Trasversale, radicale. Muta la giovane ed ambiziosa carriera di quel ragazzo, avvolto dalla pressione, fatale nella psiche debole del campione normale di Simone Scuffet, colui che ha patito la discendenza ed il legame ad una terra che mai lo ha compreso, un rapporto altalenante che lo forgiato, ne ha creato la maturazione di chi, troppo presto, ha colto la ribalta. Simone è cresciuto nel mio paese, un borgo ridente alle porte di Udine, nel quale abitano 6.000 anime. E’ un ragazzo timido, mai estroverso nel suo essere, una figura calcistica differente rispetto ai coetanei. Il padre, probabilmente, è la persona più umile e simpatica che abbia conosciuto: bidello nelle scuole medie frequentate dal sottoscritto, nonostante la fama ed il benessere procurati dal figlio. Personaggio iconico all’interno delle mura istituzionali, semplice in ogni circostanza. Simone ha mosso i primi passi in un ambiente sano, costituito dalla consapevolezza di dover creare da sé la propria figura. La passione per il calcio lo ha contraddistinto, elemento che ha accresciuto il proprio status, autore del quid in più per proclamare il realizzarsi luminoso dell’avvenire.

Il compimento della sua principale ambizione, rappresentare con orgoglio la maglia bianconera, è giunto precocemente, spiazzando qualsivoglia razionalità sulle sue aspettative. Ho sempre seguito con curiosità il suo sviluppo, l’ho sostenuto nel suo percorso. Non la tifoseria friulana, pretenziosa, un tono rivolto in maniera altezzosa nei suoi confronti, un mea culpa, espressione in voga e proclamata da Guidolin nelle sere infauste d'Europa, dell'odi (principio nato per la mancata comprensione sulle volontà di Simone) et amo. Le pressioni hanno reso il campione più umano, arso di tensione e timori, i più obnubilati celati in famiglia e patiti sul campo. L'erede dell’Handanovic delle notti magiche d'Europa, pesa. E poi la chiamata dell'Atletico Madrid, la possibilità di spiccare il volo, ergersi in un contesto prestigioso. Il giovanissimo, allora 18enne, optò per l'amore della maglia, declinò. Scelta che forse ne precluse lo sviluppo? No, un'opportunità per migliorarsi.

Stramaccioni non sfruttò l'assist di Guidolin, relegandolo alla panchina. Le causali di tanta indifferenza non hanno certezze, ma si riconducono all'ultimo spiraglio della sua miglior versione, poi dileguatasi. Ha sbiadito, vero, ma chi mai ha compreso Scuffet, il campione normale? La perfezione è per il chiunque, l'ambizione al gotha, quel plus che è consuetudine ricercare ad alti livelli. Tuttavia, le entità di Simone sono differenti: ha scelto, scatenando malizia nel chi lo vedeva come il post Buffon, la cadetteria, un bagno d'umiltà che lo rende differente ed orgoglioso. Nulla nella ricerca dell'apogeo è davvero esso. Le sliding doors non hanno mai chiuso. "Non ho ripensamenti, quando ho preso delle decisioni nella mia vita l'ho sempre fatto pensando di fare la cosa migliore. Vado avanti per la mia strada, dopo un primo anno in cui ho fatto alla grande si erano create tante aspettative su di me". Devono bastare tali parole per capire che l'unico errore l'ha commesso il pubblico, ottuso, continuamente sull'ottica secondo cui per aspirare a diventare il numero 1 bisogna approfittare delle porte che si aprono.

