Diego Simeone è fatto così. Si prepara alle sfide importanti come se fosse un guerriero Maori, popolo polinesiano per cui la guerra, la battaglia, era una vera e propria arte che veniva impartita a tutti fin dalla tenera età. Per quel tipo di cultura la debolezza e la paura erano valutati come elementi disonorevoli, mentre coraggio, vigore e strategia erano considerati principi autorevoli, che facevano di chi li possedeva, persone di alto rango, meritevoli di stima, prestigio e rispetto. E il Cholismo, la filosofia che identifica il modo di fare calcio del quarantottenne tecnico argentino, ne rappresenta in maniera assolutamente sovrapponibile la versione moderna, applicata al calcio.

La capacità principale di Simeone è quella di riuscire a trasmettere alle proprie squadre questa sua personalità, questo sua determinazione. Quel carattere considerato “scomodo” e “difficile” per certi aspetti, che nel corso della propria carriera da atleta gli causò non pochi dissapori con compagni di squadra rei di ridere e scherzare negli spogliatoi dei prepartita. Questi atteggiamenti, “normali” per la stragrande maggioranza dei calciatori, lui proprio non li tollerava. Per Simeone, una volta scesi dal pullman che conduce la squadra allo stadio, si entra nell’arena e gli occhi devono essere iniettati di sangue e di fuoco, così come sulla bocca deve esserci bava, e non saliva.

E ieri sera al Wanda Metropolitano di Madrid è andata in scena una delle migliori interpretazioni di sempre di questo modo così unico di intendere lo sport e il calcio in particolare. Ma dal momento che, un guerriero per diventare un sovrano deve prima diventare uno stratega, il Cholo sé rivelato non solo una grande motivatore di anime, ma anche e soprattutto un fine tattico. La strategia messa a punto da Simeone nella partita di ieri sera era chiarissima; per accorgersene era sufficiente dare un colpo d’occhio alla formazione di partenza dei madrilisti. Il centrocampo era formato da quattro giocatori muscolari: Koke, Rodrigo, Thomas e Saul Niguez. Una cerniera centrale composta del nigeriano Thomas, una montagna di 185 centimetri di muscoli con caratteristiche più da difensore che da centrocampista e da Rodrigo, altro centrocampista dal fisico imponente e dalla grande sostanza. Contestualmente, due laterali di centrocampo schierati in partenza da Simeone, Koke, e Saul Niguez, nulla hanno a vedere con i classici esterni di qualità che vengono messi in campo in campo in un classico 4-4-2, bensì due mediani di fisico, corsa e sostanza. Sempre in questa direzione va letta la scelta di schierare al centro dell’attacco Diego Costa. Il giocatore era fermo dai primi giorni di dicembre dello scorso anno, e il Cholo sapeva benissimo che non avrebbe potuto reggere i novanta minuti, così come non avrebbe avuto la lucidità sotto porta dei giorni migliori. Ed infatti, il colosso spagnolo, nel corso del primo tempo si è letteralmente divorato una palla gol, solo davanti al povero Szczesny. Ma al Cholo questo non importava. Diego Costa, nella prima parte della gara, gli serviva per la sua muscolarità, per la sua capacità di mettere pressione alla retroguardia avversarie, per il suo andare a cercare falli e ancor di più per la qualità innata di provocatore degli avversari, elemento non trascurabile quando si vuol portare una partita sul piano della bagarre.

E infatti i primi sessanta minuti dell’Atletico sono stati giocati in maniera ordinata e compatta, soprattutto in fase di non possesso palla, con due linee di giocatori molto vicine tra loro, che seguivano perfettamente il movimento del pallone riuscendo a scivolare verso destra e verso sinistra senza mai perdere di compattezza. Una squadra corte e stretta, che grazie alla capacità di portare sempre un gran numero di giocatori a ridosso dell’area di ricaduta del pallone riusciva sempre ad arrivare prima sulle seconde palle. Inoltre, i madrilisti, grazie ad una grande densità nella zona del pallone, riuscivano a portare una pressione costante di attaccanti e centrocampisti sui portatori di palla bianconera, al fine di riconquistare la sfera nella zona più prossima all’area avversaria. Tutto questo costringeva i centrocampisti bianconeri a non poter giocare corto, obbligandoli a lanci lunghi per riuscire ad uscire dalla propria metà campo, che si rivelavano una vera e propria manna per i due difensori centrali Godin e Gimenez, imbattibili nel gioco aereo, i quali riuscivano sempre a posizionarsi due contro uno in modo da darsi copertura a vicenda, rendendo di fatto sterile l’attacco juventino. E nelle rare volte che la Juventus riusciva ad uscire palla al piede da questa gabbia affacciandosi nella metà campo avversaria, tutti i giocatori di Simeone si abbassavano dietro la linea della palla (Griezmann in quelle occasioni difendeva sulla linea dei terzini), chiudendo ermeticamente tutte le possibili linee di passaggio.

Aggredire quindi fin dal primo minuto la squadra bianconera in modo da lavorarla ai fianchi fino a sfiancarla, togliendogli fiato ed energia, per poi colpire nell’ultima mezz’ora di gioco inserendo giocatori più adatti a questo tipo di compito. Questa era la strategia del generale Simeone. Ed infatti, a partire dal cinquantottesimo minuto, una volta terminato il lavoro “sporco””, il tecnico argentino ha iniziato la girandola dei propri cambi. Ho infatti sostituto prima uno stanco Diego Costa con il fresco e motivato Alvaro Morata e a distanza di pochi minuti i rocciosi e difensivi, Thomas e Koke (che avevano esaurito i rispettivi compiti) con il francesino Thomas Lemar, giovane ala – trequartista tutto scatti e velocità e Angel Correa, estrosa mezza punta argentina. A quel punto, la freschezza dei tre nuovi entrati e la ricerca costante della costruzione del gioco fatto di fulminanti verticalizzazioni (altro che “tiki – taka”) ha fatto breccia tra le maglie degli affaticati giocatori bianconeri, spianando la strada a quel due a zero finale che ha messo una seria ipoteca a favore dell’Atletico relativamente al passaggio del turno. Qualcuno lo definirebbe un calcio da brutti, cattivi e sporchi; aspro, duro, ma senza alcun dubbio, di grande efficacia.

E di questo se ne è accorta ieri sera la Juventus, uscita devastata dal Wanda Metropolitano, come accade a quei pugili che, in balia dell’avversario, crollano al centro del ring come un sacco di patate, suonati dai pugni dell’avversario. Quella Juventus condotta da Massimiliano Allegri che a più riprese ha dichiarato come a suo avviso il bel gioco fine a sè stesso non paghi, e che per vincere non è tanto importante giocare un calcio offensivo quanto essere concreti. Può darsi che sia così, e che il tecnico livornese abbia ragione, ma essere concreti significa anche dare un gioco alla propria squadra, un sistema, un’organizzazione che fornisca ai propri giocatori quella forza e quella sicurezza che tanto è venuta meno ieri sera.

In Europa, le squadre hanno ritmo, intensità, coraggio. Corrono prevalentemente in avanti più che indietro, anche nei momenti in cui non hanno la palla tra i piedi. Ed è questo, al di là di qualsiasi altro giudizio estetico, quello che pretendono i tifosi bianconeri dalla propria squadra.

La sera del 12 marzo, vedremo se Massimiliano Allegri avrà capito la lezione e se sarà stato altrettanto bravo nel trasmettere alla propria squadra tutto il necessario per provare a riaprire questo complicatissimo ottavo di finale.