Si doveva arrivare a questo punto. Tanti, troppi i segnali che lasciavano presagire un vero e proprio disastro sportivo – e non solo, come in molti hanno già sottolineato – senza precedenti.
Perché anche quello del 1958 è un precedente giusto sulla carta, ma in sessant’anni di cose ne cambiano tante, com’è normale che sia. In un’era mediaticamente frenetica come la nostra, la cassa di risonanza di un tonfo del genere è tremendamente amplificata, senza contare che gli interessi intorno a manifestazioni di questo tipo, sicuramente già importanti al tempo, sono cresciuti esponenzialmente man mano che il calcio diventava sempre meno sport e sempre più “prodotto”.

Non si deve, tuttavia, recitar la parte dello stolto che guarda il dito mentre gli si indica la luna. L’imprecisione dei vari Immobile, Candreva e Florenzi vista ieri sera è solo la punta dell’iceberg. Si parla di giocatori validi e professionisti impeccabili che sanno fare il loro mestiere e che ieri ce l’hanno sicuramente messa tutta per evitare la disfatta.
Il punto è che l’Italia è il Paese dei pittori rinascimentali, che da sempre si sono distinti rispetto a tanti imbrattatele in giro per il mondo; è il Paese dei “quattro di via Panisperna”, che diedero un contributo incredibile allo sviluppo della fisica nel mondo; è il Paese dei Pavarotti, di Sofia Loren, di Meazza, Rivera e Baggio. L’Italia è un Paese irrimediabilmente abituato al talento, nonostante un periodo storico in cui al talento vengono anteposti i like, i followers e le visualizzazioni, secondo la mai confermata legge del “più siamo, meglio stiamo”.

La verità è che i mali che affliggono pallone nostrano sono tanti, tutti ne citano almeno uno e tutti hanno ragione. Volendo, potremmo perfino elencarli.

