, anche tu lo puoi vedere. Puoi vedere lo swing perfetto e, in esso, vedi l’essenza più pura di una passione che ancora oggi chiamiamo sport. 

Il campo di St. Andrews è una delle piste da golf più famose al mondo. È la più antica, ma è soprattutto la pista su cui Bobby Jones, uno dei più grandi golfisti e sportivi della storia, costruì la propria storia.
Bobby Jones. Non sono molte le persone ancora in vita che possono dire di averlo visto giocare. Nel suo tempo la televisione ancora non esisteva. Anche i pochi filmati che si hanno delle sue gesta non gli rendono giustizia. Bobby Jones fu infatti una vera e propria leggenda vivente, destinato a varcare i confini del tempo, come a pochi altri viene concesso nella storia dello sport. Un uomo che non solo giocava a golf in maniera splendida, ma che era il golf egli stesso. Nella sua carriera, egli vinse il cosiddetto Grande Slam, ovvero la conquista dei quattro tornei più importanti nel medesimo anno.
Ma la cosa straordinaria, e che ancora oggi molti si sorprendono nello scoprirlo, è che Bobby Jones fece tutto ciò da dilettante. A differenza di molti suoi avversari, come il famoso Walter Hagen che sfidò in numerose competizioni, l’uomo dallo swing perfetto non era un professionista, ma un semplice amatore. In un mondo come quello odierno, una cosa simile sarebbe a dir poco impensabile. A dire il vero, lo sarebbe stato anche al tempo in uno sport amato e già diffuso come il golf. Essere un dilettante, allora come oggi, significava non avere sponsor o fondi a sostenerti economicamente alle tue spalle. Gli unici proventi di cui potevi godere erano quelli che ti dovevi sudare sul campo. Se perdevi, te ne tornavi a casa a mani vuote. Per prepararti, dovevi trovare il tempo dopo una lunga giornata di lavoro, quando faceva buio e le forze scarseggiavano dopo ore passate in fabbrica o dietro una scrivania. Se avevi la fortuna di vincere qualcosa, forse i soldi guadagnati ti permettevano di iscriverti al torneo successivo e magari qualche giornale parlava di te, per qualche tempo. Quando invece la fortuna non ti arrideva, non c’era anima pronta ad osannarti, nemmeno un buon samaritano a darti una pacca sulla spalla. E tutto questo per cosa? Per una passione? Già, una grande passione, quella dello sport

Al giorno d’oggi, usiamo la parola dilettante per descrivere un qualcuno di inesperto, di inferiore in una determinata disciplina. Ogni parola però dice esattamente ciò che vuole comunicare, al di là di cosa pensi la gente, di come cambino i tempi e persino le culture. Il dilettante è colui che si diletta, colui che fa qualcosa per semplice piacere, senza un reale secondo fine. È colui dunque che coltiva una passione forte, spende del tempo per essa, lo ruba al resto della sua vita. Non si sa bene il perché. Non c’è guadagno in una simile pratica, non c’è reale scopo. Eppure, quando il dilettante entra in quel campo tanto amato, quando afferra la sua mazza, o la palla, o qualsiasi altra cosa comporti la sua passione, il mondo sembra cambiare attorno a sé. Quella cosa che sta facendo senza apparentemente alcuno scopo, essa diventa la più importante della sua vita, l’unica che abbia reale significato. E questo proprio perché non ha scopo, non ha guadagno, non ha obiettivo che vada al di là della stessa passione.
Essere dilettante significa proprio questo: praticare una passione per poterla sentire, per poter cercare quel qualcosa che nemmeno sappiamo, ma che è lì, da qualche parte, dentro di noi.

Negli anni ’30 di campioni di golf ne esistevano un po’ in tutto il mondo. Molti di questi, come il già citato Walter Hagen, avevano sponsor e banche pronti a finanziarli solo per colpire quella maledetta pallina. E vincevano, eccome se vincevano, per carità. Non erano professionisti mica per niente. Eppure, non c’era nessuno che riusciva ad attirare le folle come quello spilungone biondino. Quando Bobby Jones toccava il campo, in particolare se era quello del St. Andrews da lui tanto odiato e tanto amato, pareva che le stesse maree, i tramonti, i colli e le stagioni stesse si affacciassero all’orizzonte per osservarlo. Osservare il suo swing perfetto, un colpo nel quale il potere di un’intera passione di addensava in un unico momento, una singolarità infinitesimale. In esso, silente e potentissima, c’era l’essenza di cosa significa fare sport, di cosa significa fare qualcosa semplicemente perché lo si ama. Il dilettantismo è il vero cuore dello sport, ciò che lo muove, ciò che lo forma, ciò che gli dà motivo di esistere. Per quanto lo possiamo costantemente dimenticare, soprattutto oggi dove lo sport è il letto di un fiume ricolmo di denaro, lo sport stesso non lo dimentica mai. E quello swing, quel colpo perfetto, se guardiamo bene lo possiamo ritrovare in un bambino che gioca nel campo dell’oratorio, nella pausa del dopo lavoro mentre alcuni amici si fanno una sgambata. Esso può apparire dovunque la passione sia vera e incondizionata, così come dovrebbe essere lo sport, vero e incondizionato. 

C’è stato un tempo in cui un dilettante come Bobby Jones ammaliava il mondo intero con il suo swing. Poteva vincere, poteva perdere, poteva gioire, poteva infuriarsi. Ma ogni volta, il suo swing valeva molto più del prezzo del biglietto. Questo perché lui giocava a golf semplicemente perché amava quello sport. E nel suo swing si sentiva. Un qualcosa che non si può comunicare e, forse, è un bene che le telecamere di oggi, con i loro effetti in ultra hd, non abbiano ripreso. Perché se così non fosse, forse non potremmo goderci quel suono sordo. Il colpo di frusta del suo bastone, la sua passione che fende l’aria, il suo spirito immortale che solca i campi del mondo intero. La sua storia narrata non solo da libri o biografi, ma persino dal vento e dalle ferme piante. Possiamo udire questa storia, se lo vogliamo.
Di campioni veri come lui non ce ne sono stati molti, ma probabilmente ce ne saranno ancora.
Sino a quando qualcuno colpirà un pallone, correrà su una pista, muoverà un bastone semplicemente per diletto, perché lo vuole, perché ama farlo, allora forse un nuovo Bobby Jones, non importa in quale sport o pratica, tornerà ad allietare e appassionare questo mondo. 

Plaudi il giocatore, invidi il professionista, osanni il dilettante!