Vedere la nazionale perdere, perdere di brutto. Il 5-2 di ieri al Borussia Park è quasi una sorpresa dopo un anno di incolori pareggi e sconfitte di misura. È una nota di sorpresa dopo il pareggio con l'Inghilterra e (alla fin fine) risicata vittoria contro l'Ungheria. Discorsi sui meriti e i demeriti si possono indirizzare verso chiunque, davvero, tranne che ai tifosi. I tifosi, al fischio finale, sono sempre le vere vittime delle cattive prestazioni della squadra, no? Basta guardare le lacrime degli italiani ieri allo stadio, venuti a tifare un pezzo della propia cultura. Basta ascoltare le parole di coloro che hanno salutato con fischi e cori il pullman della nazionale...

Ma cosa succede se invece si sposta la lente da quei tifosi a quelli che la partita se la sono vista a casa, in Italia? Sfacelo, ecco ciò che si intravede o, meglio, che ti salta in faccia. Oggi tifare l'Italia (o non farlo, augurandosene il tracollo) è una specie di atto politico. Quasi quasi la nazionale la tifa solo chi sta bene, chi arriva a fine mese senza patemi, chi non ce l'ha con i politici, chi, insomma, ha ancora una immagine dell'Italia che gli viene o dai ricordi (in cui risuonano ancora le voci di Caressa e Bergomi) o che evidentemente non nutre rancori verso la Madre Patria, perché spera sempre nel suo seno.

Oggi c'è chi vede l'Italia perdere, perdere di brutto e scrolla le spalle o guardando Kimmich prenderci per i fondeli lo giustifica, ne gode. Forse come non mai nel nostro paese il calcio è una questione politica. Proprio come nei giochi di potere di salotti e poltrone, bisogna saper vincere quanto saper perdere. E chi guarda i panzer asfaltare i nostri colori ne ottiene una sconfitta di Pirro. Saprà che ci sarà la stampa mondiale a crocifiggerci, che milioni di persone imiteranno Kimmich, ma nel suo cuore coverà quel godimento strano, un po' masochista, un po' coraggioso e rivoluzionario.
Il patriottismo lasciamolo a chi questo paese lo ha lasciato.