Dal "no" agli spagnoli si passa al giorno successivo a scuola, a svolgere le prime tre ore di lezione. Al termine della ricreazione, che trascorreva con i compagni, la fuga al "Bruseschi". Gli allenamenti duri e poi i compiti, cosi ha trascorso il primo scorcio di carriera. Bramava d'esser bandiera nel calcio di plastica. Fiducia della società fulminea, come il tempo nel quale acquisita. Rapida perché incolore, nei tratti di un dipinto mai compreso realmente, le cui sfumature mal si sono combaciate con le esigenze del pittore, talmente elevate da comporre una frattura. Ha sempre curato con dedizione ciascun aspetto della propria vita, dando al calcio la priorità, creando un connubio con la conclusione degli studi. Se, però, ascoltiamo chi lo conosce ed analizziamo le sue parole, intuiamo oltre al lapalissiano amore per la sfera, la non smaniata volontà postagli erroneamente da media ed appassionati di replicare la pesante carica dell'erede di Buffon. Scuffet ha preteso normalità, affrontare lo sport col piglio della leggerezza e del divertimento. Ciò gli è stato negato al primo errore, tanto da costringerlo nei mesi più complicati a staccare dalla tecnologia.

Debole, maledettamente debole, voluto cosi dalla società dell'ambizione: contestazioni che lo hanno segnato. La storia di Ilicic fa riflettere: lo splendore e la quintessenza sono un must della vita del calciatore, quel sembrare, che, per alcuni, è un macigno insostenibile. Social, poi, l'ennesima vicenda errata, con minacce di morte ed insulti a scalfire un animo nobile. Esclamazioni contenenti poche ma letali parole, stile toccata e fuga. Esse siglano il tracollo: il friulano lascia i social, talvolta lasciando il simbolo della frenesia spento (il telefono), che sempre vuole in contatto una società connessa. Analogamente a ciò che è stato il responso di sei anni di Scuffet, viene sovente chiedersi la colpa degli alti e bassi. La mente, perché, in una costante evoluzione, nel corso della sua crescita, si accende in chi comprende la realtà il conscio dell'atleta. Talento Simone ne ha sempre avuto: in allenamento si è preso il suo scenario idilliaco, lui preferisce così, lontano dai riflettori. Non è il difetto, è l'ammissione delle capacità del campione normale, differente dalla smaniata rincorsa all'oro condotta dagli pseudo esperti pronti ad analizzare l'andamento per i singoli meriti tecnici.

Al "Bruseschi" è differente dall'essere sotto la Nord o a San Siro, lì dove era nessuno, sgombro da paure o aspettative, ad acquisire le luci, siglando l'ingresso in uno spettacolo dove va scritto il finale. Il limite, confinante tra la possibilità di spiccare il balzo o divenire fenice, abbagliando dapprima con un segnale attraverso le ceneri, è a detta dei più un paradosso, il freno alla scorbutica ascesa. E’ la scienza di Freud che conduce all'azione estetica, dal rinvio lungo al miracolo sotto il sette. Scuffet ha ricercato gli aspetti negativi, ne ha tratto virtù positive, non abbattendo quelle negative, uno scoglio insormontabile da varcare a piccoli passi. Lo ha subito, inizialmente con gran dolore, agendo non da protagonista, bensì da ottimo interprete di un film dove, il gran finale, è di altri. Lui ha rappresentato l'ego non smisurato, differente, quasi isolato a condurre battaglia all'esterno. Privo di fronzoli, le sue esperienze riconducono alla riflessione di ciò che serve per accettare una mancanza, non rei di aver commesso effettivamente un errore, colpe imprescindibili che spesso macchiano, per ragionamenti altrui, gesta significative.

Porgergli l'opportunità nel diventare un'icona per il mondo friulano è stato un atto corretto. Da li in poi il declino imponderabile, che apre a tifosi e scettici l'opportunità di riflettere. Società e Scuffet entrano nel medesimo discorso: la prima, veloce, sempre in movimento, incapace di aspettare e coltivare, ed il secondo, opposto, sulla strada che conduce alla tranquillità, che affronta con fierezza l'ipocrisia del mito dello sviluppo ostinato. Intanto parliamo della sua figura come il ribelle alla conformità, l'unico campione normale in un calcio, simbolo della nostra mentalità, malato e chiuso. La lezione di vita del più umano tra i calciatori.