Seguire soltanto la direzione del vento. Un modello di vita, un modo di pensare o di fare che caratterizza molte persone. Lo fanno perché preferiscono sfruttare la scia della positività, o magari perché non hanno un’idea stabile né su se stessi e né su ciò che li circonda. Un modo di fare e di pensare che non definirei nemmeno bipolare, ma semplicemente tipico di una banderuola: infatti, prendendo il dizionario, leggo esattamente testuali parole, e cioè “essere una persona volubile o molto influenzabile, che cambia facilmente opinione così come una banderuola girevole su un perno cambia direzione secondo il vento”. Quindi, cosa accade, che quando qualcosa va come dovrebbe andare, allora ci si bagna di euforia, ci si tuffa nella spensieratezza e si brinda al “per sempre così”; quando invece, le cose non vanno come dovrebbero, iniziano i primi malumori: smorfie, facce bronce e dissidi che tentano ad acutizzarsi fino a rompere definitivamente il giocattolo. E quando il giocattolo si rompe, è finita. Si darà un’occhiata, una panoramica generale, si alza il dito, si avverte la direzione del vento e, come una banderuola, si andrà nella nuova direzione. Insomma, basta poco per cambiare idea. Non serve chissà quale decalogo, chissà quale prodotto scenico. Basta poco per mutarla e un’infinità per mantenerla; basta che qualcosa non va per il verso giusto da poco tempo per riprogrammare tutto da capo e voltare pagina. Non siamo esseri pazienti. Esistono, si, non lo metto in dubbio, ma le eccezioni non fanno una totalità e tenderà a regnare sempre la maggioranza, la massa. E quindi, qual è questa maggioranza? Quella che segue la direzione del vento, la cosiddetta bandieruola. Nella vita quotidiana è possibile avvertirlo questo tipo di atteggiamento. Anzi, non solo nella vita quotidiana, ma ovunque. E se per quotidiano (magari riferendoci alla professione) diventa il mondo del calcio, allora lo vediamo applicato tutti i giorni. Sono molte più le panchine che saltano rispetto a quelle che si saldano e questo perché? Beh, semplicemente, perché l’impazienza sovrasta la pazienza e si tende a ricordare un momento negativo, culminato con cinque sconfitte consecutive, piuttosto che un momento positivo, decretato da dieci vittorie positive. In questo clima incandescente, emerge una figura, un futuro scudo quando il buon vento smetterà di essergli amico e un’ottima protezione per il futuro giudizio mediatico: parlo di Stefano Pioli.

Il tecnico parmigiano è stato spesso definito dai media come un normalizzatore, ovvero un allenatore volto a portare normalità. Questo perché, nella squadra in cui approdava, quando prevaricavano momenti di instabilità, momenti in cui bisognava riportare la barca verso la corrente giusta e spostarla da quella che invece la stava facendo naufragare, Stefano Pioli rispondeva sempre presente. Prima del 2014, le richieste che hanno formato la sua esperienza da allenatore, hanno dondolato continuamente tra Serie A e Serie B. Solo al Parma nel 2006 e al Palermo nel 2011 gli han fatto provare l’ebrezza internazionale con l’Europa League (con il Parma si chiamava ancora Coppa Uefa). La svolta arriva nel 2014, quando, a giugno dello stesso anno, diventa il nuovo tecnico della Lazio. Qui c’è una prima crepa, la quale ci arriveremo attraverso diversi flashback. Dopo due anni, diventa il tecnico dell’Inter, dove arriva la rottura definitiva. Il suo compito era quello di traghettare la squadra nerazzurra, riportarla a giocare ad un calcio “normale”, equilibrato e, i dirigenti, potevano contare su di lui, grazie all’esperienza pluriennale di cui godeva nel massimo campionato nazionale italiano. Grazie al “gioco” creato con la Lazio, ora doveva riportarlo lì, all’Inter, senza chissà quali aspettative o richieste: il suo compito era semplicemente sedersi in panchina, dare indicazioni ai ragazzi e accontentarsi della rosa che componeva la squadra. Stop. Nulla di più e nulla di meno. Come fa un vero normalizzatore.

Ma in tal modo, dandogli un appellativo del genere, si è completamente capovolta l’importanza, anche personale per certi versi, di Stefano Pioli. Proprio con la squadra gestita da Claudio Lotito, il buon tecnico, raggiunse il terzo posto, quando allora valevano i preliminari di Champions. Un traguardo, non solo importante per lui (il risultato più appagante legato al curriculum), ma importante anche per la Lazio, perché sarebbero approdati ai preliminari di una competizione che non li vedeva partecipi da ben otto anni. Un tecnico che aveva gestito al meglio una panchina del genere: non solo l’importanza del terzo posto, ma una posizione che, nel bene o nel male, era oggettivamente pregiata; un modo di scendere in campo tutt’altro che normalizzante o equilibrato, ma capitanato da un modo di giocare aggressivo (durante la sua prima stagione la Lazio era la squadra che aveva commesso più anticipi, più falli e più contrasti) e non privo di verticalizzazioni. Insomma, peculiarità che non ne facevano la figura di un semplice normalizzatore. In tutto ciò non voglio affermare che Stefano Pioli sia il miglior allenatore in circolazione, ma è stato appellato dai media con tale aggettivo, che ha portato tutti – tifosi, diversi giornalisti, opinionisti – a considerarlo tale. Pioli non è quell’allenatore dove ci si può mettere a tavolino e costruire un progetto, ma è un tecnico che, se chiamato in causa, può non far naufragare la strada e portarla sulla giusta direzione. È un ottimo capitano da stagione in corso, ma che non gli vale la possibilità di fermarsi, ancorare la nave, fare i giusti preparativi e salpare verso nuove prospettive. Questo è quanto percepito leggendo i giornali e guardando trasmissioni calcistiche, influenzando la percezione anche dei dirigenti delle società.

