Signore e signori, Mike Maignan! 
Gambe da nubiano, cuore eburneo come la purezza dell’ardore, mani da gigante inguantate di velluto, occhi profondi, il carisma del leader. 
È il miglior portiere del nostro campionato, il successore di Lloris tra le fila transalpine, il dopo-Gigio migliore che al Milan potesse capitare.
Era il portiere che non ti aspettavi, quando la giovanissima superstar di casa nostra volava a Parigi a suon di dollarumma e lui ne prendeva il posto. Una black panter dai super poteri, che difende la sua porta come fosse l’ultimo baluardo su Wakanda. Un super topo, sgattaiolante, che sghignazza in faccia agli avversari, che s’affannano sulla sua tana. 

Non sono milanista, ma Maignan è uno spettacolo! È un portiere epico e voglio qui cantare le mani e l’uomo che dai lidi di Lille venne a Milano per volere di Maldini e costruì il Milan on fire. 
Parate impensabili, salvataggi estremi, sobrietà e spettacolarità che si condensano in un atleta formidabile, puro istinto e raffinatissima intelligenza. 
E una porta da mantenere intatta, da chiudere a chiave e buttarla, la chiave, come fosse l’ultimo dei cancelli della Bastiglia.
Già, la porta. È lì, in quei sette metri e trentadue centimetri di lunghezza racchiusi tra due alti pali e una traversa, che il mondo di Maignan si trasforma in una scatola, dentro cui Mike vive i suoi minuti migliori. 
È strana quella scatola, dentro ci vedi tutto il metamondo d’un calciatore alla ricerca della sua pietra filosofale: una linea di demarcazione come il confine tra il buio e la luce; una rete dalle maglie larghe ed infide, che sovente si gonfia di giubilo e poi torna dormiente, come un mostro mimetizzato tra i patemi di chi è lì per custodirne i segreti; tre bianchi pali ferrosi, uniti all’infinito da una strada retta, niente curve, solo crocevia della fortuna; e poi c’è il lato trasparente, all’apparenza aperto ad ogni influenza esterna, un enorme varco scoperto che scorrerie di palloni vaganti, come mine della Cambogia, cercano di penetrare. 

Ma quella è una scatola, ermetica quanto permeabile. Non di cartone, di quelle che basta una forbice per divellerla; non di plastica, di quelle che basta un qualche arnese appuntito per violarne l’integrità; non d’alluminio, di quelle come il Parlamento che Beppe Grillo avrebbe aperto ad ogni costo; non d’acciaio, di quelle che le aprono soltanto i … vabbè, lasciamo perdere. No. Quella porta è una scatola di aria e tribolazioni, ma ben più resistente della cassaforte di prima, se a custodirla c’è Mike Maignan. Un muro d’uomo, più granitico del cemento armato, senza crepe, invalicabile. 

Sto esagerando? Chiedere a Di Lorenzo, please. 
La parata che fa, sul finire della partita di andata dei quarti di finale di Champions League, sul tap-in del capitano azzurro, è ai limiti del pensabile ed è, particolare non trascurabile, determinante. Perché i buoni calciatori fanno cose buone, ma i fuoriclasse determinano. Un gol, un assist, un tackle, una parata: sono giocate che scandiscono i momenti di una partita, ma se diventano decisive sono l’impronta indelebile del campione sul terreno di gioco. 
In quella parata c’è tutta l’essenza del numero 16 rossonero, c’è la classe di un portiere di livello mondiale, c’è l’istinto del DNA, c’è la indisponibilità ad arrendersi.
Maignan è uno che non si arrende mai, neppure alla estemporaneità di una palla improvvisamente imparabile. E non si lascia sorprendere, vuol essere lui la sorpresa.
È lì, in quello spiraglio invisibile che si apre tra l’ineluttabilità della balistica e l’illogica reazione ad essa. È lì, tra il nano secondo di silenzio che precede il gol e lo stupore che segue al miracolo. È lì che un portiere fuori dall’ordinario dà corpo alla propria manifesta superiorità. È lì che la mano di Mike Maignan ha detto no a Di Lorenzo, ha detto no alle leggi della fisica. 
Sì, perché in quella parata c’è tutta l’illogicità del talento, c’è tutto il paradosso dell’unicità, c’è tutta là superiorità di un numero 1 assoluto (altro che 16!).
Ed è una delle tante sue parate speciali, per questo è talento; altrimenti sarebbe casualità, sarebbe fortuna, sarebbe episodio, altrimenti non sarebbe Maignan. 
Un portierone, si diceva una volta. 

Lo sa bene Di Lorenzo, lo sanno bene tutti coloro che hanno impattato sulle sue manone, ricacciando in gola l’urlo del gol; e lo sa bene, suo malgrado, Tatarusanu.
“Povero” Tata! (chiedo scusa anticipatamente per l’abuso che adesso farò di virgolette, ma non saprei come meglio descrivere la situazione in cui si trova Ciprian Tatarusanu). Tatarusanu non è affatto scarso, anzi. Ma la bravura è una condizione umana, è ponderabile, empirica, trascendentale.
La classe è un’altra cosa. Ecco la “colpa” del portiere rumeno, più volte fatto oggetto di critiche: essere “semplicemente” bravo, non essere Mike Maignan. Essere un bel disegno al cospetto d’un dipinto di Monet. Essere un anonimo sorcetto caruccio al cospetto dell'esilarante dopo-Gigio. 

E certo, è questo il destino dei secondi portieri. Solo che Tata deve fare i conti con gl’infortuni del suo titolare (unico “difetto” di Mike) e sono conti salati, perché anziché “godersi” una comoda condizione da secondo ben pagato, è spesso “costretto” a scendere in campo e a confrontarsi con uno che para l’imparabile. 

Non preoccuparti Tata, essere i secondi non è un’onta, se davanti hai un numero 1 assoluto; e non lo è neppure essere dei semplici portieri bravi, se davanti hai un portiere a cui Madre natura ha donato i super poteri. 
E a chi ti critica tu rispondi che “c’è più tra zero e uno che non tra uno e cento”.
Signore e Signori, Mike Maignan!