Nella vita e in natura tutto è ciclico, figuriamoci nel calcio. In quest'ultimo contesto, però, si può fare in modo che il cambio da un ciclo all'altro sia il meno traumatico possibile; bisogna naturalmente saper agire per tempo e con giudizio.

Due società che in passato si sono sempre distinte proprio per buon senso e capacità di rinnovarsi cambiando pelle a seconda delle esigenze sono Chievo e Udinese, che sembrano però ormai aver smarrito questa loro capacità. Gli ultratrentenni ancora ricordano ciò che sono state le due compagini tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio dei Duemila, quando erano capaci di produrre un gioco divertente e di lanciare talenti sconosciuti verso palcoscenici di livello assoluto. Più esterofila l'Udinese, più predisposto a lanciare talenti nostrani il Chievo, ma la sostanza è più o meno la stessa.

Con gli anni le cose sono ovviamente cambiate: tutte le concorrenti hanno imparato ad attrezzare meglio le loro reti di osservatori e nel contempo il divario tra 'ricchi' e 'meno ricchi' si è accentuato, con i secondi che avevano quindi meno possibilità di accaparrare per sé quei talenti non ancora noti al grande pubblico.

Tutto ciò ha costretto a un cambio di programma probabilmente involontario: sia Chievo che Udinese hanno infatti optato, con il passare degli anni, per un calcio più redditizio che bello da vedere, con i primi che hanno scelto una politica fortemente conservativa dal punto di vista del parco giocatori e i secondi che hanno continuato, da par loro, a puntare su delle scommesse che però hanno finito con il diventare troppe tutte insieme.

Le due realtà sono ovviamente diverse tra loro e in modo differente vanno analizzate. Da un lato il Chievo: società sempre esemplare nel far quadrare i conti, quest'anno ha subito una forte 'mazzata' dal punto di vista morale - ancor prima che pratico - dal caso-plusvalenze.

Per tanti anni i clivensi hanno vissuto delle intuizioni di un fenomeno come Sartori, fautore del miracolo Atalanta di cui non si parla mai abbastanza; successivamente al suo addio, le intuizioni tecniche sono sempre state sufficienti per garantire la permanenza nella categoria fino a quest'anno, ma il mercato è sempre stato orientato a una certa staticità, tanto che la rosa odierna conta ben due quarantenni (Sorrentino e Pellissier), un trentasettenne (Cesar), un trentacinquenne (Frey), tre trentaquattrenni (Rossettini, Giaccherini, Meggiorini) e due trentatreenni (Andreolli, Hetemaj). Lo scorso anno in rosa c'erano anche il classe 1979 Dainelli, il 1980 Gobbi e il 1981 Gamberini, più Birsa e Cacciatore (entrambi 1986) che hanno fatto parte della squadra sino alla prima metà di quest'anno.

C'erano però anche due pedine importanti come Castro e Inglese mai adeguatamente rimpiazzate e un tecnico come Maran che, al netto del crollo nella seconda parte di stagione che ha condotto al suo esonero, ha dimostrato a Cagliari di valere la Serie A. Scelte fin troppo conservative che, capitate in un'annata partita storta per la penalizzazione ricevuta e per la difficoltà nel trovare un tecnico adeguato (incomprensibile, in tal senso, la parentesi Ventura) hanno portato a un tracollo senza precedenti per i veronesi.

Da definire i termini di una rinascita che si annuncia tutt'altro che semplice: il paracadute destinato alle retrocesse dovrebbe essere piuttosto consistente visto che il Chievo proviene da tanti campionati di A, ma la base per far bene in cadetteria è tutta da costruire.

La scoperta di Vignato è una lieta novella (sempre che le prevedibili sirene di mercato non finiscano per sottrarlo alla corte di Campedelli già da questa estate), c'è la possibilità di puntare su Stepinski come prossimo superbomber della Serie B, Leris e Kiyine hanno fatto intravedere delle buone cose, Bani, Rigoni e Depaoli possono costituire il resto dell'ossatura portante, ma vista la potenziale difficoltà del prossimo campionato di cadetteria, per puntare a un pronto ritorno in A servirà un consistente e mirato rinnovamento da operarsi in sede di mercato.

L'Udinese non è invece nella stessa situazione compromessa nel Chievo ma si trova a rischiare per il secondo anno di fila, dimostrando di non aver fatto tesoro delle difficoltà vissute nella scorsa annata. Per ragioni di visibilità e di conseguenti ricavi, i Pozzo puntano forte sul Watford e si trovano di conseguenza a investire meno sul loro primo amore calcistico, che peraltro - con il nuovo impianto e un tifo importante - avrebbe ancora ottime potenzialità da sfruttare.

L'errore di fondo commesso dalla dirigenza friulana è quello di insistere su un modello che ormai non è più praticabile: se prima erano loro ad arrivare per primi sugli Asamoah, sugli Isla, sui Benatia, sugli Alexis Sanchez e sugli Handanovic, oggi ottenere questa esclusiva è difficile e comunque non bisogna dimenticare che quando l'Udinese arrivava terza nel 2011/12, ad affiancare i nomi sopra citati c'erano Domizzi, Pinzi, Di Natale, Pasquale, Pazienza e Floro Flores. Uno zoccolo duro di italiani esperti che consentiva ai più giovani e talentuosi tra gli stranieri di esprimersi al meglio senza che dovessero soffrire troppa pressione.

I bianconeri di oggi, invece, si sono affidati a una serie di scommesse provenienti da campionati di seconda fascia spendendo peraltro una cifra considerevole (per gli acquisti d'oltreconfine fatti nell'estate del 2018 si superano i 25 milioni, a cui vanno aggiunti i 20 versati per Mandragora) sperando che si "autoformino" e siano in grado di creare da soli un'entità di gruppo che, nella realtà dei fatti, non può che essere eterogenea.

Dopo i rischi della stagione 2017/18, sarebbe stato forse il caso di rinunciare a qualche scommessa per portare a casa un po' di usato sicuro, visto che poi a gennaio si è dovuti correre ai ripari affidandosi all'esperienza di De Maio, Sandro e Okaka, con i primi due che peraltro sono stati 'scartati' da dirette concorrenti per la salvezza come Bologna e Genoa.

Anche se l'Udinese si dovesse salvare, come per la stagione precedente il traguardo sarebbe da ascriversi a demeriti delle dirette concorrenti più che a meriti propri: cinque tecnici cambiati in due stagioni e un'accozzaglia di presunte possibili rivelazioni che non ha poi prodotto risultati sul campo sono lo specchio di un modo molto lontano di fare calcio rispetto a quello a cui ci aveva abituato la società bianconera sino a non troppi anni fa.