Con il Milan, invece, sembra essergli stata data quella possibilità di guidare questa tanto attesa nave anche per le due prossime stagioni. Tale decisione è stata comunicata qualche giorno fa da Ivan Gazidis, amministratore delegato del Milan, affermando che la scelta di continuare con Stefano Pioli non è avvenuta in seguito agli ultimi risultati, ma che è frutto di vari pensamenti e ripensamenti ed è piaciuto il “modo in cui ha fatto sua la nostra visione, e su come trasferisce la sua personalità e i valori del nostro club”, aggiungendo che “ha migliorato le prestazioni dei singoli giocatori e del collettivo”. Effettivamente, postlockdown, il Milan è stata ed è ancora una delle migliori squadre del nostro campionato. I dati parlano chiaro: zero sconfitte (eccetto quella ai rigori in semifinale di Coppa Italia contro la Juventus, ma comunque nei novanta minuti è prevalso lo 0-0), quattro pareggi (tra cui uno in semifinale come scritto nella riga precedente) e sette vittorie. Un Calhanoglu in forma pazzesca, un Ibrahimovic in stato di grazia, un Kessie padrone del centrocampo e un Gigio Donnarumma che firma 200 presenze in A con un rigore parato a Malinovsky. Una rosa che va, che sembra essersi scrollata il male di dosso, che sembra aver ripreso una continuità arrivata, si troppo tardi, ma come dice il detto, meglio tardi che mai. Solo che in tutta questa favola bella, c’è qualcosa di anomalo, qualcosa che stona dentro le note di una sinfonia esternamente perfetta, bella e soave nel leggerla, ma burrascosa, tempestosa e disordinata al suo interno.  

Il lavoro di Stefano Pioli è impeccabile senza ombra di dubbio. Ha dato animo ad una squadra in una piena crisi di nervi, a causa di questa malattia che ha praticamente bloccato il mondo intero. E non è per niente facile, perché non tutte le squadre – parlando di big – hanno avuto la stessa reattività. Beh, il Milan del tecnico parmigiano, ha abbattuto il sistema mediatico che lo dava per spacciato. Ma al di là dei risultati, il suo destino sembrava esser già segnato dall’ombra costante di Ragnick che lo ha perseguitato per tutto questo tempo. Non voglio dire che non gli abbia fatto dormire sogni tranquilli, anzi, Stefano era già consapevole che, nel bene o nel male, il prossimo anno avrebbe dovuto far posto all’ex allenatore del Lipsia, quindi aveva l’anima in pace. Ciò che lo ha contraddistinto è stata l’estrema serietà del suo operato: mai una parola fuori posto, sempre a difesa dei suoi giocatori che sapeva già che, di lì a qualche mese, non sarebbero più stati i suoi, testa alta dopo una sconfitta e tanto amore nella sua professione. Insomma, Stefano Pioli si è ritagliato un’ottima fetta della sua torta che, a mio modo di vedere, si meritava già ampiamente. E non dico solo alla luce degli ottimi risultati con il Milan, ma in generale. Purtroppo, il mister, viene etichettato con questo termine che ha portato un’influenza omogenea distribuita a tutti gli strati delle società e delle tifoserie. Detto in altre parole, viene considerato un big se subentra a stagione in corso, quindi da normalizzatore, ma snobbato se si siede su una panchina a inizio stagione. È un’ottima protezione se le cose vanno male, “eh ma era Pioli, cosa potevi aspettarti?”, ed è un buon affare se le cose vanno bene. E con il Milan non è stato altro che questo. È stato scelto a suo tempo al posto di Luciano Spalletti per non pagargli la buona uscita dal contratto con l’Inter ed è stato confermato al posto di un arrivo certo di Ragnick. Perché, se avessero preso il tecnico tedesco, non avrebbero potuto permettersi di sbagliare. È ovvio. Con Pioli si invece. Possono permettersi di sbagliare con lui, perché non avrà la stessa risonanza dell’errore commesso per un altro allenatore, in questo Ragnick. Il buon Stefano Pioli è un capro espiatorio perfetto, il vento che porta attualmente serenità, dove la dirigenza del Milan ha trovato un’ottima culla ove agiarsi. Ma anche un ottimo scudo, aggiungerei, ai mali che verranno. Perché io al mister auguro tutto il bene e il meglio per la sua squadra, ma ci sarà un momento in cui tale ingranaggio non funzionerà più. E le parole di Gazidis, e cioè il “modo in cui ha fatto sua la nostra visione, e su come trasferisce la sua personalità e i valori del nostro club” sono fuorvianti. Belle parole, al momento giusto ma in un contesto letteralmente sbagliato. Stefano Pioli non ha fatto percepire realmente questo alla società. Essa ha trovato in lui una protezione tale da nascondere le diffidenze e i rischi verso il tutto per tutto per l’altro allenatore tedesco. Detto più “volgarmente”, gli ha fatto comodo. Uno scudo formato da belle prestazioni, da un Milan aggressivo, arrembante, divertente e con giocatori rivitalizzati.
Ma che succede quando questo effetto poetico cesserà? Cosa succede quando questi valori di cui parla l’amministratore delegato del Milan alzeranno bandiera bianca? Cosa succede quanto il buon vento che sta portando l’allenatore non soffierà più in quella direzione?

Spero il più lontano possibile, ma quando accadrà, avranno già trovato in lui un ottimo scudo dove proteggersi.