  • Ventura inadatto a guidare la Nazionale. Con il senno di poi è tutto facile, per quanto tante cose – a partire dal fatto che a settant’anni non si fosse mai misurato con una grande piazza – potessero lasciar presagire che non fosse l’uomo giusto. Ha senz’altro delle colpe e nemmeno poche, ma non è ovviamente l’unico responsabile.
  • L’Italia non produce più talenti. Sicuramente non abbiamo in casa dei top player, questo è sotto gli occhi di tutti. Ma molto probabilmente chi potrebbe diventarlo non riesce perché cresce dal punto di vista del carattere. Una volta i giovani venivano responsabilizzati: Baggio non è nato Divin Codino, eppure gli venne data senza troppi preamboli la 10 di un certo Antognoni (altro enfant-prodige buttato nella mischia da giovanissimo) e abbiamo visto cos’è diventato; Mancini, Maldini e Totti erano titolari o quasi a 17 anni in piazze di tutto rispetto, così come Bergomi vinceva un mondiale da diciottenne. Magari un Bernardeschi o un El Shaarawy potevano essere come loro, ma se non li metti in condizioni per diventarlo arrivano a metà carriera ad essere delle semplici incompiute.
  • Ci sono troppi stranieri nel nostro campionato. I numeri sono lì a confermarlo e la tanto sbandierata “riforma delle liste” voluta dalla FIGC non ha avuto nessuno degli effetti sperati. Si potrebbe rispondere che d’altro canto le squadre di calcio sono pur sempre aziende private e devono innanzitutto guardare al loro tornaconto ed è innegabile che, tra commissioni dei procuratori, costi dei cartellini che lievitano alle prime buone prestazioni e premi di formazione, comprare dei giovani in Italia sia diventato antieconomico. Quindi, è vero che gli stranieri sono tanti, ma a volte bisognerebbe anche sapersi chiedere il perché.
  • Sempre sugli stranieri: ce ne sono fin troppi perfino nei settori giovanili. Il discorso è evidentemente analogo, anche se probabilmente è proprio qui che si dovrebbe agire. Non sono un esperto di diritto sportivo, pertanto piuttosto che produrmi in un’analisi, lancio un possibile spunto di riflessione: poiché molti dei ragazzi stranieri che arrivano nei vivai italiani sono minorenni, possono essere equiparati ai lavoratori “adulti”? Per loro la legge Bosman è applicabile? Se per caso la risposta fosse no a entrambe le domande, sarebbe possibile introdurre delle limitazione sul numero di giocatori stranieri tesserabili almeno nelle squadre Allievi e Primavera?
  • Le scuole calcio si concentrano solo sulla tattica e sull’atletica, mentre la parte tecnica passa in secondo piano. Il discorso forse più spinoso di tutti: si potrebbe rispondere che una volta i campioni nascevano nella strada, lontano dalla disciplina talvolta frustrante imposta da certi istruttori più avvezzi a privilegiare uno scarico all’indietro piuttosto che un dribbling. Parliamo però di uno dei tanti risvolti della cosiddetta “società del benessere”, in cui i bambini non hanno necessariamente bisogno di un pallone per divertirsi e di certo non vanno a farlo per strada. A meno che non si decida di provare a farli innamorare di questo sport com’è accaduto ai loro padri e ai loro nonni, ma qui la loro parte dovrebbero probabilmente farla i media. Un esempio: in TV ci sono decine di rubriche televisive di calcio parlato ma per vedere gol e azioni bisogna sistematicamente attendere tempi biblici; può un bimbo non annoiarsi, a certe condizioni?
  • Venti squadre sono troppe per questa serie A ricca di disparità tra la parte alta e quella bassa della classifica.Altra considerazione sensata. Non dimentichiamo che le venti squadre di A e le ventidue di B sono figlie di un mostro giuridico che ci portiamo avanti dal 2003, quando il caso-Martinelli sconvolse la composizione dei campionati senza alcuna pianificazione prevista dai piani alti. Ci portiamo avanti questa situazione da quindici anni ritrovandoci solo dei campionati meno competitivi, delle squadre che dopo aver conosciuto i loro giorni di gloria hanno presto vissuto il fallimento a seguito di un tracollo tecnico-finanziario (si veda il recentissimo caso del Modena ma anche i meno recenti Lanciano, Monza, Parma, Siena, Messina, Barletta, Como, Mantova e si potrebbe andare avanti così per delle ore) e dei dirigenti che hanno a cuore il proposito di non ridurre il numero delle partecipanti a un campionato in modo da scongiurare per quanto possibile il rischio di perdita degli introiti. Il giro di vite deve arrivare, in maniera decisa, da parte dei padroni del vapore: un richiamo alla tradizione (diciotto squadre in A e venti in B vanno benissimo, probabilmente non è solo un caso se il nostro calcio in quei tempi otteneva dei risultati assolutamente positivi) e uno sguardo all’innovazione, introducendo in Serie C le cosiddette “seconde squadre”: non ha senso che Juventus, Inter, Milan e compagnia cantante mandino i loro ragazzi in prestito in sparute realtà di provincia che avranno sempre l’interesse a valorizzare un loro prodotto piuttosto che quello di qualcun altro; ha ancora meno senso tentare di rimpolpare il numero di partecipanti raccogliendo fidejussioni per l’iscrizione che già a campionato in corso si rivelano essere carta straccia. In definitiva, via alla C a 54 squadre in tre gironi da diciotto, ma in queste cinquantaquattro almeno sei (due per girone) devono essere delle “squadre B”.

Mi fermo a sei, ma si potrebbe andare ancora avanti per parecchio, puntando il dito contro i procuratori rei di spingere alcuni giocatori piuttosto che altri, contro la mancanza di strutture adeguate e di stadi che invoglino lo spettatore ad alzarsi dal divano e a seguire questo magnifico sport dal vivo piuttosto che in TV.

Ognuno ne dice una e tutti hanno, a loro modo ragione. Forse superficialmente, perché d’altro canto è difficile conoscere tutte le sfaccettature di un mondo che coinvolge milioni di persone a vario titolo, ma hanno pur sempre ragione. Sarebbe importante che dopo la rabbia, la frustrazione e la delusione, tutte queste idee non finissero nel dimenticatoio ma venissero annotate in modo da diventare il motore di un nuovo movimento.

Movimento che però può e deve avere un’unica base: quella della cultura sportiva. In cui dobbiamo certamente migliorare, dati gli ingiustificati fischi all’inno svedese e i tanti insulti social ai giocatori scandinavi da parte dei nostri sostenitori. Come a dire, giusto pretendere che chi può rimettere a posto il giocattolo faccia la propria parte, ma prima ancora guardiamoci in casa e facciamola noi, la nostra parte.